Ed. Neri Pozza, trad. Francesca Diano, pagg. 475, Euro 18,00
“Trespassing” è il titolo
originale del romanzo “Trasgressione” della scrittrice pakistana Uzma Asmal
Khan. E, come spesso accade, la parola inglese ha un significato più complesso
di quella italiana, più rivelatrice della ricca trama del libro. Trespassing non è soltanto un
disobbedire a delle norme o a degli ordini, è anche superare un limite, una
linea divisoria tracciata, inoltrarsi in territori proibiti. Ed è quello che
fanno tutti i personaggi principali del romanzo, a vari livelli, su vari fronti.
Daanish, il ragazzo che, all’inizio del libro, ritorna a Karachi per la morte
del padre, ha fatto un balzo in un mondo nuovo, gli Stati Uniti che gli fanno
scoprire altri stili di vita; Dia, che si innamora di Daanish, supera con lui
tutte le norme che regolano il comportamento femminile in Pakistan; il padre di
Daanish e la madre di Dia, Riffat, avevano già a loro volta scavalcato una
barriera quando erano andati a studiare a Londra, dove si erano conosciuti e
amati, e poi Riffat aveva sfidato ancora le convenzioni con il suo impegno nell’industria
tessile paterna; ma anche il Pakistan stesso si trova continuamente su una
linea di confine, a dover scegliere tra stato laico e stato musulmano, tra
tradizione e modernità, stretto tra Afghanistan e India, sollecitato da Stati
Uniti e Russia.
Un romanzo a varie voci e ricco di storie ambientato a Karachi
alla fine degli anni ’80 e gli inizi dei ’90, in un Pakistan dove la vita
quotidiana è continuamente minacciata dalla violenza e resa difficile dalla
mancanza di strutture e nell’America impegnata nella Guerra del Golfo, un paese
che non è solo quello idilliaco in cui l’autunno ha i colori del fuoco e
l’inverno si ammanta di bianco, ma, a Daanish che vi si è recato a studiare, si
è rivelato intollerante e antidemocratico, un paese in cui nessuno osa o vuole
mettere in dubbio le notizie diffuse dalla stampa e in cui solo i morti
americani fanno titolo sui giornali.Come uno dei drappi di seta delle manifatture di Riffat, Uzma Khan tesse una storia in cui si intrecciano i temi della libertà e dei soprusi, dell’amore e della morte, in un paesaggio a volte coloratissimo e a volte del colore del fango sotto le piogge dilavanti. Stilos ha parlato con la giovane scrittrice Uzma Khan di politica e di letteratura, del Pakistan e degli Stati Uniti.
INTERVISTA A UZMA ASLAM KHAN
Lei è molto giovane e ha già fatto tante cose. Com’è stato, per Lei,
crescere in Pakistan? E quando ha deciso di andare a studiare negli Stati
Uniti?
Sono nata a Lahore e poi ci siamo
trasferiti a Karachi dove ho frequentato il liceo. Sono cresciuta negli anni
’80 e i primi anni ’90, un periodo difficile, quello della nostra peggiore
dittatura militare con il generale Zia.
Il paese era pesantemente oppresso e,
in più, c’era la guerra in Afghanistan, i Sovietici avevano invaso
l’Afghanistan e gli Stati Uniti combattevano i Sovietici tramite il Pakistan.
C’era un’atmosfera di paura, erano tempi pericolosi perché le armi usate per
combattere i Sovietici venivano portate nel nostro paese. Negli anni ’70 non si
vedeva mai nessuno armato, poi, improvvisamente, negli anni ’80 la gente si è
messa a comprare armi e ci sono state delle violente tensioni. Karachi è una
città in cui sono presenti molti gruppi etnici diversi; se prima l’animosità era
espressa verbalmente, allora incominciarono ad usare le armi, i sequestri di
persona diventarono la maniera più facile per estorcere soldi e intimidire la
gente; quella del sequestro non era solo un’arma politica ma veniva usata anche
da delinquenti comuni. Negli ultimi anni di liceo ho deciso che non volevo più
vivere in quell’atmosfera di paura continua, volevo andare per conto mio e
avere altre esperienze. Ho fatto domanda per una borsa di studio negli Stati
Uniti, non sarei potuta andare senza una borsa di studio perché i miei genitori
non avevano abbastanza mezzi. Sono stata ammessa in un’Università nel Nord
dello stato di New York, quasi al confine con il Canada. Il clima è stato uno
shock per me, si gelava. Ho studiato Arte, Pittura, Danza, Letteratura,
Filosofia. Poi ho scelto Letteratura.
il generale Zia |
Ha vissuto negli Stati Uniti e poi è tornata in Pakistan: ha sempre
saputo che sarebbe tornata o c’è stato qualcosa che l’ha fatta decidere per il
ritorno?
Quando ero al college pensavo solo al
presente e non al futuro, poi sono andata a studiare per il Master in Arizona.
Nello stato di New York non mi piaceva il freddo, il buio, ma la gente era
simpatica e gentile. In Arizona il posto era fantastico, mi piaceva moltissimo
il deserto, ma l’università era enorme, c’erano 40.000 studenti, ed è stato
allora che ho deciso che volevo tornare a casa e vedere che cosa potevo fare
laggiù.
In un certo senso la sua esperienza è stata molto simile a quella di
Daanish nel suo romanzo: anche Lei ha provato la sensazione di sentirsi divisa
dentro, di avere “una cerniera a lampo” dentro di sé, come lui?
La mia esperienza non è stata così estrema
come quella di Daanish: la sua è stata influenzata dall’aver studiato
giornalismo in America durante la prima Guerra del Golfo. E poi Daanish è un
uomo e l’esperienza degli uomini musulmani nell’Ovest è molto diversa. Non mi
sono sentita così intensamente isolata come il mio personaggio, ma ho provato
come lui una forte frustrazione a causa della censura. Molti sentimenti
antimusulmani che vennero a galla negli Stati Uniti durante la guerra erano
diretti più verso gli uomini che verso le donne. Non mi sarebbe capitato di
sentirmi dire che sono una terrorista perché sono musulmana. Anche adesso negli
aeroporti non vengo controllata con la stessa severità con cui vengono
controllati i musulmani con barba e turbante. E poi, nei confronti degli uomini
c’è anche un antagonismo diffuso perché si pensa che i nostri uomini non si comportino
bene verso le donne.
Era negli Stati Uniti all’epoca della Guerra del Golfo?
Sì, ero nello stato di
New York. C’era un’opposizione alla guerra, ma non era un’opposizione informata,
che conoscesse bene i motivi contro il conflitto. Era come se, una volta
stabilito da che parte stare, questo fosse sufficiente. Sulla stampa straniera
c’erano delle indicazioni che gli Stati Uniti stavano giocando le loro carte in
maniera che l’Irak sarebbe stato spinto ad invadere il Kuwait, ma non c’era
cenno di questo sui giornali americani.
Quello che Lei dice nel libro, sulla censura e sul modo in cui i media
manipolano l’opinione pubblica, sembra essere esattamente uguale a quello che è
successo nei mesi scorsi, durante la guerra con l’Irak.
Al tempo in cui ho scritto il libro non
sapevo che sarebbe successo di nuovo. Ma se milioni di persone se ne stanno in
silenzio durante un’invasione, faranno la stessa cosa quando si ripeterà
l’occasione. C’è però una differenza: la censura è la stessa, ma l’opposizione
a livello popolare è maggiore e più sincera. Bush padre è stato “migliore” nel
fare quello che ha fatto, in maniera più discreta, mentre tutti sanno quello
che fa Bush figlio. Il mondo è più pericoloso ma il pericolo è più visibile.
Com’è la situazione femminile adesso nel Pakistan? Le due madri del suo
romanzo, Anu e Riffat, rappresentano due tipi di donne, la donna tradizionale e
la donna moderna, e tuttavia entrambe
hanno acconsentito ad un matrimonio combinato.
C’è una conversazione
importante tra Riffat e la figlia Dia. La figlia è molto turbata perché la sua
amica ha accettato un matrimonio combinato e la madre le spiega che non può
giudicarla secondo i suoi valori. L’amica può avere dei motivi, si devono
capire e non giudicare. Le differenze tra obbligo e scelta sono sfumate. Per
quello che riguarda il matrimonio, molte donne pakistane sentono ancora così, a
loro piace comportarsi così, accettando il matrimonio secondo la tradizione. Ma
la situazione per le donne resta ancora molto difficile perché ci sono tuttora
delle leggi discriminanti, soprattutto per quello che riguarda l’adulterio e lo
stupro. Una donna violentata ha bisogno di due testimoni uomini per provarlo,
altrimenti è considerata un’adultera e processata per adulterio. La pena per
l’adulterio è ancora la lapidazione. Adesso ci sono molti avvocati in favore
dei diritti umani e c’è dibattito nei processi, ma la legge scritta è ancora
quella. Un altro problema è l’analfabetismo femminile: la maggior parte delle
donne sono analfabete. La colpa è in parte della povertà e in parte nella
cattiva gestione dei fondi, nella corruzione. Naturalmente la situazione è
diversa nelle città e nelle zone rurali, però si deve tener conto che la
maggior parte della popolazione vive nelle campagne.
Ci sono molte immagini di animali, in “Trasgressione”: la tartaruga
all’inizio e alla fine del libro, le conchiglie collezionate da Daanish, i
bachi da seta. Sono il simbolo per
qualcos’altro, vero?
Un motivo per cui ci sono
delle immagini di animali nel mio libro è che rappresentano le persone più
vulnerabili, come le donne in Pakistan, e poi non c’è interesse per la
conservazione delle specie in Pakistan, non ci sono specie protette. Così il
libro inizia con un episodio di violenza che anticipa anche gli altri episodi
di violenza nel romanzo e finisce con la tartaruga neonata che viene aiutata a
gettarsi in mare, a significare la speranza che la gente intervenga, che venga
rispettato quello che è naturale e quello che merita di vivere. Quanto alle
conchiglie, le associavo più o meno consapevolmente all’idea della casa,
pensavo a Daanish che lascia la sua casa che è come una conchiglia vuota e lui
colleziona conchiglie, che comunicano anche un’idea di bellezza e di perdita.
La forma delle conchiglie, poi, è simile a quella dei bozzoli che sono come delle
case generate dal corpo dei bachi, e questi sono creature piccolissime e il
libro ha molto a che fare con i piccoli che vengono sfruttati. E ancora, gli
scrittori tessono una tela di storie nei loro libri…
C’è stato di recente un episodio di violenza in Pakistan, l’assassinio
di Azam Tarip. Come vede la situazione al momento?
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista letteraria Stilos
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