Vanessa Lafaye, “Tempo d’estate”
Ed. Neri Pozza, trad. Chiara
Brovelli, pagg. 346, Euro 18,00
E’ il 1932. La prima guerra mondiale è
finita da quattordici anni. Ai veterani di guerra americani è successo quello
che ormai sappiamo succede a tutti i soldati che ritornano- si torna mai da una
guerra, in realtà?- a casa. Nessuno vuole sapere nulla, men che mai degli
orrori che hanno visto, di quello che sono stati costretti a fare, dei morti
che popolano i loro incubi. Il Governo non ha mantenuto le promesse, non li ha
aiutati a riinserirsi nella società, non ha fornito un supporto medico a coloro
che hanno subito traumi, non ha dato il bonus che si aspettavano. La marcia di
protesta dei veterani su Washington è stata stroncata. E tuttavia è stato
offerto loro un palliativo: andare a lavorare alla costruzione di un ponte a
Heron Key, una delle isole della Florida. Le condizioni di vita sono pessime,
ma è pur sempre un lavoro. I duecento veterani vivono in baracche di fortuna,
in un campo con latrine puzzolenti e un rancio disgustoso. Ogni sera si
ubriacano, la gente del posto li teme quando sono pieni di birra. Accadrà
qualcosa, prima o poi.
I presagi di sventura si accumulano fin
dalle prime pagine del romanzo “Tempo d’estate” di Vanessa Lafaye. Il caldo e
l’afa sono insopportabili, quel 4 di luglio 1932 mentre fervono i preparativi
per il barbecue sulla spiaggia per festeggiare il giorno dell’Indipendenza. C’è
tensione nell’aria ( e non solo atmosferica), si avverte un attrito celato tra
i bianchi e i neri che vivono a Heron Key, si percepiscono tensioni di coppia,
e poi c’è la minaccia dei veterani del campo, un serbatoio di violenza. Mentre
Missy, la bambinaia di colore dei Kincaid, entra un attimo in casa per
rinfrescarsi, un grosso alligatore afferra tra i denti il cesto con il piccolo
Nathan e si dirige verso la palude. E’ l’amica Selma a salvare il bambino
sparando all’alligatore prima che raggiunga le mangrovie. Una scena di sangue-
la prima- in cui ‘il criminale’ è un animale. Ci saranno altre scene di
violenza e di sangue in cui si tenta di attribuire la colpa a quelli che sono considerati
poco più di animali negli Stati Uniti in cui vige ancora la legge di Jim Crow e
un nero può essere linciato o trucidato se solo osa posare gli occhi su una
donna bianca o avere comunque un comportamento giudicato irrispettoso nei confronti
di un bianco.
Quando Hilda Kincaid viene trovata priva di sensi e con il volto
maciullato, è facile accusare Henry Roberts, il veterano di colore che, per la
felicità di Missy, è tornato a Heron Key dopo diciotto anni di assenza. Hilda
non lo aveva forse invitato a ballare oltrepassando la linea di divisione tra
la spiaggia per i bianchi e quella per i neri? Lei si era ubriacata per
dimenticare il marito che la tradiva spudoratamente, ma Henry si era
cortesemente tirato indietro. Eppure è un capro espiatorio che serve pure a
soddisfare il desiderio di vendetta del capo di polizia in cerca di chi possa
essere il padre del figlio mulatto di sua moglie.
E poi arriva l’uragano, inatteso,
selvaggio, distruttore alla massima potenza. Un’esplosione che raccoglie in sé
tutte le tensioni e che, invece di livellare le disuguaglianze, le acuisce
culminando con la drammatica scena in cui ai neri viene rifiutato il riparo nel
rifugio stracolmo di bianchi. Lascia dietro di sé morte e distruzione. Due anni
dopo i superstiti accumulano i brandelli dei ricordi ai piedi del memoriale su
cui sono scolpite due palme piegate dalla furia del vento.
E’ un bel primo romanzo, quello di Vanessa
Lafaye, un romanzo che si legge d’un fiato. Bello per i personaggi e per
l’ambientazione, perché riesce a comporre in un unico quadro avversità e
tumulti diversi- contrasti razziali, sociali e personali- sullo sfondo di un
evento naturale grandiosamente drammatico (la scrittrice ci avverte che il vero
uragano spazzò le Keys il Labor Day del 1932, ma è chiaro il valore simbolico
della scelta del giorno dell’Indipendenza).
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