sabato 30 maggio 2015

Erik Larson, “Scia di morte. L’ultimo viaggio del Lusitania” ed. 2015

                                   Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                   FRESCO DI LETTURA


 Erik Larson, “Scia di morte. L’ultimo viaggio del Lusitania”
Ed. Neri Pozza, trad. Laura Prandino, pagg. 507, Euro 18,00
Titolo originale: Dead Wake. The Last Crossing of the Lusitania.

   Il giubbotto di salvataggio lo tenne a galla e lo sollevò dal ponte di comando, ma lo scafo che affondava lo trascinò giù. “Fu come se l’intera nave mi venisse sfilata da sotto i piedi da una mano gigantesca” disse Turner. Quando riemerse si ritrovò in un arcipelago di morte e distruzione. “Centinaia di corpi vorticavano fra i detriti” disse. “Uomini e donne e bambini galleggiavano fra tavole, scialuppe e rifiuti irriconoscibili”.

      Dead wake: si chiama così, in inglese, la scia che un’imbarcazione lascia dietro di sé, come un solco nell’acqua da cui non germoglierà nulla. E, in maniera fortemente drammatica, questa espressione si carica di suggestioni di morte quando la colleghiamo con l’affondamento di una nave, quando le immagini che si affacciano alla nostra mente sono di corpi senza vita che galleggiano insieme a rottami sulla superficie di un mare ritornato calmo dopo i gorgogli, i risucchi, i vortici provocati da un gigantesco scafo che va a depositarsi sul fondo marino. “Scia di morte. L’ultimo viaggio del Lusitania” è il libro (l’autore ci tiene a precisare che questo non è un romanzo) che Erik Larson ha dedicato ad una delle grandi tragedie della prima guerra mondiale: cento anni fa, il 7 maggio 1915, il transatlantico Lusitania affondava, colpito dal siluro di un sommergibile tedesco, al largo delle coste irlandesi. Dei 1959 tra passeggeri ed equipaggio, solo 764 sopravvissero. Dei 33 bambini a bordo, 6 furono i sopravvissuti. Più di 600 passeggeri non furono mai ritrovati. Tra i morti c’erano 123 cittadini statunitensi.

    Se questa fosse una graphic novel, il contrasto del disegno non potrebbe essere maggiore. La nave che avanza maestosa con i suoi quattro fumaioli, una regina che incede sulle acque, e il sottomarino nero, il serial killer del mare che affiora guardandosi attorno furtivamente con il polifemico occhio del periscopio. Erik Larson procede nella narrazione ricostruendo e documentando i fatti, alternando i capitoli in cui è il Lusitania sulla scena e quelli in cui è l’U-20, l’Unterseeboot-20, a reclamare la nostra attenzione. E, inevitabilmente, il confronto tra Lusitania e U-20, tra il capitano Turner e il tenente di vascello Schwieger, tra civili inermi e militari, diventa un confronto tra Bene e Male, non solo come valori assoluti ma anche come potenze in guerra: la Germania che non rispetta le convenzioni e fa vittime tra i civili diventa il Male assoluto, anche se, prestando orecchio alle operazioni di spionaggio della Stanza 40, si insinua il sospetto che ci sia stato qualcosa di voluto nella mancanza di una scorta di cacciatorpediniere per proteggere il Lusitania, una manovra cinica da parte britannica per forzare gli Stati Uniti ad entrare in guerra.
Walter Schwieger
     Non è un romanzo ma si legge come fosse un romanzo, “Scia di morte”. Perché Erik Larson, con lo stile che lo contraddistingue e che già abbiamo apprezzato nell’ambientazione della Berlino ante-guerra de “Il giardino delle bestie”, riesce ad equilibrare le pagine in cui tratteggia i personaggi- il ragazzo brillante il cui corpo non sarà mai ritrovato, la famiglia con sei bambini, la donna che conosceva Henry James, il famoso Vanderbilt, la quarantina di persone la cui fine era stata decisa dal destino perché avrebbero dovuto raggiungere Liverpool su un’altra nave e invece erano stati fatti imbarcare all’ultimo momento sul Lusitania-, con quelle in cui descrive la rotta tenuta dal transatlantico (a velocità ridotta, per risparmiare carbone) e quella dell’U-20. Siamo tentati di pensare a Verne, leggendo i capitoli riservati al sottomarino, con i dettagli sul sistema di navigazione e sulla vita claustrofobica a bordo. Sappiamo però che questa non è una fantastica avventura, che il siluro colpirà la nave, restiamo con il fiato in sospeso, come se qualcosa potesse cambiare il corso della storia impedendo al tenente Schwieger di aggiungere un altro trofeo al calcolo delle tonnellate da lui affondate (nei capitoli che seguono la vita degli scampati dopo la tragedia, apprenderemo che Schwieger, insignito della più alta onorificenza della marina tedesca, scomparirà nel 1917 con il nuovo sommergibile U-88 di cui gli era stato affidato il comando).
William T. Turner 1915
      Se tutti, anche grazie al famoso film con Di Caprio, conoscono la fine del Titanic, forse l’affondamento del Lusitania non è così noto. Il viaggio inaugurale dell’uno, l’ultimo viaggio dell’altro. Il destino del Titanic in un mostro di ghiaccio candido scintillante sull’acqua, quello del Lusitania in un bestione nero delle profondità marine. E anche se la sorte del transatlantico della White Star Line avrebbe dovuto insegnare qualcosa, anche se molto era stato fatto per rimediare almeno alla insufficienza delle scialuppe di salvataggio, niente poté risparmiare il gioiello della Cunard Line, la prestigiosa compagnia navale britannica rivale della White Star. E i gabbiani che si libravano nel cielo di Manhattan perdono il loro fascino, diventano uccelli di morte sulla dead wake del Lusitania.
     Un libro per tutti gli appassionati di storia, di vicende umane e di guerra. Non solo. Un libro per tutti gli amanti del mare e delle navi.

la recensione sarà pubblicata su www.wuz.it



      

venerdì 29 maggio 2015

Elizabeth Strout, “Olive Kitteridge” ed. 2009

                                       Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
        il libro ritrovato


Elizabeth Strout, “Olive Kitteridge”
Ed. Fazi, trad. Silvia Castoldi, pagg. 381, Euro 18,50

Titolo originale: Olive Kitteridge

     Quello che i giovani non sanno, pensò Olive mentre si sdraiava accanto a quell’uomo, con la mano di lui sulla spalla, sul braccio, oh, quello che i giovani non sanno. Non sanno che i corpi anziani, rugosi e bitorzoluti sono altrettanto bisognosi dei loro corpi giovani e sodi, che l’amore non va respinto con noncuranza, come un pasticcino posato assieme ad altri su un piatto passato in giro per l’ennesima volta. No, se l’amore era disponibile, lo si sceglieva, o non lo si sceglieva.

     Per dare un’idea del piacere della lettura di “Olive Kitteridge” di Elizabeth Strout, il libro che ha vinto il premio Pulitzer 2009, pensate al piacere molto proustiano di mettere in bocca una pralina, oppure uno di quei raffinatissimi dolcetti da vecchia pasticceria con specchi e pannelli di legno alle pareti, lasciandoli sciogliere lentamente tra la lingua e il palato. Ecco, ognuno dei racconti del libro della scrittrice americana è così- prezioso, perfetto. E l’arte di Elizabeth Strout è nell’aver saputo legare insieme i tredici racconti in una maniera così sapiente e nello stesso tempo così delicata da dare l’idea di un tutto unico pur nella diversità delle storie e dei protagonisti.
    Olive Kitteridge, il personaggio che dà il titolo al romanzo, è anche quello che serve da filo conduttore, filo di seta che si vede e non si vede, perché l’insegnante di matematica in pensione Olive Kitteridge è la protagonista- da sola o insieme al marito Henry- solo di un paio di racconti. Negli altri, a volte appare di sfuggita, a volte li attraversa, a volte parlano di lei- l’effetto è che noi veniamo a conoscerla sia direttamente, quando la vediamo interagire con il marito o con il figlio, sia tramite le parole degli altri. Non è molto simpatica, Olive Kitteridge. Almeno, non all’inizio. Quando Olive va a trovare il figlio a New York, questi trova infine il coraggio di dirle: “Tu hai un pessimo carattere. Perlomeno, credo che sia carattere; in realtà non so bene cosa sia. Però sei capace di far stare malissimo gli altri. Hai fatto stare malissimo papà.” Olive ha fatto stare malissimo anche suo figlio, naturalmente. Soltanto alla fine- Olive ha ormai settantacinque anni, Henry è morto dopo anni di ricovero in una casa di cura a seguito di un ictus- sembra che qualcosa si sciolga dentro di lei: Olive è saggiamente triste; si guarda indietro, si accorge di quello che ha trascurato nella sua vita e decide che c’è ancora tempo in “quel che resta del giorno” per essere diversa, per concedersi un amore che forse non è tale ma ormai non ha più importanza. Quello che importa è scegliere di amare e quindi di vivere- “Il mondo la confondeva. Non voleva ancora lasciarlo”.

     E’ difficile dire se ci sia un tema dominante nelle storie che Elizabeth Strout racconta, in questo libro che è una sorta di “Antologia di Spoon River” di viventi. Lo sfondo è un piccolo paese del Maine, con il bar del molo, il negozio che vende ciambelle, il liceo dove insegnava Olive, la farmacia gestita da Henry. In una storia c’è una coppia giovane seduta al bar (lei ha i capelli color cannella, è magrissima- ha una di quelle malattie di moda adesso, dice Olive): si amano, si lasciano, tutto finisce in dramma. In un’altra un uomo ritorna, si ferma con la macchina davanti al mare: sua madre si è uccisa, lui ha un fucile avvolto in una coperta sul sedile posteriore, Olive si siede sul posto accanto a lui. Una pianista deve sempre bere qualcosa prima di suonare- non è più giovane, ha avuto degli amori infelici. Christopher Kitteridge si sposa (con un’arpìa secondo sua madre), va a vivere in California (ma proprio dall’altro lato degli Stati Uniti doveva andare?) e poi divorzia. “Raccogli un po’ di pettegolezzi”, raccomanda Olive al marito che va alla funzione domenicale. Si sa, in un paese piccolo tutti sanno tutto di tutti. Chissà se sapevano che Olive era innamorata del collega che poi è morto in un incidente. O che Henry passava del tempo con una vedova. Storie di coppie, di figli, di genitori, di amanti, appannate da un velo di tristezza perché la vita è così: la felicità non è mai piena, forse si deve imparare ad essere felici accontentandosi di momenti. Così come si deve imparare a fare il marito, la moglie, il padre, la madre, il figlio. E’ come se non si smettesse mai di imparare a vivere. E ad amare.

     “Olive Kitteridge” è un libro speciale- entra dentro di noi proprio come noi lettori entriamo nelle pagine del libro e viviamo fianco a fianco con i personaggi. Forse perché ognuno di loro contiene qualcosa di noi e noi ci riconosciamo in loro. Nei loro sentimenti, nelle loro reazioni, in quello che dicono, anche se le parole di Elizabeth Strout sono scelte meglio di come faremmo noi. Come quando un personaggio riflette che “ognuno dei suoi figli era stato il suo preferito”, oppure un’alunna ricorda una frase di Olive, “Non abbiate paura della vostra fame. Se ne avrete paura sarete soltanto degli sciocchi qualsiasi.” Un libro bellissimo. Da premio Pulitzer.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
a breve leggerete la recensione del libro che ha vinto il Pulitzer 2015


giovedì 28 maggio 2015

Okey Ndibe, “Il prezzo di Dio” ed. 2015

                                           Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
         Diaspora africana    
        FRESCO DI LETTURA


Okey Ndibe, “Il prezzo di Dio”
Ed. Clichy, trad. L. Taiuti, pagg. 240, Euro 14,45
Titolo originale: Foreign Gods, inc


   In realtà era proprio quella singola parola, “accento”, il motivo per il quale si trovava all’aperto, quella notte, con la pestilenziale statua di un dio premuta contro la spalla. Una parte di lui sentiva che era stata la volontà collettiva dell’America a obbligarlo a sgattaiolare fuori di soppiatto, a diventare un ladro. Ma sarebbe stato anche l’inizio della sua vendetta, se la sua volontà fosse riuscita a resistere al potere della paura.

     Okey Ndibe è stato nominato ‘scrittore africano dell’anno 2014’. Di lui il premio Nobel Wole Soyinka ha detto, ‘Abbiamo in lui un nuovo talento. Era da tanto che non avvertivo una promessa creativa di questo livello’. La piccola casa editrice Clichy ha pubblicato da poco “Il prezzo di Dio”, secondo romanzo dello scrittore nigeriano di etnia igbo, professore di letteratura africana e della diaspora africana presso la Brown University, Rhode Island. Ambientato tra New York e Utonki, un villaggio in Nigeria, “Il prezzo di Dio” è un romanzo rabbioso, la confessione della frustrante situazione di un immigrato che non riesce ad inserirsi nel nuovo mondo, una riflessione sulla deriva di questo nuovo mondo in cui tutto è in vendita, tutto ha un prezzo, nessun valore è rispettato, mentre il finale è l’amara consapevolezza della sconfitta.
     Il protagonista si chiama Ike Uzondu. E già questo nome è una sconfitta iniziale. Perché il suo vero nome è Ikechukwu, ma è inutile lottare per cercare di farlo pronunciare correttamente in America. Meglio accorciarlo in Ike che, ironia somma, è anche un nome famoso, quello del generale Eisenhower. Ike fa il tassista. E’ un ripiego. Ha una laurea in Economia ma gli è stato impossibile trovare un impiego adeguato: il suo accento non è gradito, poco importa che le donne lo trovino adorabile, l’accento è troppo rivelatore della sua provenienza, sa di Africa. Per un certo periodo Ike ha sperato che, ottenendo la Green Card con il matrimonio, qualcosa potesse cambiare, e invece sono solo aumentati i suoi problemi. La moglie sperperava i suoi guadagni mentre la sorella lo tempestava di e-mail dalla Nigeria con richieste pressanti di denaro per la madre e per lei stessa. Il divorzio ha lasciato Ike sul lastrico, lui evita di aprire le buste che contengono solo bollette da pagare. Finché, su segnalazione di un amico, ha un’idea. C’è una galleria d’arte di New York specializzata nella vendita di statue di divinità tribali. Ecco, Ike tornerà a Utonki, trafugherà la statua del dio della guerra Ngene conservata nel tempio di cui suo zio è sommo sacerdote e la venderà in America, risolvendo tutti i suoi problemi.

   Le parole di elogio di Wole Soyinka mi hanno riportato alla mente un episodio raccontato dal premio Nobel nella sua autobiografia, “Sul far del giorno”- di come Wole Soyinka abbia favoreggiato una sorta di complotto per riportare ‘a casa’ la testa di bronzo di una divinità Yoruba, di come il grande il scrittore deprecasse il costume di tutti i colonialisti di appropriarsi di arte indigena con spudoratezza, spogliandola di ogni sacralità. Paradossalmente- e il romanzo di Okey Ndibe è a tratti paradossale e grottesco- il nigeriano Ike fa il contrario di Soyinka, sottraendo la statua del dio Ngene al suo popolo in un’azione che mostra fino a che punto la cultura o non-cultura materialista e consumista lo abbia corrotto.
Al suo ritorno in Nigeria Ike è frastornato. Non riconosce il luogo in cui è arrivato, non sa destreggiarsi tra doganieri corrotti e richieste assillanti di soldi da ogni parte perché l’America è il paese della cuccagna, fa fatica a dialogare con la madre succube della religione ‘importata’ di Cristo che vede il diavolo in Ngene e nel suo sacerdote. Nonostante tutto, nonostante che una paura oscura e strisciante si faccia strada dentro di lui, alimentata da vecchie storie e leggende, Ike porta a termine il suo piano. Con quale esito e quali conseguenze lo leggerete.

     La storia di Ike può essere letta come un insegnamento morale che implica una giusta condanna. Eppure proviamo pena per questo uomo mediocre, questo antieroe strizzato da forze ostili sia nel suo paese di origine sia in quello che ha scelto. Perché questo è chiaro: Ike non pensa neppure lontanamente di tornare a vivere a Utonki. Per quanto discriminato e perennemente in lotta per sopravvivere, la vita in America è migliore di quella in Nigeria.





martedì 26 maggio 2015

Tarun J. Tejpal, “L’alchimia del desiderio” ed. 2006

                                                          Voci da mondi diversi. Asia
          il libro ritrovato


Tarun J. Tejpal, “L’alchimia del desiderio”
Ed. Garzanti, trad. Barbara Bagliano, pagg. 504, Euro 18,60

Una coppia giovane e innamorata, lui è un aspirante scrittore in crisi di ispirazione. Quando si trasferiscono a vivere in una splendida casa ai piedi dell’Himalaya, la scoperta dei diari della donna che aveva abitato là in passato aiuterà lo scrittore a forzare il blocco che gli impedisce di scrivere, ma causerà pure il suo allontanamento dalla moglie. Il tempo di immergersi nelle storie di vite di altri, seguendoli dall’America in Europa e poi in India. Per poi ritrovare la donna che ha sempre amato.


INTERVISTA A TARUN J. TEJPAL, autore de “L’alchimia del desiderio”

    “Non è l’amore il collante più forte tra due persone, ma il sesso”: inizia con questa frase il romanzo di Tarun Tejpal, lo scrittore indiano nato a Nuova Delhi nel 1963 che ha vent’anni di carriera giornalistica alle spalle. E c’è molto sesso in tutta la prima parte- peraltro intitolata “Amore”- de “L’alchimia del desiderio”, in cui l’io narrante, aspirante scrittore, celebra i suoi quindici anni di amore per Fizz con pagine che sono un inno all’unione fisica, un’esplorazione del corpo della donna, un’indagine su quella che è l’alchimia del desiderio: una combinazione infinita di elementi diversi che conducono tutti alla vetta del piacere. Non si riescono a contare le descrizioni degli accoppiamenti dei due giovani, li conterà per noi lo stesso protagonista, quando inizia a scrivere il libro e indica con una stella a margine delle pagine le volte che ha interrotto la scrittura perché preso dalla voglia di Fizz. Ma resterà deluso chi si accinge a leggere il romanzo con curiosità morbosa, perché capita raramente di leggere di rapporti sessuali così espliciti eppure nel contempo così elegantemente poetici, come se Tejpal obbedisse disobbedendo ad una delle leggi che il giovane protagonista fissa per sé, come base per la sua attività di scrittore, “Evita l’argomento sesso: è difficile cavarci qualcosa ed è facile scadere.” E poi, ad un certo punto, la voglia di Fizz scema, scompare. In mezzo ci sono stati altri due capitoli, “Azione”- l’attività del protagonista come giornalista, opportunità ottima per una panoramica sulla politica in India dopo la perdita dell’innocenza che segue la morte di Gandhi- e “Denaro”- l’eredità che permette alla coppia di comprare una casa in montagna, amore a prima vista per “l’unico posto al mondo a cui le nostre caviglie sono incatenate e al quale dobbiamo tornare, per quanta strada ci sia da percorrere”.
Nel quarto capitolo, “Desiderio”, viene trovato un baule murato in una parete della casa. Contiene 64 quaderni rilegati in pelle, sono i diari di Catherine, la donna bianca che mezzo secolo prima è stata la proprietaria della casa alle pendici dell’Himalaya, e la sua storia diventa un romanzo dentro il romanzo, l’ossessione del protagonista che non riesce a staccarsi da quelle pagine. Alla coppia narratore-Fizz si sostituisce un’altra coppia, Catherine-Gaj Singh- o erano loro stessi in una vita precedente? O sono una reincarnazione di Shiva e Parvati, la coppia primigenia, creatori e distruttori? E si tratta poi dello stesso tipo di rapporto, o questo è fatto di puro desiderio, con conseguenze drammatiche che scopriremo nel seguente capitolo, “Verità”, mentre si trattava di amore nell’altro? Perché la frase che termina il romanzo è il capovolgimento di quella d’inizio, “Non è il sesso il collante più forte tra due persone, ma l’amore.”

    Ma c’è ancora un’altra alchimia del desiderio in questo romanzo esuberante di storie, quasi come un romanzo di Rushdie, ed è proprio quella creata dalla magia delle parole che intessono una storia: come noi lettori siamo stregati da quella che leggiamo, così la diciassettenne Fizz era stata incantata dai racconti del futuro amante, marito, scrittore, e Catherine aveva addirittura accettato di sposare l’uomo che sul filo delle parole l’aveva portata in India, pur sapendo che era omosessuale. E lei, a sua volta e attraverso le pagine scritte, avrebbe ammaliato il protagonista, fornendogli il soggetto di questo romanzo. Stilos ha intervistato Tarun Tejpal.



 Il suo romanzo è stato pubblicato in India nel 2005 e sappiamo che il 2001 è stato per lei un anno cruciale, dopo che ha denunciato per corruzione il Ministero della Difesa tramite il suo giornale on line Tehelka.com. Stava già scrivendo il libro all’epoca dei fatti in cui è stato coinvolto? Come riusciva a concentrarsi con tutte le difficoltà che stava affrontando?
     E’ da vent’anni che cerco di trovare il tono per questo romanzo: l’anima della letteratura è nelle storie intime, ma io cercavo un tono che mi permettesse di dire non solo la storia intima ma anche di parlare dei temi più vasti che mi preoccupano. E nel 2001 avevo avuto questa grossa storia, è stata una lotta quotidiana, perseguitato dal governo che avevo accusato di corruzione attraverso le pagine del mio giornale. Avevamo dovuto chiudere gli uffici, eravamo in difficoltà, e poi a metà del 2002 ho avuto come un’illuminazione, quel tono che cercavo mi è venuto con chiarezza e ho iniziato a scrivere. Ho scritto per sedici mesi senza interruzione, ogni giorno, dovunque mi trovassi: il libro mi cantava in testa. E’ stata una cosa straordinaria: era il periodo più difficile della mia vita, lottavo contro il governo, nessuno sapeva che scrivevo, tranne mia moglie e le mie figlie, e il libro mi cantava in testa: in poco più di 500 giorni avevo finito quel libro che mi cresceva dentro da vent’anni.

Non possiamo fare a meno di osservare delle somiglianze tra lei e il narratore della storia: anche lei ha studiato economia a Chandigarh, anche il suo personaggio fa il giornalista…Come è successo che dagli studi di economia è passato a fare il giornalista e lo scrittore?
    Fin da quando ero al college la mia prima ambizione era di scrivere un libro, ero un grande lettore, a sedici anni avevo già letto tutto il canone della letteratura occidentale. Ma a quei tempi in India non era possibile essere uno scrittore a tempo pieno e così a vent’anni sono diventato giornalista. In realtà ho scelto il giornalismo per due motivi: primo, perché lo vedevo come la strada per diventare uno scrittore, secondo, perché volevo sposarmi e avevo paura che, se non mi sbrigavo, i suoi genitori avrebbero dato in sposa a qualcun altro la ragazza che amavo. Così sono diventato giornalista e mi sono sposato. E ho avuto tanto successo come giornalista che ho dovuto aspettare prima di diventare uno scrittore. E poi, poco prima dei trent’anni, mi è passata la voglia di scrivere tanto per scrivere: volevo scrivere un libro che avrebbe esplorato territori inesplorati, che avrebbe portato cose nuove.

Ad un primo livello di lettura, il libro è sull’amore e il sesso e la dipendenza dal sesso, ma, ad un altro livello è un libro sull’amore per le parole e sulla dipendenza dalla scrittura e dalla lettura: qual è la connessione tra le due cose?
   La connessione è quella dell’arte, l’arte e il desiderio che è collegato con l’arte. Il desiderio crea la bellezza e il mondo, ma il desiderio può anche distruggere. Il desiderio è al centro dell’esistenza, desiderio per l’arte, per la bellezza, ma anche per il potere e la gloria: noi cerchiamo un equilibrio tra queste cose. Penso che il libro sia meno sulla sessualità che sull’amore, sull’arte, il dolore, la sofferenza, il colonialismo, la verità. E’ su quello che le persone fanno l’una all’altra.

E’ per via di questa connessione, perché il fascino delle storie è forte, che Catherine si innamora di Syed e Fizz del narratore, proprio come Desdemona si è innamorata di Othello ascoltando i suoi racconti?
     La cosa più potente di qualsiasi altra cosa è l’amore che è costruito sulle storie. Tutti noi, come persone e come nazioni, ci costruiamo una vita sulle storie che ci raccontiamo su chi siamo, da dove veniamo, che cosa vogliamo diventare. E alla fine sono queste storie che ci fanno diventare come siamo. La storia che mi dico è quella che io diventerò: ogni paese ha la sua storia ed è la storia che ha. E’ così anche per l’amore: le storie che gli amanti si dicono li formano come amanti. La storia che faccio su di me mi fa diventare quello che sono: alla fine del giorno noi siamo la storia che ci siamo raccontati.

Le storie del romanzo ruotano intorno a tre donne straordinarie: Catherine, Fizz e Bibi Lahori. Fa parte della sua esperienza, l’essere venuto a contatto con delle donne eccezionali con una forte personalità?

    Assolutamente sì: credo che le donne siano il sesso forte, sono più intelligenti emozionalmente, hanno più sfumature, una maggiore abilità di sopravvivere. Nella mia vita sono circondato da donne straordinarie: mia moglie, le mie figlie, madre, sorelle, amiche, colleghe. Sono più splendide degli uomini che conosco. Penso che le donne abbiano di più da dare al mondo e che il futuro appartenga a loro. Anche sessualmente le donne sono più ricche, quello della sessualità maschile è un mito.

E poi c’è un altro personaggio importante, in apparenza muto, in realtà con più di una voce: la casa alle pendici dell’Himalaya.
    Prima di tutto devo dire che la casa esiste: se il lettore segue le indicazioni stradali del libro, arriva alla casa. E sì, la casa è un personaggio. E adesso devo dire come è nato il romanzo: mia moglie ed io abbiamo comprato quella casa molti anni fa e gli abitanti del luogo ci avevano detto che era stata costruita verso il 1890, ma nessuno sapeva nulla della donna che aveva vissuto là. Non sapevano da dove venisse, solo che era bianca e che era morta lì. E ho iniziato a pensare a questa donna e mi è parso che ci potessero essere solo due motivi per spiegare come fosse possibile che una persona avesse attraversato mezzo mondo per vivere in un villaggio alla base dell’Himalaya. Poteva essere per inseguire il potere e il denaro oppure per un grande amore. Non poteva essere per il primo motivo, non c’erano né potere né ricchezza lì; restava il secondo, l’amore. Mesi dopo il libro è diventato la storia del narratore in cui inserii anche questa storia insieme ad altre.


Il narratore stabilisce per sé delle regole quando inizia a scrivere: una è “scrivi in terza persona, con l’onniscienza dello scrittore”. Lei ha scelto la prima persona narrante ed è passato alla terza quando avrebbe potuto usare la prima, con i diari di Catherine.
    Non c’era nessuna altra maniera che la prima persona narrativa per rendere l’intimità del viaggio dentro e fuori di sé del protagonista.  Non si può afferrare la qualità provvisoria della verità se non con la prima persona, proprio perché non è onnisciente. La realtà è provvisoria, dipende da dove la si guarda. La vita ha sempre dei lati che non conosciamo, ma questo è difficile da catturare nella narrativa perché non si vuole diventare astratti. La verità è che cerchiamo sempre la verità ma ci sono cose che non sapremo mai. Io stesso, come scrittore, non so che cosa accadrà al mio personaggio. E invece Catherine doveva essere capita attraverso la sensibilità del narratore, perché lui legge i diari e racconta la storia e la storia deve dunque essere filtrata da lui, dalla sua sensibilità.

“Evita il sesso: è difficile cavarci qualcosa ed è facile scadere”, è un’altra delle regole. C’è molto sesso nel suo libro, eppure lei evita le trappole dello “scadere”. E’ come se lei- come il suo personaggio- fosse consapevole del pericolo e riuscisse ad evitarlo: come ci è riuscito?
   La cosa più difficile in assoluto di cui scrivere sono i piccoli gesti dell’amore e la seconda cosa più difficile è il sesso. L’amore è accompagnato da piccoli gesti che sono l’anima dell’amore, eppure, basta sbagliare una parola e diventano goffi e vuoti. Il sesso: vedo la sessualità come l’esperienza centrale della vita, l’esperienza più forte, più potente e più trascendente della condizione umana. Spero di essere stato capace di rendere nel libro l’anima della sessualità, il suo lirismo. E’ un’emozione di cui è difficile scrivere- volutamente non ho mai menzionato nessuna parte del corpo.

Il personaggio ha idee molto negative sul giornalismo: qual è la sua opinione? Che cosa è il giornalismo per lei? Qual è la funzione del giornalismo?
    Io dedico la vita al giornalismo e non lo farei se non pensassi che ha una funzione molto importante. Doppiamente importante nel mio paese dove ci sono ancora molte battaglie da combattere, dell’uguaglianza, della discriminazione, dell’estremismo religioso, della corruzione. E’ quello che faccio ogni giorno nel mio giornale. Certo, c’è giornalismo buono e giornalismo cattivo, la lotta è per fare del buon giornalismo, come fare della buona letteratura, d’altra parte. Il giornalismo è sul presente, la letteratura è fare un passo indietro. Il giornalismo è tenersi vicino alla costa, la letteratura è veleggiare al largo: si può affogare, ma se si è capaci di manovrare e salpare, si possono trovare terre fantastiche, più soddisfacenti di quelle del giornalismo.

Nella maggior parte dei romanzi di scrittori indiani troviamo una visione molto negativa dei britannici durante l’Impero. Lei, tuttavia, è persino più severo nel suo giudizio verso i ricchi indiani dei tempi pre-coloniali e coloniali.
    Sono contento che lo abbia osservato, perché penso che i sovrani che hanno dominato le risorse indiane per secoli hanno avuto un comportamento infame nei confronti dei poveri. I grandi impulsi della scienza e dell’Illuminismo che cambiarono l’Europa sono passati al largo dell’India perché i governanti indiani erano felici di lasciare la gente nell’ignoranza. Hanno favorito solo quello che dava loro piacere: i grandi palazzi, la musica, l’arte, ma solo per il loro piacere. Non hanno fondato scuole o università, nessun sistema sanitario, hanno preferito lasciar la gente nell’ignoranza per poterla dominare. Anche sotto la dominazione britannica, quelli che si sono alleati con i britannici lo hanno fatto alla ricerca del proprio vantaggio. Ed è per quello che mi piace il personaggio di Syed, il marito omosessuale di Catherine: perché lui è il tipo di persona che poteva cambiare l’India: Syed è l’uomo nobile tradito dal suo corpo.


recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos



                                                                                                                   






lunedì 25 maggio 2015

Jón Kalman Stefánsson. “I pesci non hanno gambe” ed. 2015

                                                     vento del Nord
    FRESCO DI LETTURA

Jón Kalman Stefánsson. “I pesci non hanno gambe”
Ed. Iperborea, trad. Silvia Cosimini, pagg. 440, Euro 19,00
Titolo originale: Fiskarnir hafa enga fætur

     No, voglio diventare vecchio sotto la luna e le stelle e amare ancora mia moglie con tanta passione da doverla abbracciare, e non desiderare nient’altro che vivere altri cent’anni con lei, amare ancora le sue labbra e i suoi occhi, ecco come voglio diventare, vecchio e felice nel chiaro di luna.


    Keflavík, di faccia all’Atlantico, nel sud-ovest dell’Islanda. “Sono felice di essere venuto nel posto più nero del paese”, aveva detto il presidente islandese nel 1944, quando vi si era recato in visita subito dopo la costituzione della repubblica. “Il posto più nero- com’era possibile vivere qui prima dell’arrivo dell’esercito americano, prima dell’epoca della meccanizzazione?”, si chiede- o fa chiedere al suo personaggio- Jón Kalman Stefánsson nel suo nuovo romanzo “I pesci non hanno gambe”. Keflavík che non esiste, perché “andare a Keflavík somiglia sempre un po’ ad allontanarsi dal resto del mondo per raggiungere un luogo che non esiste”. Sembra impossibile che ci siano delle case in questo posto dove ci sono “tre punti cardinali; il vento, il mare e l’eterno.” Perché, se l’Islanda è una terra impietosa e difficile, Keflavík è di certo la zona “meno abitabile del paese”.

      Come si fa a vivere a Keflavík, dunque? Gli uomini escono in mare e, se la fortuna assiste, se il vento non fa scatenare una tempesta, rientrano con le barche piene di pesci che vengono puliti e messi ad essiccare sui tralicci. Quando poi gli americani costruirono l’aeroporto, quando la vita incominciò a cambiare, quando si aspettavano frotte di turisti, era arrivato anche l’ordine di smantellare i tralicci, di spostarli in modo che non fossero così visibili- ma come, non erano forse una delle caratteristiche principali di quel paesaggio scabro con le rocce di basalto? Gli uomini in mare (senza saper nuotare) e le donne a casa, a tirar su i figli, in giorni uguali uno dopo l’altro. Oppure anche le donne, insieme ai ragazzi, a lavorare nell’industria del pesce- una puzza che restava attaccata agli abiti, alla pelle, ai capelli. Gli americani portarono cose mai viste, jeans, musica, Coca-cola, scatolette di cibi sconosciuti: i ragazzini si organizzavano per assalire i camion carichi di tutto quel ben di Dio destinato a chi era lì per lavoro. L’esercito americano era diventato il quarto punto cardinale di Keflavík. Una presenza essenziale eppure odiata. Vantaggiosa ma pur sempre una forza di occupazione del territorio.
    Tutti i personaggi di questa saga famigliare risentono dell’ambivalenza del paesaggio e della vita che si può condurre a Keflavík. Il bello e il terribile. La luce e il buio. La vita che canta e la morte che attrae, come una sirena, verso il mare. La storia (o tutte le storie) inizia con Ari, poeta ed editore, che abbandona moglie e figli e va in Danimarca. Tornerà quando riceve una lettera del padre che sta morendo. O forse sarebbe tornato ugualmente, come è tornata dal Canada la nonna Margrét per sposare il suo primo amore, lo straordinario Oddur, il miglior pescatore di Keflavík, l’unico che prendesse misure di sicurezza per i suoi uomini sulla barca. Anche Ari ha sposato il suo unico amore. Come era stato possibile che un amore speciale si trasformasse ‘in un ordinario martedì’? che lui avesse avuto una brevissima avventura con un’altra, che avesse detto alla moglie di smettere di far tanto rumore mentre masticava?
E suo padre, come aveva fatto a risposarsi dopo la morte della dolcissima madre di Ari?

    Keflavík ha pochi abitanti, ma si affollano tutti nelle pagine di “I pesci non hanno gambe”. La nonna Margrét e le sue crisi di depressione, il mitico nonno Oddur, i genitori di Ari, Ari stesso e la voce narrante che sembrerebbe il suo doppio, il cugino poliziotto che lo ispeziona ‘ a fondo’ all’aeroporto, la ragazzina che Ari aveva sbagliato a giudicare e che aveva cercato di suicidarsi in mare dopo uno stupro, il fratello della nonna che voleva nuotare fino alla luna (era quasi morto). E altri, e altri ancora.
    E il mare, che dà e prende. Il mare che rende uomini, perché quando sei in mare sai che puoi fare affidamento solo su te stesso. Il mare che ‘è più vasto della quotidianità’, che ‘tranquillizza, consola, e sminuisce i problemi della vita.’ Forse è per il mare che si torna a Keflavík, è il mare che è il collante di tutte le storie di questo romanzo che celebra l’amore- felice, tormentato, sofferente, riinventato, invecchiato- e che termina con la riflessione, ‘la cosa più dolorosa deve essere non avere amato abbastanza.’
   Un libro bellissimo.

la recensione sarà pubblicata su www.wuz.it






domenica 24 maggio 2015

Erik Larson, “Il giardino delle bestie” ed. 2012

                                        Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
      la Storia nel romanzo
      il libro ritrovato


Erik Larson, “Il giardino delle bestie”
Ed. Neri Pozza, trad. Raffaella Vitangeli, pagg. 473, Euro 18,00

    Berlino 1933. Il 30 gennaio Hitler è stato nominato Cancelliere da Hindenburg, l’uomo che un anno prima lo aveva battuto per un migliaio di voti nella corsa alla presidenza. Questa è la data che viene considerata come l’inizio della Germania nazista. Il 2 agosto 1934, dopo la morte di Hindenburg, Hitler riuniva in sé le due cariche di presidente e di cancelliere autonominandosi Führer.
    L’ottimo romanzo storico di Erik Larson, “Il giardino delle bestie”, ricostruisce quegli anni a Berlino attraverso l’esperienza dell’ambasciatore americano William Dodd che arrivò nella capitale tedesca nel luglio del 1933 con la moglie, i due figli adulti e la vecchia auto Chevrolet.
La scelta di un ambasciatore da mandare in Germania non era stata facile. Roosevelt stesso aveva approvato la scelta di William Dodd, uomo di famiglia modesta che era stato capace di diventare professore universitario ed aveva una certa fama per i suoi scritti di storia del Sud degli Stati Uniti. Tuttora la più grande aspirazione del sessantaquattrenne Dodd era portare a termine un’opera in quattro volumi che si sarebbe intitolata “L’ascesa e la caduta del vecchio Sud”. Fa pensare al console romano Cincinnato questo professor Dodd che ama lo studio e l’agricoltura nella sua fattoria in Virginia e che sembra quasi sacrificarsi per il bene comune, nell’accettare l’incarico a Berlino.

     William Dodd era già stato in Germania, aveva studiato a Lipsia nel 1897 e quella volta aveva portato con sé la sua bicicletta. Perché, da democratico jeffersoniano, William Dodd credeva in uno stile di vita parco e senza ostentazione. Era sua ferma intenzione contenere le spese ufficiali a Berlino entro il compenso che gli veniva dato per le sue mansioni, lontanissimo, quindi, dall’andazzo corrente di altri ambasciatori o anche semplicemente di persone relazionate all’ambasciata americana. Il che poteva venire interpretato in maniera negativa, identificando la vita sottotono del singolo con la politica di una nazione. Dodd rimase subito spaesato- non c’era assolutamente nulla nella Germania del 1933 che assomigliasse a quella che aveva conosciuto  in passato. Soprattutto Dodd colse la minaccia nella nuova Germania sul finire della repubblica di Weimar. Dodd non sottovalutò i continui episodi di violenza delle SA, denunciò e richiese ammenda per i maltrattamenti subiti da cittadini americani che erano stati brutalmente percossi per non essersi esibiti nel saluto hitleriano a braccio teso, lanciò ripetuti allarmi per lo sgocciolamento di leggi che limitavano la libertà degli ebrei fino a tagliarli completamente fuori dalla società tedesca,
    Eppure molti, nell’ambiente politico americano, sparlavano di Dodd, giocando sul suo cognome lo chiamavano “Dud”, cioè ‘inetto’, ‘buono a nulla’, ritenevano le sue prese di posizione esagerate, addirittura dannose per i buoni rapporti tra le due potenze. Nessuno apprezzava a dovere l’integrità di quest’uomo che combatteva Hitler con le armi che aveva in mano, rifiutandosi ad esempio di presenziare alle grandiose parate. Era ovvio che Dodd non piacesse neppure ai tedeschi i quali avevano anche qualcosa d’altro da rimproverargli e cioè il comportamento della figlia Martha che amoreggiava con il diplomatico russo Boris Winogradov che era pure un agente dei servizi segreti sovietici (Martha aveva avuto parecchie altre storie, anche con nazisti di spicco). E infine Dodd fu richiamato in America nel dicembre del 1937.

    Il libro di Erik Larson non solo è ben documentato, non solo spiega in parte come sia stato possibile che nessuno abbia fermato un pazzo, ma ha anche i pregi di un romanzo oltre a quelli di un libro di storia. Sullo sfondo delle luci fosche di Berlino, mentre bandiere rosse con la croce uncinata nera iniziano a sventolare ovunque e le strade rimbombano sotto il passo pesante delle camicie brune, si muovono gli attori della Storia che ha segnato il destino dell’Europa nel secolo scorso. E il giardino delle bestie- traduzione di Tiergarten, il parco nel centro di Berlino- non è più soltanto il luogo rilassante in cui passeggiare. Diventa il posto dove si dava appuntamento chi non voleva correre il rischio di essere ascoltato da microfoni nascosti e le ‘bestie’- ben più inquietanti degli ‘animali’, altra possibile traduzione- sono la minaccia presente ovunque, sono i cittadini tedeschi in veste di agnelli che si trasformeranno in lupi.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
a breve leggerete la recensione dell'ultimo libro di Erik Larson, "Scia di morte. L'ultimo viaggio del Lusitania"





Intervista ad Anna Grue, autrice de "Il bacio del traditore"

                                             vento del Nord
                                             cento sfumature di giallo


       Ho freddo in questa strana primavera milanese, ma Anna Grue, abituata alla Danimarca, a Milano per presentare il suo libro “Il bacio del traditore” nel corso del festival I Boreali dedicato alla letteratura dei paesi del nord Europa, mi dice che ha caldo. Mi chiede anche se so per quale motivo il titolo originale del libro (“Il bacio di Giuda”) sia stato cambiato- non si conosce la figura di Giuda in Italia? E mi dice anche che in Danimarca è stato appena pubblicato il suo ultimo romanzo che è una storia d’amore e non un giallo, e che, però, non è certa che questo suo libro ‘insolito’ sarà ben accolto all’estero, dove il personaggio di Dan Sommerdhal piace molto. In Danimarca è diverso, i lettori danesi forse incominciano ad essere un poco stanchi del ‘detective calvo’.

Volevo proprio chiederglielo: in Italia conosciamo solo due romanzi con Dan Sommerdhal, “Nessuno conosce il mio nome” e “Il bacio del traditore”. C’è stato qualche altro romanzo con questo protagonista, prima? E quanti ne ha scritti fino ad ora?
    No, “Nessuno conosce il mio nome” è proprio il primo romanzo della serie e ci sono sei altri libri dopo di quello, sto scrivendo il settimo con Dan Sommerdhal: ho promesso ai miei lettori che ne scriverò dieci.


Nella serata di inaugurazione del festival si è chiesto ai due scrittori presenti, Björn Larsson e Jón Stefansson se pensavano si potesse parlare di una letteratura nordica, se ci fossero delle differenze tra gli scrittori del nord e quelli, ad esempio, del sud dell’Europa. Lei che cosa ne pensa?
    Sì, ci sono certamente delle differenze. Nell’insieme noi tendiamo ad essere realistici, non usiamo metafore o immagini fiorite come in Italia, ad esempio. Ho letto Giorgio Faletti- trovo strane le sue frasi arricchite di parole e avverbi, allargate da ulteriori spiegazioni. Nel nord Europa non c’è il realismo magico, le frasi sono più semplici. So che a volte possiamo risultare noiosi.

Io ho pensato che il clima possa spiegare la differenza di stile tra gli scrittori del Nord e quelli del Sud. Il freddo, i lunghi giorni bui, vi obbligano a vivere di più negli interni e quindi ad avere tempo per pensare, per andare più in profondità. Il sole e il caldo spingono a vivere più ‘in superficie’ e i nostri libri sono spesso più superficiali. Che cosa ne pensa?
     Forse ha ragione. E’ vero che noi andiamo più nel profondo e questo è uno dei motivi per cui ai lettori piacciono i thriller che vengono dal Nord. Come scrittore io penso che si imbrogli il lettore con un personaggio che è l’assassino spinto al crimine dalla follia o da un raptus, e non da un vero motivo, come può essere l’amore o l’odio o l’avidità o la gelosia.

Che cosa l’ha spinta a scegliere il romanzo di indagine poliziesca come maniera per esprimersi?
     In realtà i miei primi due romanzi erano thriller psicologici ma non di indagine poliziesca. Non c’era una indagine, non c’era la polizia, soltanto quello che le persone sono capaci di farsi l’un l’altro. Nei romanzi di indagine mi piace l’enigma da risolvere, mi piace il gioco. Per me i romanzi di indagine poliziesca sono un gioco tra lo scrittore e il lettore. E’ un gioco stuzzicante, è divertente. Mi sono sempre piaciuti i libri di Agatha Christie perché sono giocosi. Un romanzo con delitto dovrebbe essere giocoso proprio perché è un argomento serio, altrimenti sarebbe noioso.

Dopo aver letto i suoi due libri, ho pensato che forse c’è un piano dietro le sue storie. Sia il primo sia il secondo romanzo hanno una trama con una problematica che riguarda le donne. E’ quello che la interessa, più che dei comuni delitti?

    Potrebbe aver ragione, perché, sì, è vero, le trame riguardano sempre donne che soffrono anche quando la vittima è un uomo. Sì, sono romanzi sulle donne. A me piace il modello del vecchio ‘crime novel’ inglese, mi piace Miss Marple, mi piacciono i ‘private detective’ inglesi. Perché sono più giocosi. Se si sceglie come protagonista un detective che non ha motivo di essere sulla scena, si possono intrecciare più liberamente delle storie, lui può fare cose che la polizia non può fare. E poi a me non interessa il lavoro della polizia.

Nella sua coppia dei due personaggi Lei ha invertito la priorità dei ruoli: il vero detective non è il personaggio principale, ma il suo doppio. E’ stata una scelta fatta per avere maggiori possibilità in quello che voleva dire? E perché farli anche rivali nella vita privata?
    Prima di tutto sono amici. Sono rivali perché l’amicizia senza un sottofondo di rivalità è noiosa. Mi occuperò di loro per dieci, quindici anni e dovevo farli rivali con qualche motivo in più che non fosse solo quello professionale. Ecco perché c’è la vecchia relazione tra Marianne e Flemming. Nel terzo romanzo ci sarà qualcosa di nuovo perché il mio interesse principale è esaminare i rapporti- come si comporta una coppia sposata da vent’anni, come lavorano insieme due colleghi, qual è il rapporto tra figli adulti e genitori…

 In questo romanzo, come abbiamo detto, l’attenzione è di nuovo sulle donne. Ad un primo livello di lettura il libro sembra essere sulla stupidità delle donne che amano essere corteggiate anche se non sono più giovani. Ad un livello più profondo, però, è un romanzo sulla solitudine. Tutti i personaggi sono molto soli, le donne che JH corteggia, lui stesso, l’avvocato, soffrono tutti di solitudine.
    
E’ un’osservazione acuta che non mi era ancora stata fatta. E’ vero. L’argomento è la solitudine, il titolo infatti è “Il bacio di Giuda”, anche se non c’è Giuda, non è una storia religiosa. Ci sono persone che fanno scelte sbagliate per sé e per quelli che amano. E tutto inizia fin dall’infanzia. A proposito: ho inventato la setta religiosa di cui parlo nel libro, ho mescolato aspetti di una setta che c’è in Danimarca, La Casa dei Padri, con quelli dei Testimoni di Geova. E comunque il crimine inizia con un tradimento- e non possiamo dire di più.

I lettori potrebbero pensare che solo le donne sono così sciocche da lasciarsi ingannare in maniera così grossolana. Ma in Italia succede pure agli uomini, anche se c’è una differenza, ed è l’età. Nel caso degli uomini, qui da noi, si tratta di uomini anziani illusi e poi derubati dalle badanti. Succede anche in Danimarca?
    Assolutamente sì, c’è stato uno scandalo di cui si è parlato molto anche di recente. Come dice Lei, cambia l’età, nel caso di uomini o donne. La spiegazione è facile e ovvia: un cinquantenne ricco trova tutte le donne che vuole, una cinquantenne ricca no.

Prima ha detto che le piace molto Agatha Christie. Quali altri scrittori le piacciono, quali sono stati per lei un’ispirazione, dei maestri?
      Fin da quando ero bambina, sono sempre stata una grande lettrice, una divoratrice di libri. Mi piace Agatha Christie, mi piacciono la Sayers e P.D. James, Ruth Rendell che è morta poco tempo fa, Kate Atkinson. Tra i nordici mi piace Håkan Nesser. Soprattutto, però, amo i classici inglesi, i romanzi corposi, Dickens, le sorelle Brontë. Tra gli americani, mi piacciono Anne Tyler e John Irving: ecco, senza i libri di tutti questi autori io non avrei potuto scrivere.

l'intervista sarà pubblicata su www.wuz.it




       

    



venerdì 22 maggio 2015

Anna Grue, “Il bacio del traditore” ed. 2015

                                                                 vento del Nord
                                                                 cento sfumature di giallo
 FRESCO DI LETTURA

Anna Grue, “Il bacio del traditore”
Ed. Marsilio, trad. Ingrid Basso, pagg. 411, Euro 15,73
Titolo originale: Judaskysset

    Jakob era sparito. Senza lasciare alcuna traccia. Se era entrata nella pagina online della NetBank era stato per pura formalità. Sapeva già che i suoi conti erano stati svuotati. L’unico conto che non erastato toccato era quello in cui c’erano i soldi di Anemone, semplicemente perché non aveva la firma. Tutto il resto era stato ripulito. I risparmi, la vincita alla lotteria, ma anche l’accredito dello stipendio e il conto della MasterCard.


   Diciamo la verità. Sono talmente numerosi gli scrittori di ‘gialli’ del Nord che ci eravamo dimenticati di Anna Grue. Basta però un dettaglio, il riferimento al soprannome ‘il detective calvo’, ad una storia di donne, che ci torna subito in mente- come abbiamo potuto dimenticarla? E siamo contenti di leggere un’altra storia con il protagonista Dan Sommerdhal che ruba la scena all’ispettore Flemming (gli aveva rubato anche la ragazza che ora è sua moglie, quando erano giovani), un’altra storia di donne raccontata con un leggero umorismo che attenua i colori del dramma.
     C’è un tipo particolare di suspense ne “Il bacio del traditore”. Non c’è alcun enigma da risolvere su chi sia il colpevole (che diventa anche assassino solo una volta, prigioniero in una situazione senza uscita), lo incontriamo subito in una delle sue molte identità e professioni per nascondere quella vera: ha iniziato come gigolò, tombeur de femmes, ha scoperto che fare ‘il prostituto’ con donne di mezza età è molto redditizio e ne ha fatto la sua specializzazione e la sua carriera accuratamente pianificata.
Dalla sua ha l’età ideale, poco più di trent’anni, può tranquillamente corteggiare donne sole, sulla cinquantina, bisognose d’affetto. E poi è di bell’aspetto, alto, biondo (il colore è passibile di variazioni), occhi grigi. Il requisito essenziale delle donne su cui dirigerà la sua attenzione è che siano ricche. Va da sé che devono essere sole, senza né marito né figli attorno. Quando arriviamo a leggere ‘come’ JH (chiamiamolo con le iniziali che restano invariate, uguali a quelle del suo vero nome, qualunque sia la nuova identità), progetti ogni sua operazione- dalla scelta della preda, alle modalità per farla abboccare all’amo, a quale personalità lui debba rivestire per essere più gradito- non possiamo non ammirarlo. Sono molteplici i sentimenti del lettore, catturato nella rete del seduttore e nelle pagine della scrittrice danese. Ammirazione per quel fantastico attore che è JH (è la fascinazione del Male, lo sappiamo), compassione per le sue vittime (dall’esterno vediamo la trappola che sta per scattare), rabbia (per la stupidità che non è solo femminile, ma è propria della persona vulnerabile in quanto sola), divertimento per ‘l’altra faccia’ del corteggiamento- a volte JH sbaglia nello scegliere e, se la donna che si appresta a turlupinare è più vicino ai sessanta che ai cinquanta, deve ricorrere al Viagra.

La donna che, spinta dalla figlia, pur non denunciando la truffa alla polizia (ragiona bene, JH, quando pensa che le sue vittime preferiscano perdere il patrimonio piuttosto che mettere a nudo la loro credulità), ricorre all’aiuto di Dan Sommerdhal, è un’insegnante d’arte giovanile e prestante del collegio in cui studia la figlia di Dan. Perché non avrebbe dovuto credere al colpo di fulmine che l’aveva fatta cadere tra le braccia del venditore di un nuovo tipo di colori? Le aveva regalato l’anello chiedendole di sposarlo, dovevano aprire insieme un locale in Francia, lui aveva la firma sul suo conto…La ricerca di JH si intreccia ad un certo punto con l’omicidio di un giovane che faceva parte di una congregazione religiosa evangelica affine ai Testimoni di Geova, il ragazzo era un esperto informatico e, anche se non è stato quello la causa della morte, qualcuno gli ha scagliato un grosso computer sulla testa. E così, come nel precedente romanzo, Dan si trova a lavorare a fianco, o in rivalità, con il vecchio amico-rivale Flemming.

    La trama de “Il bacio del traditore” è movimentata e ci porta in ambienti diversi- quello duro e chiuso impregnato di una religione severa, quello dei barboni a cui sono state sottratte le panchine della piazza del Municipio, e infine quello, del tutto agli antipodi, di Goa, sulla costa occidentale dell’India. E se il finale (che ci riserva molte sorprese) sa un po’ troppo di Robin Hood, accettiamolo ugualmente. Non fa male sperare che ci possa essere un risvolto buono anche in ciò che di per sé è cattivo.

la recensione sarà pubblicata su www.wuz.it
la scrittrice è presente al Nordic Festival a Milano (20 maggio-5 giugno)