venerdì 19 settembre 2014

Hannah Kent, "Ho lasciato entrare la tempesta" ed. 2014

                                                           Voci da mondi diversi. Australia                                
                                                              vento del Nord
  fresco di lettura



Hannah Kent, “Ho lasciato entrare la tempesta”
Ed. Piemme, trad. Velia Februari
Titolo originale: Burial Rites

     Ci sono momenti in cui mi chiedo s’io non sia già morta. Questa non è vita: aspettare nell’oscurità, in silenzio, in una stanza talmente squallida da farmi dimenticare il profumo dell’aria fresca. Il pitale è così colmo dei miei escrementi che minaccia di traboccare se qualcuno non viene a svuotarlo subito.

   A Illugastadir, in Islanda, nella notte tra il 13 e il 14 marzo 1828 due uomini furono uccisi, i loro corpi divorati dalle fiamme appiccate alla fattoria di cui uno dei due, Natan Ketilsson, era il proprietario. Due serve e un garzone furono accusati dell’omicidio- la ragazza più giovane fu condannata al carcere a vita, gli altri due colpevoli alla morte per decapitazione. Agnes Magnusdottir, l’ultima donna condannata a morte in Islanda (ancora facente parte del regno di Danimarca), è la protagonista del romanzo “Ho lasciato entrare la tempesta” della scrittrice australiana Hannah Kent.
   Teniamo a mente l’esergo del romanzo, tratto da una saga islandese, “Sono stata più spietata/ con chi ho più amato”. Teniamo a mente le parole con cui inizia il racconto, che alterna una narrativa in prima persona a quella in terza persona, inserendo documenti ufficiali dell’epoca- “Dicono ch’io debba morire”. Perché amore e morte sono i due grandi temi di questo libro- come lo sono di tutte le più famose tragedie. Da una parte la passione e dall’altra l’odio che porta alla volontà di annientare l’oggetto dell’amore. Quanto più forte l’una, tanto più forte l’altro. L’intento della scrittrice, tuttavia, non è solo quello di ricostruire una storia basata su sentimenti vecchi come il mondo. Hannah Kent vuole ridarci il clima di quei sentimenti, dipingendo un ritratto dell’Islanda e della condizione femminile e servile dell’isola dei ghiacci nel secolo XIX in un dramma naturalistico che ci ricorda le “Novelle rusticane” di Verga o il possente “Desiderio sotto gli olmi” di Eugene O’Neill.


    In attesa dell’esecuzione della sentenza Agnes Magnusdottir viene portata nella fattoria dell’ufficiale giudiziario Jon- in qualità di serva coatta aiuterà nei lavori lui, sua moglie Margret e le loro due figlie. E già questo è un anticipo della pena- e non lieve. Agnes è contenta di lavorare, non ha fatto altro tutta la vita. Ma l’attesa della fine, senza sapere quando arriverà- quella è una tortura. Con il lento passare dei giorni, con lo scorrere delle ore in quella vicinanza obbligata dell’unica stanza abitabile per tutti, la badstofa in cui mangiano e dormono padroni e servi, in cui nessuna confessione può restare segreta, cambia l’atteggiamento di Agnes e muta pure l’opinione che i suoi riluttanti ospiti hanno di lei. Hannah Kent non vuole fare un’eroina di un’assassina (ma è stata proprio lei ad uccidere l’uomo che amava?), e tuttavia, insieme alla sporcizia che la ricopre dopo una lunga detenzione più adatta ad una bestia che ad un essere umano, viene via anche la corazza di autodifesa di Agnes, il silenzio dietro cui si è nascosta perché in ogni caso le sue parole non sarebbero state ascoltate. Tra quello che confida alla donna più anziana, Margret (che aveva osteggiato per prima la sua presenza in quella casa), e quello che sussurra in una sorta di confessione al reverendo che dovrebbe preparare la sua anima (e che resta irretito nelle sue parole e affascinato da lei), noi veniamo a sapere una vicenda di solitudine e tristezza, di una bambina abbandonata dalla madre a sei anni, abituata a duri lavori fin dalla più giovane età e a difendersi da attenzioni indebite dei fattori che si consideravano padroni anche del suo corpo. Dell’incontro con Natan, l’uomo sul cui nome si scherzava, dicendo che stava per ‘Satan’. Della pienezza dell’amore. Della delusione. Della gelosia. E poi non è così semplice, c’erano altre persone che ruotavano intorno a Natan.
    La forza del romanzo è nel personaggio di Agnes che ci conquista, pur avvertendo anche una certa qual manipolazione nel suo racconto. E poi nella descrizione accurata, e affascinante, della vita rurale nell’Islanda dell’800: la scena della notte di tormenta in cui muore di parto la ‘madre adottiva’ di Agnes, perché è impossibile andare a chiamare aiuto, la casa è del tutto isolata e Agnes, poco più che bambina, neppure si accorge che la neonata è morta stretta tra le sue braccia- è memorabile. Come tutto il libro, del resto.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




        

Nessun commento:

Posta un commento