Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Salman Rushdie durante l'intervista del 2006 |
INTERVISTA A SALMAN RUSHDIE
E’ ambientato in India e in
Europa e in America, il nuovo romanzo di Salman Rushdie, parla di amore, di
gelosia, di ricerca di identità, di guerra e di terrorismo. E di un paradiso
perduto. Abbiamo parlato con l’autore di “Shalimar il clown”, che, proprio nel
corso dell’intervista, ha ricevuto la telefonata con la comunicazione che gli è
stato conferito il Crossword Book Award, il premio indiano per il miglior libro
in inglese dell’anno.
Il 1947 è la data che ritorna quasi sempre nei suoi romanzi ed è anche
la data del suo anno di nascita, proprio come di Saleem Sinai, il personaggio
famoso del suo primo libro: come ci si sente nell’avere la stessa età
dell’India moderna, come se la sua stessa vita fosse iniziata con quella del suo
paese?
E’ una strana coincidenza che l’anno in
cui sono nato sia lo stesso dell’Indipendenza dell’India ed è questa la ragione
per cui ha ispirato molte delle mie opere. In realtà io sono più vecchio
dell’India, perché sono nato otto settimane prima dell’Indipendenza. Perciò
sono vissuto per otto settimane nell’Impero Britannico. E’ stata una grande
scelta da parte mia, tornare a quella data in questo romanzo, perché è la prima
volta dopo “I figli della mezzanotte” in cui ho più personaggi del romanzo che
sono nati nel ‘47. E tuttavia la storia del Kashmir è molto diversa : “Shalimar
il clown” è come l’altro lato della medaglia, è rivisitare la storia de “I
figli della mezzanotte” in un’altra maniera.
Il titolo del romanzo è “Shalimar il clown”, eppure Shalimar non è un
personaggio positivo, subisce una trasformazione, forse non è neppure il
personaggio principale.
Il titolo del romanzo avrebbe potuto
essere diverso, avrebbe potuto intitolarsi con il nome di altri personaggi. Ma
Shalimar è quello che compie, nella sua vita, il viaggio più lungo, è quello
che cambia maggiormente. Non sono certo che Shalimar sia il personaggio
principale, ci sono quattro personaggi che potrebbero reclamare questo ruolo e
mi è difficile scegliere. Per alcuni questo è il libro di Max, per altri è di
una o l’altra delle donne. Ho messo Shalimar nel titolo perché è il personaggio
più strano e la tragedia nel romanzo non
è solo quella contenuta nella sua vita ma è anche quella della Storia che viene
elaborata nella sua storia personale. E poi “Shalimar il clown” suona bene, mi
piaceva la musica del titolo. E mi pareva interessante anche che la parola clown ritornasse uguale in parecchie
lingue europee. Quanto a Shalimar, c’è anche un profumo con questo nome che
significa “la casa della gioia”.
Fino a quando il Kashmir, con i giardini di Shalimar, è stato “la casa
della gioia”?
In apparenza il Kashmir è la casa della
gioia e il punto del romanzo è proprio la perdita della gioia. In realtà, però,
considerando quello che è la razza umana, non siamo mai stati così innocenti.
Anche prima della catastrofe il Kashmir non era un luogo perfetto. Quando nel
villaggio si discute della storia d’amore tra Shalimar e Boonyi, anche se si
pensava che regnasse la tolleranza, la loro è una storia che fa scandalo, la
gente si stupisce che il matrimonio venga accettato. E tuttavia, per chiunque
conoscesse il Kashmir di una volta, c’era una qualità speciale nella vita della
valle: non si trattava solo della bellezza della natura e della gente, ma anche
di un’attrattiva speciale nella qualità della vita. C’erano un’armonia e una
tolleranza diffusa che sono andate perse: è stata come una caduta dal Paradiso.
Neppure in India si conoscono bene quei luoghi, il Kashmir è come una valle sigillata,
e io volevo mostrare a tutti i miei lettori quanto fosse bella- sotto tutti gli
aspetti- la vita nel Kashmir. Volevo creare un interesse per un mondo che è
andato perso, perché se non ti importa di qualcosa, non ti importa neppure che
quel qualcosa scompaia.
Ritorniamo al personaggio di Shalimar, il cui vero nome è Noman.
Dobbiamo pensare che questo nome abbia anche il significato di “nessuno”?
Noman è un nome vero, e però mi piaceva che
ci fosse l’eco di un incrocio linguistico, che si potesse pensare al
significato inglese. Volevo un nome che fosse accettabile come proprio del
Kashmir e mi piaceva che avesse anche una risonanza beckettiana.
Parecchi personaggi del romanzo cambiano nome: non solo Noman diventa
Shalimar, ma anche Bhoomi diventa Boonyi e India riprende il nome che le aveva
dato la vera madre, Kashmira. Il cambiamento dei nomi corrisponde ad un
cambiamento di identità?
In parte il motivo del cambiamento dei nomi
è uno scherzo che gioca sull’accumulo: introduci dei personaggi e non gli piace
come si chiamano. E’ un modo di dire che molti personaggi sono scontenti della
loro vita, vogliono qualcosa di diverso. E tutto questo si esprime nel loro
desiderio di cambiare nome. E’ buffo che ci sia un personaggio che non si
lamenta del suo nome ed è Max: Max usa un nome imprestato e gli piace. Nella
parte della sua vita in cui lotta nella Resistenza, Max falsifica carte
d’identità, costruisce delle identità false ed è importante come la scelta del
nome possa significare vita o morte. Se hai un nome sbagliato finisci ad
Auschwitz. Il nome diventa una questione di sopravvivenza. D’altra parte il
nome è anche una maschera: Shalimar preferisce portare la maschera e usa lo
pseudonimo.
Come mai ha scelto per Max il nome e cognome del famoso regista
tedesco?
Sapevo dall’inizio che il mio personaggio
si sarebbe chiamato Max, non ero certo del cognome. Ophuls mi andava bene
perché poteva essere tedesco, ma anche francese, era un cognome ebraico. Il
vero nome del regista era Max Oppenheimer: anche lui fa parte di quelli che
hanno cambiato nome. Avevo pensato anche a Oppenheimer, ma la verità è che il
nome e il personaggio si addicevano bene l’uno all’altro. Inoltre uno dei temi
dei film del regista tedesco era quello del tradimento sessuale- pensiamo a
“Lola Montez”- e il mio era un romanzo anche sul tradimento e questo mi ha dato
una motivazione razionale. Unica differenza è che il mio Max Ophuls non ha la
dieresi sulla u.
Un tema importante nel romanzo è quello dei confini e di ciò che i
confini significano, lotte personali e lotte politiche.
Nella mia vita che è iniziata con la Spartizione , quando si
tira una linea di confine significa che ci sarà un conflitto. Sono arrivato in
Inghilterra che non avevo ancora 14 anni, era il 1961. Dopo pochi mesi è stato
eretto il Muro di Berlino- era la costruzione di un altro confine. Per me è
stato uno shock, mi richiamava alla memoria la Spartizione , c’era una
divisione di confini anche in Europa. La questione delle frontiere, del
difendere i confini, è sempre stata di
grande importanza e diventa anche un problema di identità. Ho sempre pensato
che Max fosse di Strasburgo e poi ho capito che la sua origine era molto utile
per il libro: l’Alsazia ha avuto centinaia di anni di esperienza di confini che
si spostano. La sua esperienza permette a Max di capire la situazione
dell’India. Quando ho scoperto questa connessione, mi è parso che aiutasse i
lettori occidentali perché era una variante dello stesso tema, e i lettori
indiani, d’altra parte, potevano pensare che non erano gli unici ad avere avuto
un dramma simile. “Shalimar il clown” è un romanzo che vuole creare dei ponti
tra due mondi.
Un altro tema in questo romanzo d’amore è quello della vendetta, che
tuttavia appare comprensibile, se non
giustificata.
La vendetta è sempre un motore fantastico
in un romanzo, o in un dramma. Poi ho pensato che ci poteva essere una doppia
vendetta: non solo Shalimar si vendica, ma anche India. L’idea mi eccitava: non
volevo che India fosse interamente passiva, ho pensato che ci potesse essere
una specie di capovolgimento, per cui ad un certo punto non si sa più chi è il
cacciatore e chi è la preda. Si pensa che sia lei ad essere inseguita, ma- e se
fosse il contrario? Ad un certo momento India è contrariata che Shalimar sia in
prigione, perché in questo modo lei viene privata della sua vendetta. Il libro
inizia come la storia di una vendetta e finisce con un’altra.
I personaggi dei suoi libri hanno spesso una qualche strana
particolarità: ne “I figli della mezzanotte” era un naso straordinariamente
sensibile, era la mancanza di una mano ne “L’ultimo sospiro del Moro”, la
capacità di camminare sull’aria in questo libro. E’ perché la “vita è
fantastica”- come dice il pittore Miranda ne “L’ultimo sospiro del Moro” quando
invita Aurora a lasciar perdere quegli idioti dei realisti e a dipingere
“quello”, cioè la vita fantastica?
Una volta lo pensavo molto di più di
adesso, che la vita fosse fantastica. In questo romanzo il momento del “volo”
di Shalimar è uno dei pochi momenti di realismo magico, ma c’era come un
crescendo che portava naturalmente a questo momento. D’altra parte il volo è
una metafora nel libro, il volo di Shalimar si collega al volo di Max
sull’aereo Bugatti per fuggire da Strasburgo. Volevo usare quello che ad un
certo punto il padre dice a Shalimar: che, quando siamo interamente noi stessi,
possiamo trascendere la vita ordinaria e qualcosa di straordinario diventa
possibile. Penso che l’unica maniera di usare questi elementi “magici” è se
incapsulano qualche verità, se diventano un modo per comunicare qualcosa di
serio sui personaggi. Mi è stato difficile scrivere della vita nel braccio
della morte e ho finito per desiderare che Shalimar riuscisse ad evadere- ecco
perché mi serviva quella scena.
C’è un parallelo, nel romanzo, tra Max che, quando combatte nella
Resistenza, ad un certo punto si rifiuta di eseguire degli atti di terrorismo,
e Shalimar. Acquistano un significato diverso azioni simili in diversi
contesti?
C’erano due cose che volevo dire: prima di
tutto che non tutti sono capaci di atti di violenza. Per quanto l’azione sia
giustificata, come poteva esserlo un attentato durante l’occupazione nazista,
Max non riesce ad uccidere. La capacità della più estrema violenza non è
universale. Perché uno diventa violento e il suo vicino, con le stesse
esperienze, no? Ha qualcosa a che fare con il carattere, ed è questo di cui si
occupa il romanzo. Max non ha la capacità di eseguire atti violenti come
Shalimar. E poi volevo sottolineare come simili azioni in un contesto diverso
abbiano un valore morale diverso. Se paragoniamo le azioni della resistenza
francese con gli atti di terrorismo dei ribelli kashmiri, in molti modi gli
atti di sabotaggio non sono diversi, ma volevo mostrare che il diverso contesto
storico crea conseguenze morali diverse. E’ per questo che l’Alsazia e il
Kashmir sono utili nel libro. Quello che mi interessa è porre delle domande e
lasciare che il lettore ci pensi- non tutti arriveranno alla stessa
conclusione.
Abbiamo visto, sia nel caso del suo romanzo “I versi satanici” in
passato sia in quello più recente delle vignette islamiche, che un’opera può
essere considerata offensiva: può questo costituire un limite per un artista?
Il mondo è un luogo duro e non si può
costruire un mondo senza offendere delle persone. Non si può fare dell’offesa
un limite. E alludo anche a quanto sta accadendo adesso con le vignette
islamiche. Se si vuole vivere in una società libera non si può tacere. Il vero
problema è nella mancanza di humour. E’ come quello che è successo alla
pubblicazione de “I versi satanici”: molti di quelli che reagirono allora non
avevano neppure letto il libro e non avevano osservato quindi che era basato su
una struttura comica. Ci sono molte cose disturbanti, se non capisci la
funzione dell’umorismo nel mondo. L’umorismo ci serve per affrontare le cose
difficili. Il problema, sia nel caso de “I versi satanici” sia in quello delle
vignette, è la mancanza di umorismo. Il mondo è stato scosso da cose di poca
importanza: è una tremenda mancanza di senso delle proporzioni. Se si avesse il
senso delle proporzioni, non ci sarebbe questa reazione. E’ un errore storico
lasciare che l’intimidazione agisca, il risultato è che ci saranno sempre più
episodi del genere. Se “I versi satanici” fosse stato messo al bando, ci
sarebbero state più conseguenze, altri scrittori sarebbero stati attaccati- il
che non è successo.
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