Voci da mondi diversi. Francia
il libro ritrovato
Anne-Marie Garat, “Il quaderno ungherese”
Ed. il Saggiatore, trad. Yasmina
Melaouah, pagg. 989, Euro 22,50
Due donne sole nel Jardin du Luxembourg,
una più anziana avvolta in abiti scuri, una giovane e vestita di chiaro. La più
vecchia, che l’altra chiama ‘zia Agota’, è angosciata- teme che vogliano
espellerla dalla Francia, ha paura di dover tornare a Budapest. L’altra, la
nipote Gabrielle, cerca di tranquillizzarla: andranno insieme alla convocazione
della polizia, ma perché mai dovrebbero, dopo tutta una vita passata in
Francia, mandarle via dal paese? Si tratterà piuttosto di qualcosa che riguarda
Endre Luckácz, il figlio di Agota che Gabrielle considera il suo fidanzato. Non
ne hanno notizie da cinque anni, forse finalmente sapranno che ne è stato di
lui.
Inizia così “Il quaderno ungherese”, della
scrittrice francese Anne-Marie Garat. Un romanzo fiume- perché è lunghissimo,
perché travolge il lettore come un fiume in piena con la ricchezza delle sue
storie, perché- come un grande fiume in cui convergono gli affluenti- ci sono
molte vicende secondarie che affiancano e si uniscono a quella principale che è
poi quella che fa de “Il quaderno ungherese” un romanzo storico. Perché è il
1913: noi lettori del 2009 sappiamo che la Grande Guerra scoppierà di lì a
poco e ne vediamo le avvisaglie in tanti piccoli episodi del libro,
riconosciamo i fermenti che porteranno a quello che sarà uno straordinario
cambiamento epocale. Soprattutto sappiamo che, nella guerra del ‘14-‘18,
saranno usati per la prima volta i gas letali come arma contro il nemico e
allora tutti quei frammenti di storia- l’avventura birmana di Endre, lo
spionaggio da lui condotto i cui dati sono rinchiusi nell’enigmatico quaderno
rosso, l’operaio che muore in Francia per aver inalato qualcosa, le fialette
nel contenitore d’argento che vengono rubate ad un funzionario del Ministero
della Guerra- sono già, per noi, oltremodo allarmanti.
Se le armi chimiche, le prime richieste
degli operai che scioperano per difendere il loro lavoro e poi la cosiddetta
Settimana Rossa a Venezia, servono per caratterizzare il periodo storico e
sociale in cui è ambientato il romanzo, la trama principale è quella tipica del
feuilleton, da far palpitare i cuori:
la zia e Gabrielle ricevono la notizia che Endre è morto, verrà loro
riconsegnato il baule con i suoi effetti personali. Né l’una né l’altra si
accorgono che in realtà il baule non era affatto di Endre, che questa è una
manovra diretta dall’ambiguo Michel Terrier che vuole arrivare a Paul Galay,
scienziato di fama che ha conosciuto Endre in Birmania (e sapremo più tardi
quale sia la promessa d’onore che lo lega a lui). E così Michel Terrier dà
l’imboccata a Gabrielle, che viene assunta come istitutrice della piccola Millie,
figlia di Galay.
Più di mezzo secolo prima
l’istitutrice più famosa della letteratura, Jane Eyre, si innamorava del suo
datore di lavoro: può non scoccare la scintilla nel 1913, quando si stanno
assottigliando le barriere di classe, tra l’incantevole Gabrielle dagli occhi
azzurri che suona il piano e Paul Galay, bell’uomo, intelligente, serio, con il
fascino del vedovo triste? E non ci sono reticenze verginali in Gabrielle,
eroina assoluta del romanzo, con quella generosità di passioni che suscita, di
rimando, l’affetto di tutti gli altri. Perché non è solo Paul ad innamorarsi di
lei: la bimba Millie, che non ha mai conosciuto la mamma, fiorisce
letteralmente, da quando Gabrielle si prende cura di lei e non si staccherebbe
mai dal suo fianco; il fratello cineasta di Paul compra per lei un biglietto
sul transatlantico per New York, sperando contro ogni ragionevolezza che lei lo
raggiunga là; l’anziano collezionista ed esteta capofamiglia Galay le fa una
corte galante e finanche il ‘cattivo’ Terrier la corteggia- per finzione,
certo, ma ne è anche realmente attratto. Anche le donne sono affascinate da
Gabrielle: l’arcigna Mathilde Bertin-Galay, la madre che regge le sorti del
biscottificio e della famiglia, le aumenta addirittura la paga (‘lo stipendio’,
la corregge il figlio) purché non se ne vada; la sorella di Paul- quella che ha
l’audacia di piantare marito e figli- le regala una spilla di famiglia prima di
scomparire; l’amica Dora, infine, che le dà lezioni di piano e vorrebbe
qualcosa di più che amicizia in cambio…
“Abbiamo bisogno di storie,” dice il
regista Daniel Galay. “Perché la realtà sta in piedi, è vivibile, solo se in
essa inventiamo la bellezza”. Anne-Marie Garat fa proprio questo nel suo
romanzo di 989 pagine: costruisce storie “da straziarci il cuore”. Intessendo
la trama con un ordito ricco di riferimenti alla letteratura (Thomas Mann e
Conrad, Dickens e Brontë, Apollinaire e Rimbaud e altri ancora), alla storia,
alle nuove discipline mediche (Charcot e Freud), alla pittura (vivissima
un’immagine di Gabrielle tra l’erba alta come la figura di Monet nel quadro con
i papaveri). Leggere “Il quaderno ungherese” è come fare una caccia al tesoro,
come leggere tanti romanzi in uno solo, con la sensazione di restare orfani
quando lo abbiamo terminato.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
Nessun commento:
Posta un commento