Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
fresco di lettura
Louise Erdrich, “Il
giorno dei colombi”
Ed. Feltrinelli, trad. V. Mantovani, pagg. 387, Euro 19,00
“Il giorno dei colombi”, il nuovo
romanzo di Louise Erdrich (la scrittrice è figlia di un’indiana Ojibwe e di un
emigrato tedesco), incomincia con un atroce delitto commesso nel 1911 nel Nord
Dakota, lo sfondo abituale dei suoi libri. Un’intera famiglia di bianchi fu
uccisa in una fattoria, l’unica a sopravvivere fu una bimba che dormiva nella
culla. Venne fatta giustizia sommaria e dei nativi americani furono impiccati.
Stranamente ad uno di loro fu tolto il cappio all’ultimo momento- si trattava
di Mooshum, il nonno di Eveline che è il primo personaggio a prendere la parola
in un romanzo che è come un puzzle di cui si collocano prima le tessere più
esterne e poi, a poco a poco, ci si avvicina al centro del disegno,
all’imperdonabile ingiustizia, all’intrico di innocenza e colpevolezza.
Leggendo “Il giorno dei colombi”, terzo romanzo della Erdrich pubblicato
dalla casa editrice Feltrinelli, mi sono resa conto che la scrittrice sta
tracciando la geografia di un mondo popolato da personaggi ricorrenti- non
tutti, ma alcuni di quelli che appaiono ne “Il giorno dei colombi” li avevamo
già incontrati ne “La casa tonda”, anche se in un tempo cronologicamente
posteriore a quello di questo libro. E il metodo, portare sulla scena
protagonisti diversi in una storia intrecciata, riprendere personaggi che
abbiamo già conosciuto, ci fa pensare a Faulkner, sostituendo il profondo Sud della
contea Yoknapatawpha con il nord della riserva indiana Chippewa, sulle coste
del Lago Superiore. Incomincia Eveline a raccontare- e all’inizio è ancora
bambina, le storie del nonno Mooshum sono buffe e lei neppure le capisce
interamente. Seguiranno altri narratori e alcune delle vicende che leggeremo
sono stupefacenti, per motivi diversi. Stupefacente e affascinante è il viaggio
di un gruppo di bianchi con delle guide native ad occupare un pezzo di terra su
cui fondare una città, simile alle imprese delle carovane dirette verso il
mitico Far West, affondando però con i buoi nella neve, correndo il rischio di
morire di freddo, di fame, di disperazione. Stupefacente e paurosa è la vicenda
del ragazzino smilzo che diventa un predicatore invasato mentre il suo corpo si
allarga tanto quanto il suo ego. La storia di Mooshum ha, invece, qualcosa
dell’aura della fiaba, o della leggenda- e non si sa quanto di vero ci sia, e
quanto lui ci abbia ricamato sopra. Il giorno in cui Mooshum reggeva il
candelabro di una processione religiosa era stato proprio quello ‘dei colombi’-
i fedeli avevano fatto fatica a difendersi da quello stuolo di uccelli fitti
come cavallette.
E Mooshum, ancora quasi un bambino, era scappato con Junesse,
giovane come lui. Junesse che era figlia di un Wildstrand, uno degli uomini che
impiccarono gli indiani. Un altro Wildstrand era il padre di Corwin Peace, il
ragazzino il cui nome la bambina Eveline si scrive sul corpo un milione di
volte. E però lo aveva avuto da un’altra donna perché sua moglie era Neve Harp,
zia di Eveline, occupata a scrivere la storia della cittadina di Pluto. Anche Geraldine
è zia di Eveline ed è la moglie del giudice Coutts, l’altro narratore fisso del
romanzo- avevamo trovato sia Geraldine sia il giudice come protagonisti ne “La
casa tonda”, qui, oltre alla loro storia d’amore, leggiamo quella- durata molti
anni, fin da quando era un adolescente- del giudice con una donna molto più
anziana che fa il medico, ma si rifiuta di curare gli indiani. Eppure il
giudice è un indiano ed era stato guarito da lei. Solo alla fine, quando
sistemiamo le ultime tessere del puzzle, è chiaro chi sia la donna del cui nome
finora abbiamo conosciuto solo l’iniziale, C.
Poi mi parlò di parecchi casi, nel corso
degli anni, in cui la dottoressa aveva respinto delle persone- anche casi di
emergenza- e di come avesse fatto sapere, in generale, che non voleva curare la
nostra gente. Tutti conoscevano il motivo. Era qualcosa di più della solita
intolleranza, disse Geraldine: allora capii che della dottoressa io avevo
saputo tutto e nulla. Solo più tardi me ne resi conto: se avessi avuto l’età di
C., non avrebbe contato.
Un romanzo deve raccontare una storia ed io
mi rammarico spesso della mancanza di storie nei romanzi di oggi. “Il giorno
dei colombi” trabocca di storie, sembra che una storia nasca da un’altra,
all’infinito. Storie ricche di colore, di variazioni, di personaggi, di
avventure, di sentimenti (un’altra storia è bellissima, quella del violino del
fratello di Mooshum). Storie che veleggiano tra il reale e il fantastico e che,
sempre, nel profondo, ci parlano del dolore dei nativi per la perdita della
loro terra, per le ingiustizie e le discriminazioni, per quella che è stata la
prima arrogante conquista degli americani quando neppure erano ancora
americani, ma coloni di origine europea alla ventura sul suolo del nuovo mondo.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
Louise Erdrich |
Nessun commento:
Posta un commento