domenica 14 gennaio 2024

Stefano Amato, "L'ultima candela di Krujë"- Intervista 2024

 

     

                                  


Sono stata in Albania, la scorsa primavera. Non per fare un soggiorno al mare ma per un tour che mi ha portato dal Nord al Sud del paese, con una guida preparata, bravissima. Davanti alla finestra della mia stanza, nell’albergo di Tirana, c’era la statua equestre di Gjorgi Kastriota Scanderbeg. Non sapevo nulla di lui quando sono arrivata, ne ho sentito parlare ogni giorno durante il viaggio e ne ho capito l’importanza per gli albanesi. Era una figura quasi mitica, un eroe. Quando è uscito il libro di Stefano Amato, ho pensato subito che dovevo leggerlo, che era un segnale per approfondire la conoscenza della storia di un paese che mi aveva incantato.

A che cosa è dovuta la forza con cui resiste il mito dell’eroe Scanderbeg? La necessità di un popolo di identificarsi con un eroe? Il ricordo di un pericolo del passato che deve servire come monito per il futuro?

    Dipende dal punto di vista. Ho scritto il romanzo da italo-albanese e non so se sia lo stesso punto di vista degli albanesi di Albania. Anche da noi c’è un forte legame storico con Scanderbeg, è un elemento che ha aiutato i profughi a mantenere la loro identità, un riscontro con le capacità che Scanderbeg ha avuto come principe del principato di Castriota, come diplomatico per i suoi contatti con gli aragonesi e un esempio per i profughi che sono arrivati dall’Albania. E sì, certamente, per gli albanesi è un monito- l’Albania è sempre stata minacciata dalla Turchia e poi dall’Unione Sovietica.


Che cosa l’ha spinto a ‘ripescare’ la figura di questo eroe?

     Più che ‘ripescare’ avevo voglia di cucire la storia dei miei antenati, degli albanesi che sono arrivati in Calabria, a Frascineto dove sono cresciuto.

Frascineto

Da bambino si parlava albanese e nessuno me ne spiegava il motivo, provavo curiosità per la storia della mia famiglia e per i motivi per cui gli italo- albanesi erano legati alla loro identità. Crescendo mi sono appassionato a questa storia e poi sono stato influenzato da Carmine Abate, dal suo libro “Le stagioni di Hora”. Volevo capire come era avvenuto l’esodo albanese in Italia e come si è tramandata la storia di Scanderbeg. Mi ha portato ad immaginare come potesse essere stato per una ragazzina che vive la fuga dall’Albania  e, per raccontarlo, sono partito dal mito di Scanderbeg.

In tutte  le statue e i dipinti che ho visto, Scanderbeg è un uomo imponente. Mi ha incuriosito il suo elmo: perché è sormontato da una testa di capra?

    Penso che si possa spiegare con uno degli aneddoti che si raccontano su Scanderbeg, riportato dallo storico ottocentesco Noli- durante una battaglia a Kruje Scanderbeg, per spaventare i nemici, mandò avanti un gregge di capre con delle torce accese legate sulla testa.


La bandiera dell’Albania, molto scenografica, ha un’aquila con due teste che guardano in direzioni opposte. Che cosa simboleggiano le due aquile?

     L’aquila bicipite viene dall’impero bizantino ed è stata ripresa dall’Albania quando era già turca. Le due teste rivolte in direzione opposta possono significare lo sguardo verso due aree geografiche diverse oppure il doppio potere, laico e religioso. E poi dobbiamo ricordare che il nome Albania viene dal nome Arberor che aveva nel Medio Evo. In epoca moderna è chiamata Stiperia, cioè terra delle aquile.

La seconda parte del libro sposta l’ambientazione del romanzo in Italia, più precisamente nella Calabria Citra- una denominazione che peraltro non conoscevo. Prima di tutto mi ha colpito la somiglianza tra le scene degli albanesi nel 1500 e quelle che sono ancora negli occhi di tutti, del 1991- la fuga e l’esilio sono delle costanti. Nella mente delle due protagoniste l’Italia rappresentava la pace, la fuga dalla guerra. Non era poi molto diverso da quello che rappresentava per gli albanesi di 500 anni più tardi.

     Sicuramente. A differenza però dall’emigrazione degli anni ’90 c’era un accordo politico tra il Regno Aragonese e Scanderbeg- il re Ferrante mandava aiuti militari e in cambio gli albanesi conquistavano le terre occupate dai turchi per darle al regno di Napoli. Gli immigrati albanesi erano malvisti, venivano chiamati con un termine cattivo, ‘i cagnoli’, i branchi di cani. C’è una predisposizione innata negli uomini a giudicare negativamente chi parla un’altra lingua o professa un’altra religione.

Lei è cresciuto nella comunità arbëreshë. Vorrei che ce ne parlasse. È una comunità chiusa? È numerosa? Parlano ancora albanese? Sono tante domande…


    Oggi no, non è una comunità chiusa, oggi tutto è diverso, rispetto anche ai racconti di mia nonna che è nata nel 1940 e di mia mamma che è del 1960. Mia nonna parlava solo in albanese e un poco in dialetto calabrese. Facevo fatica a capirla. Fino al secondo dopoguerra era una comunità chiusa, arretrata, basti pensare che il metano per il riscaldamento è arrivato solo nel 2000. Incredibile. La mia generazione però – io sono nato nel 1987- è diversa. Siamo cresciuti con la RAI e con la televisione. Era cambiato l’obbligo scolastico e l’italiano era diventata la prima lingua. L’obbligo scolastico e la televisione hanno fatto la differenza. E poi, dal secondo dopoguerra è iniziata una emigrazione verso la Svizzera e la Germania e la popolazione si è ridotta. Sono zone depresse e molti vanno via, anche io sono andato via per lavoro.

Si sono integrati? I matrimoni sono solo tra albanesi o sono misti?

    In passato i matrimoni erano solo tra arbëreshë, c’era diffidenza verso gli italiani che venivano chiamati ‘latini’- adesso con il termine ‘latini’ ci si riferisce agli stranieri. C’era una diffidenza etnica verso le persone della Calabria. Poi, gradualmente, sono diventati comuni i matrimoni misti.

Che religione professano?

      Per quello che riguarda la religione, apparteniamo alla Chiesa Uniate che segue il rito greco-bizantino, con vescovi eletti dal Papa. È simile alla chiesa ortodossa, segue il calendario greco-bizantino, i preti possono sposarsi, l’iconostasi è davanti all’altare, la ricorrenza dei morti viene celebrata nella settimana prima della Quaresima, però riconosce come capo il Papa di Roma.


Ci sono altre comunità arbëreshë nel Sud Italia?

    In provincia di Cosenza ci sono 36 comunità, ce ne sono altre in Sicilia, in Basilicata, in Puglia e in Campania- sono i discendenti dei primi immigrati. Nel ‘700 si stabilirono altre comunità in Abruzzo e in Molise. Nel Nord arrivarono dopo, in provincia di Piacenza..

Nella cultura albanese c’è una cosa che mi affascina, una cosa di straordinaria importanza- la besa. Basta pensare che, per via della besa, durante la seconda guerra mondiale l’Albania, unico tra i paesi europei, non ha consegnato i suoi 2000 ebrei ai nazisti. Può parlarcene?

    La Besa- la traduzione in italiano sarebbe ‘Promessa’, ma ha un significato più viscerale, la Besa è la parola data. Ha mantenuto il significato come ‘patto di sangue’, è una promessa che prevede rispetto della persona e, se la promessa non viene mantenuta, difficilmente ci si riappacifica. In passato si arrivava anche ad azioni violente. Ha qualcosa in comune con il codice d’onore del Sud dell’Italia. La Besa è istituzionalizzata dal kanun, il Codice. Si vuol sottolineare l’impegno che si prende con qualcuno e dipende dal valore che si dà alle promesse. Ha avuto valore per creare un ordine sociale. Nel passaggio dall’impero bizantino all’impero ottomano definire le regole sociali fu di vitale importanza: la promessa in momenti di incertezza sociale è basilare.

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