Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
guerra dei Balcani
Priscilla Morris, “Le farfalle di Sarajevo”
Ed.
Neri Pozza, trad. Alba Bariffi, pagg. 228, Euro 18,00
1992. Sarajevo. Era stato il primo segnale di allarme. “Le sono entrati in casa”- l’aveva informata la vicina di sua madre in una telefonata di primo mattino. “Criminali, teppisti, Dio sa chi.” E Zora Kočovič era salita su un tram insieme al marito per andare a controllare. Era vero, due uomini e una donna si erano appropriati dell’appartamento di sua madre, momentaneamente vuoto perché la madre era ospite a casa loro. Si sentivano giustificati perché il governo aveva detto che tutti gli appartamenti abbandonati erano di proprietà pubblica. Zora era riuscita a mandarli via e aveva fatto cambiare serratura. Ma questo era solo l’inizio, poi erano venute le barricate, la divisione della città, il luccichio delle armi in cima alla montagna che sovrastava Sarajevo, la mole dei carri armati che sembravano giocattoli. Ma non lo erano. La figlia di Zora viveva con il marito in Inghilterra, suo marito e sua madre sarebbero andati da lei. Zora sarebbe rimasta. Era una pittrice di fama, aveva ottenuto di usare uno studio all’ultimo piano della Viječnica- la biblioteca nazionale con la splendida cupola di vetri azzurrini-, insegnava pittura. Dipingeva, Zora. Aveva l’ossessione dei ponti, stava lavorando su una grande tela che rappresentava il ponte delle Capre, fuori Sarajevo. Non poteva allontanarsi, i suoi quadri erano lei, Sarajevo era lei. Era cresciuta in quella città che era un esempio della pacifica convivenza di religioni e di nazionalità. Quella bufera sarebbe passata.
E invece iniziò l’assedio, il 5 aprile 1992,
1425 giorni di assedio, fino al 29 febbraio 1996, il più lungo dell’epoca moderna.
11000 i morti. E l’anno peggiore fu proprio il primo, quando avevano iniziato a
scarseggiare i generi alimentari, quando l’elettricità era stata tagliata, e
poi l’acqua. Per non parlare dei cecchini, delle granate e delle bombe. E
infine del gelido inverno, più freddo di qualunque altro inverno nel passato,
mentre la gente viveva in case sventrate, con coperte tese a sostituire i vetri
infranti.
È questa la storia che Priscilla Morris ci racconta ne “Le farfalle di Sarajevo”. Nella nota finale dice di essersi ispirata alla vita del suo prozio, pittore paesaggistico il cui studio, nella Biblioteca Nazionale, andò a fuoco nell’incendio del 1992, e anche ad eventi della vita di suo padre, a come era riuscito a fare uscire i suoceri dalla città assediata, dopo che il loro appartamento era stato bombardato.
Continuare a vivere nella città assediata significa non arrendersi al nazionalismo, continuare a dare vita a Sarajevo. Chi abbandona la città si sente un traditore. Zora vuol restare, sa di fare la sua parte andando ogni mattina a dare lezione, dipingendo un grande albero sulla parete della sua stanza insieme alla piccola Una. E se, pur amando il marito, la paura e la solitudine la spingono verso un altro uomo- che altro resta se non l’amore e l’amicizia, in tutta quella distruzione?
Cede anche Zora, ad un certo punto. Cede dopo aver superato i due momenti cruciali di quei mesi- la morte di un edificio che conteneva la cultura della Bosnia e la morte di una bambina, la vittima innocente, il futuro della Bosnia.
Un libro dolorosamente intenso, di quella
bellezza tragica che solo certi periodi di Storia vera possono avere,
attraversato da lampi di poesia nella descrizione dei quadri di Zora o in
quella delle ceneri che si sollevano dai libri divorati dalle fiamme sulla
città come tante farfalle nere. La bellezza lieve delle farfalle. Il nero della
morte.
Bellissimo.
Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook
Nessun commento:
Posta un commento