Voci da mondi diversi. Oman
storia di famiglia
Jokha Alharthi, “L’albero delle arance amare”
Ed.
Bompiani, Trad. Giacomo Longhi, pagg. 192, Euro 17,10
Londra. Nel dormitorio universitario
Zuhur- è arrivata dall’Oman per studiare in Inghilterra- soffre di solitudine.
E di sensi di colpa. La assilla il ricordo della nonna Bint ‘Amir (la figlia di
Amir, il solo nome con cui l’abbiano conosciuta), il senso di colpa per non
essersi girata quando questa la chiamava, supplicandola, ‘non ve ne andate’.
Bint ‘Amir non era la sua vera nonna, ma era come se lo fosse. Aveva cresciuto
suo padre Mansur che la chiamava Mah e si era presa cura di Zuhur, di sua sorella
e del fratellino più piccolo, quando la loro madre era caduta in depressione
dopo il parto. Era una nonna che aveva fatto loro anche da madre.
La narrativa si svolge su due piani temporali- il presente a Londra tra gli studenti che arrivano dai paesi arabi e dal Medio Oriente e il passato in Oman, affollato di ricordi e di storie della famiglia di Zuhur. Il contrasto, di luogo, di clima, di culture, di stili di vita, non potrebbe essere più grande.
La sorella della migliore amica di Zuhur, una ragazza di una famiglia pakistana molto ricca, ha contratto un ‘matrimonio temporaneo’ (una forma di matrimonio che ha una scadenza, non accettato in tutto l’Islam) con un compagno di studi del corso di medicina. La differenza di ceto sociale tra i due giovani è enorme, perché lui appartiene a una famiglia contadina. È in Inghilterra con una borsa di studio e non ha intenzione di tornare in Pakistan da un padre violento delle cui sferzate porta le cicatrici sulla carne. Il racconto di questo amore di cui Zuhur è testimone, della sottile invidia che prova per quel rapporto così libero e passionale, del triangolo che si forma, di cui Zuhur è uno degli angoli, dell’innamoramento mai confessato della stessa Zuhur per il ragazzo, è il filone che fa da sfondo all’altra narrativa, alla storia di Bent ‘Amir, scacciata con il fratello dal loro padre su istigazione della seconda moglie di questi.
Ha avuto una vita difficile e drammatica,
Bent ‘Amir. Il fratello è morto presto perché non ha retto la fatica del
lavoro, lei, cieca da un occhio, nella miseria più totale, ha finito per
trovare alloggio da un parente caritatevole, il nonno di Zuhur. Bent ‘Amir
entra ed esce dal racconto, dominandolo totalmente. È un personaggio femminile
molto bello nella sua dedizione totale alla famiglia che l’ha accolta. Lei, che
non è mai stata madre, che, come in uno scherzo della sorte, conosce per caso
quando è vecchia l’uomo che l’aveva chiesta in matrimonio e che suo padre aveva
respinto, diventa la figura della grande madre che ama senza riserve i bambini
che le vengono affidati. Si dice addirittura che sia stata lei ad allattare
Mansur e poi il figlio di questi, che il suo seno avvizzito di vecchia abbia
stillato latte quando ha avuto vicino la testolina di un neonato. E allora le piante
del suo giardino che crescono rigogliose sono un riflesso di questa cura degli
altri, l’albero delle arance amare, che ha fatto frutti finché lei è rimasta in
vita per poi avvizzire e morire, diventa un simbolo di lei stessa, un simbolo
di vita piena e succosa, con quel frutto luminoso che ha un retrogusto un poco
amaro, proprio come lei.
Nessun commento:
Posta un commento