Poteva esserci un giorno più sfortunato, per la presentazione di un libro e della sua scrittrice, di un giorno di sciopero dei mezzi, a Milano, e di maltempo che ormai significa violentissimi temporali? Forse, però, come si dice, ‘sposa bagnata, sposa fortunata’, si può anche dire ‘scrittrice bagnata, scrittrice fortunata’- scrosciava la pioggia mentre Nino Haratischwili entrava nella libreria Feltrinelli, eppure erano in molti quelli che avevano affrontato le difficoltà per venire a sentirla parlare del suo nuovo romanzo, “La luce che manca”. E ne valeva la pena.
Vestita di nero, con un bel viso dall’aria
un po’ austera, Nino Haratischwili parla perfettamente sia il tedesco sia l’inglese
(non ho potuto fare a meno di domandarmi quanti scrittori italiani ne sarebbero
in grado) e, prima che iniziasse la presentazione, ho avuto modo di farle delle
domande sul suo libro.
Un personaggio del suo libro ad un certo punto dice, “E’ ancora mia
questa città? Posso ancora chiamarla mia dopo che ho perso tante stagioni di
lillà in fiore? Quando è che una cosa cessa di essere nostra?”. So che Lei non
è Qeto, una delle protagoniste, ma si riconosce in lei? si pone la stessa
domanda? È ancora la sua città, Tbilisi?
Non proprio, non più, ma
torno spesso a Tbilisi, ho un appartamento laggiù, sono sempre in contatto con
gli amici e con la mia famiglia. E tuttavia, quando ci si allontana, non si
appartiene più alla città e a volte mi rattrista tornare e rendermi conto che
non si fa più parte della città. Può essere, però, anche liberatorio, si
diventa un poco estranei, si acquista una nuova prospettiva e questo mi piace,
dell’essere estranei- si inizia a guardare le cose da un altro punto di vista.
Nel romanzo ci sono le quattro amiche
che sono i personaggi principali e poi c’è un’altra protagonista, la macchina
fotografica di Dina: è il punto di vista oggettivo?
Interessante. Può essere anche questa un’interpretazione. Per me la fotografia era un mezzo importante per scrivere il libro, mi era utile, mentre lo scrivevo, usare un tramite diverso per descrivere le cose. Potevo zumare su di esse- con le parole naturalmente- e mi ha aiutato molto per sottolineare quello che mi pareva importante, mi ha aiutato ad avvicinarmi alla situazione e ai problemi.
Una peculiarità della sua narrativa è
che la voce parlante NON è il personaggio principale. L’attenzione è centrata
su Dina: perché ha scelto lei come la
ragazza più ‘in vista’?
Per me lei non è la protagonista, sono
tutte loro protagoniste sullo stesso livello. Dina, però, è la più espressiva,
è il motore, è una forza trainante- ecco perché sembra essere lei il
personaggio più importante. Forse è lei che spinge la storia a proseguire, è
lei che prende decisioni che hanno conseguenze. Ira ha i suoi progetti, Nene
agisce seguendo l’istinto, e Qeto- a chi toccava raccontare la storia? Poteva
toccare solo a lei, Qeto, perché è la più osservatrice, lei è quella giusta per
raccontare. Non è obiettiva al 100% ma lo è più delle altre.
La storia del romanzo si svolge negli
anni ‘90 e tuttavia mi sono stupita di leggere di comportamenti che, a quel
tempo, non erano più comuni nel Nord Italia anche se forse lo sono tuttora nel
nostro profondo Sud: l’onore della famiglia era così importante? Lo è tuttora?
Sì, il senso dell’onore era proprio così, può sembrare esagerato, ma era così. Adesso le cose sono cambiate e poi dipende da dove sei, nei paesi in montagna è ancora così, ma non nelle città. Quella georgiana era una società dominata dall’uomo, dal maschio, era un patriarcato e d’altra parte era una società senza regole, un’anarchia: gli uomini decidevano tutto e in maniera sbagliata. Era una società violenta. Le donne improvvisavano e cercavano di farsi strada. I criminali erano il modello da imitare e i giovani li imitavano. La conseguenza fu una grande tragedia in cui due generazioni andarono perse, per la violenza e per la droga.
Mi ha scioccato la ferocia del suo
romanzo. Dopo l’inizio quasi idilliaco, il romanzo diventa sempre più
selvaggio. La violenza aumenta a tutti i livelli, il Male si diffonde nelle
famiglie e nell’intero paese che sembra essere coinvolto in una guerra senza
fine- guerra civile, guerra fra le gang, guerra in Abkhazia. Viveva ancora a
Tbilisi in quegli anni? ha vissuto le stesse esperienze delle quattro ragazze?
Io sono fortunata, sono di dieci anni più
giovane delle protagoniste del romanzo, sono stata protetta dalla mia età e
dalla mia famiglia. Non ero molto consapevole di quello che succedeva, ma
ricordo benissimo. I personaggi del libro sono fittizi, ma tutto il resto, le
gang e le loro imprese, tutto quello che succede nel libro era vero. Io vedevo
ma non ero in grado di analizzare quello che vedevo. E poi diventava qualcosa
di normale, non c’era un punto di paragone.
Adesso
sembra una follia, sono fatti di 25 anni fa ed è quasi impossibile spiegarlo ai
ventenni di adesso. Si parla molto di quegli anni, tutti sanno dei terribili
anni ‘90, tutte le famiglie sono state traumatizzate, hanno avuto un impatto su
tutta la società. Ai giovani, però, sembra un film del Far West e perfino a me
sembra impossibile che sia stato così.Giardino Botanico di Bruxelles
Quale è stata la parte più dolorosa del
romanzo da scrivere?
Il suicidio di Dina. Non anticipo nulla
perché si sa dalle prime pagine del libro, ma non si sa come e perché e, mentre
leggi, vuoi saperlo. È stato doloroso scriverne. Quando, nel presente, le
amiche ritrovate sono nel Giardino Botanico di Bruxelles, si scopre che Qeto aveva
cancellato il ricordo della morte di Dina, il dolore aveva fatto sì che lei
avesse rimosso quanto era accaduto. Ero depressa mentre ne scrivevo, non volevo
lasciarla andare, ma i personaggi sviluppano la loro storia e il loro destino
ed io devo seguirli. E poi mi è stato anche doloroso scrivere della scena dello
zoo, il punto di svolta nella vita delle ragazze.
A proposito della scena dello zoo: non
mi aspettavo di veder riapparire il personaggio del ragazzo con i capelli
rossi…
L’idea di far riapparire il Rosso è arrivata
dopo, in effetti non pensavo ne avrei scritto ancora. Quando mi è venuto in
mente, mi sembrava la maniera giusta di chiudere il cerchio.
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