Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
Eleanor Shearer, “Libero scorre il fiume”
Ed.
Nord, trad. A. Storti, pagg. 368, Euro 19,00
Una manciata di isole nel mar dei Caraibi,
al largo del Venezuela e della Guyana. Il paradiso dei turisti in cerca di mari
cristallini, oggi. L’inferno degli schiavi nel 1834, quando inizia la vicenda
di questo romanzo di Eleanor Shearer, scrittrice inglese i cui nonni sono
emigrati dai Caraibi.
La schiavitù è stata abolita. Sulla carta.
Sostituita dai padroni delle piantagioni di canna da zucchero con l’obbligo di
un apprendistato di sei anni. nulla è cambiato, dunque, di fatto.
Venduto. Venduta. Fuggito. Sono queste le parole che ricorrono più spesso in questo romanzo che non ha la pretesa di essere un romanzo storico ma, seguendo le peripezie di Rachel, ci dice tanto sulla storia di queste isole. I figli di Rachel sono stati venduti, uno dopo l’altro, quando erano ancora bambini. Cinque di loro. E forse la sofferenza di vederseli strappare era stata ancora più grande di quella provata per i figli nati morti o morti poco dopo essere venuti al mondo. Quando Rachel apprende che è una falsa libertà quella che gli è stata data, decide di fuggire sfidando la sorte, perché sa benissimo quale punizione l’aspetta se la fuga fallisce, se viene riacciuffata. Ricorda l’uomo a cui hanno tagliato il naso, ricorda le frustate.
Cinque figli, due maschi e tre bambine,
ognuno una storia a sé, ognuno che ha accumulato umiliazioni e sofferenze. Uno
di loro- il primogenito, il figlio del suo cuore- è morto da eroe. Di lui avrà
notizie molto presto. Una delle bambine aveva perso la parola dopo un assalto
subito dal padrone bianco, è dolce e gentile, accompagnerà la madre nella
ricerca, dopo essere stata ritrovata, e troverà anche l’amore.
Rachel è una donna indomita, non si arrende davanti a nulla, è una Madre Coraggio dei Caraibi, niente le sembra insormontabile, neppure abbandonare Barbados, dove era la sua piantagione, per andare a Georgetown, nella Guyana Britannica e poi nelle foreste di Trinidad, quando le giunge voce che qualcuno ha visto un suo figlio o una figlia laggiù. Sempre in fuga, sempre temendo di essere catturata dal supervisore e riportata a Barbados, incontrando ogni tanto persone generose (mai bianche) che l’aiutano. Dobbiamo sospendere l’incredulità, leggendo. Dobbiamo credere che la somiglianza fisica sia così marcata da far sì che degli estranei possano dare a Rachel indicazioni, che sia possibile cercare qualcuno citando solo il suo nome come se fosse l’unico ad averlo. Ma, dopo tutto, che altro potrebbe fare Rachel? C’è una buona dose di fortuna, c’è il caso, ci sono le coincidenze che operano a suo favore.
La ricerca di Rachel- avventurosa,
pericolosa e faticosa sia dal punto di vista fisico sia da quello psicologico
per le memorie che risveglia e per la continua sensazione di perdita- non si
conclude sempre felicemente. Perché il dolore non è soltanto quello che può
dare la morte di un figlio, dolore è anche l’essere rinnegata per il colore
della pelle, per essere stata una schiava. Quello che prevale, però, è l’inno
alla libertà che può significare altre scelte di vita, ma è inarrestabile, come
il fiume su cui Rachel e gli altri troveranno la salvezza, un fiume che
acquista un significato simbolico, quasi in opposizione alla buia foresta e ai
campi che forniscono lo zucchero per addolcire la vita dei bianchi a prezzo
della vita degli schiavi neri.
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