Il Moro e il Monte Grappa mi sono entrati nel cuore, continuavo a pensarci, desideravo continuare a parlarne con chi li conosceva bene. Prima della pandemia, prima del lockdown, non amavo intervistare gli scrittori per telefono, niente è come dialogare faccia a faccia. Però ricordavo la mia precedente intervista a Paolo Malaguti nel bar della stazione di Milano che si affaccia sui binari dei treni, dopo la sua presentazione di un altro suo libro che avevo molto amato, “Prima dell’alba”. Sembra ieri ed era il 2017. Ho pensato allora che avremmo potuto ritrovare anche al telefono quella naturalezza di colloquio che avevamo avuto allora. Ed ecco quello che ci siamo detti, sul Moro, sul monte Grappa, sulla Grande Guerra.
Come hai ‘conosciuto’ il Moro? E uso il
verbo ‘conosciuto’ con doppio significato- come sei venuto a sapere di lui e
come sei riuscito a conoscerlo così bene da farlo rivivere per i lettori?
Quella del Moro è una figura storica che
ho incontrato per la prima volta nel 2009 quando ho fatto ricerche per il mio
libro “Sul Grappa dopo la Vittoria”. Nella raccolta della documentazione ho
messo gli occhi su questo guardiano del rifugio sul Grappa. Però non c’entrava con il romanzo. È una storia, di
questo guardiano, che dura da tempo, volevo scrivere di lui.
Per approfondire ho dovuto trovare l’occasione e la disponibilità di chi lo aveva conosciuto. Ho incontrato una sua nipote, nata nel 1940, che mi ha raccontato aneddoti, ho consultato documentazioni dell’epoca- tutto questo mi ha permesso di avvicinarmi a lui. Scrivere di un personaggio così ha qualcosa di ambivalente: si sa poco di lui e perciò ci si sente liberi di scriverne- ad esempio, ho dovuto inventare la sua infanzia. D’altra parte, però, proprio perché si sa poco, volevo fare passi giusti con quel poco che si sapeva. È stata un’operazione meditata nel tempo, lentamente.
La voce del Moro, la sentiamo sempre. Di
nuovo: come hai fatto a ‘sentirla’, tu, con il suo dialetto? A questo proposito
devo ammettere di avere avuto qualche difficoltà. Ad esempio, solo a due terzi
del libro ho capito che il musso era
il mulo…
Era un aspetto che mi intimoriva, perché
era la prima volta che mi confrontavo con un protagonista di cui seguivo tutta
la vita e oltretutto era veramente esistito. Il problema era come gestire il
pudore di parlare di una persona che aveva vissuto nella realtà e come renderlo
narrativamente interessante. Poi, però, non ho avuto problemi, ho sfruttato gli
interessi dei libri precedenti- la figura del nonno di poche parole e con
battute fulminanti, del vecchio uomo di campagna, era presente già nel mio
romanzo “Se l’acqua ride”. Il Moro mi
serviva anche per esprimere certi aspetti della Grande Storia che avevo
trattato con altri metodi, la potevo guardare con gli occhi di chi è forte
caratterialmente e riesce ad opporsi alle forze che hanno trasformato la
memoria della guerra. Il Moro è uomo dalla parlata anche un poco gradassa,
corrosiva, perché prende in giro chiunque si trovi di fronte a lui, e nello
stesso tempo è sapienziale, come il padron ‘Ntoni dei Malavoglia- ogni tanto
gli faccio dire proverbi, modi di dire della provincia veneta. Per come l’ho
immaginato, il Moro è molto laico, in grado di tenere a bada persone altolocate
incontrate in cima al Grappa e anche persone comuni del paese, ha un linguaggio
molto aperto.
Il Moro è solo uno dei due grandi
protagonisti del libro. L’altro è il Monte Grappa, anzi ‘la Grapa’, come la
chiama lui. Partiamo da qui: nel tuo romanzo “Prima dell’alba” avevo letto de
‘la Piave’, ‘la Brenta’. Ora leggiamo della Grapa. Quando e perché anche la
Grapa è diventata ‘il’ Grappa?
Alla fine dell’800, nelle prime documentazioni e anche nella targa fuori dal rifugio, più tardi, si chiamava ancora ‘la Grappa’. E ha un senso etimologicamente, da una forma dell’antico germanico, Krap, che vuol dire ‘testa’, la testa del monte che si vede da lontano. Prima della guerra con il nome della cima si indicava anche tutto il massiccio, massiccio del Grappa, e, durante la guerra, sulle pagine della Domenica del Corriere, quando si celebravano le vittorie, era già maschile. Poi le canzoni e le orazioni pubbliche, il monte del riscatto dopo Caporetto è diventato maschio ed è rimasto tale nei decenni successivi.
Ho letto il libro come un canto d’amore
per il Monte Grappa. Sbaglio nel dire che subisci il fascino di questo monte?
Senz’altro è così e, in qualche modo, da
tempo, fin dal 2005 quando mi sono trasferito nella pedemontana. Nei primi anni
è stata una cosa normale, ma negli ultimi tre anni ho subito un nuovo
innamoramento. C’è stata la pandemia e, dopo, ho assaporato la montagna con una
gioia mai provata. Almeno una volta alla settimana salgo in montagna- è un
polmone dell’anima, dopo riesco ad affrontare meglio la settimana. E così ho
cercato di cantare il Grappa meglio che potevo.
Anche se sono passati più di 100 anni,
anche se tutti quelli che hanno vissuto il sacrificio del Grappa, come pure i
figli e i nipoti di quella generazione, sono ormai morti, c’è ancora il culto
del Grappa, il mito del Grappa, nel Veneto?
Sì, c’è, e questo è un poco ambiguo. Da un lato è giusto che i luoghi della memoria vengano condivisi, sono felice di accompagnare le scolaresche e di vedere che i ragazzi si interessano. C’è un rovescio della medaglia: questo culto mi pare ancora si irrigidisca su posizioni che sanno di criptofascismo, culto degli eroi, culto di morte per la patria. Sono questioni problematiche per l’Italia repubblicana e democratica. Nella seconda parte del libro intendo anche stimolare una riflessione su di questo. Bisogna sottolineare che non sono valori in cui come italiani ed europei ci riconosciamo.
E quelli che salgono oggi sul Grappa,
sono per lo più vacanzieri irrispettosi, del tipo che faceva infuriare il Moro,
oppure ci sono molte persone consapevoli della Storia che si è combattuta
lassù?
Mi piace credere che la gran parte delle
persone che salgono faccia parte di un turismo responsabile, sia nei confronti
della sacralità della memoria sia nei confronti di uno spazio da preservare- il
monte Grappa è patrimonio dell’Unesco. Poi, come sempre, nei fine settimana,
grazie anche ad un grande parcheggio sulla cima, arriva di tutto. È vero che il
turismo porta soldi, ma a tutto c’è un limite. Naturalmente ci sono litigi tra
chi pensa che la montagna vada rispettata e chi la vuole più turistica.
Perché rivolgi il tuo interesse alla
prima guerra mondiale? Forse perché appartieni ad una terra che ha sofferto per
quella guerra più che per il secondo conflitto?
Me lo sono domandato anche io. Ho iniziato
a scrivere sul Grappa, a studiare la Grande Guerra, a leggere e documentarmi- e
allora, quando sei ferrato in quell’argomento, cerchi altre storie su
quell’argomento. Con “Il Moro” intendo chiudere la trilogia sulla Grande
Guerra, non vorrei insistere per non perdere l’originalità.
C’è un’altra ragione. Questo è stato un conflitto affascinante in senso negativo, per un livello di violenza inaudita, di disinteresse per la vita umana. La prima guerra è un tutt’uno con la seconda, è stata la fine della civiltà europea, la fine della pace. Infine la seconda guerra mi fa paura, è complessa, tocca nervi ancora scoperti, bisogna trattarla con rispetto e originalità senza essere banale o retorico. Non mi sento ancora pronto ad affrontarla. La prima guerra è sufficientemente lontana per parlarne in maniera più serena.
Volevo
proprio chiederti da ultimo se hai altre storie da raccontarci, che affondano
nella prima guerra mondiale, ma mi hai già risposto. A me però piacerebbe, non
mi stancherei di leggerle.
Lo prendo come un invito, allora…
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