Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
distopia
William Melvin Kelley, “Un altro tamburo”
Ed. NN, trad. M. Testa, pagg. 246,
Euro 19,00
1957. Uno stato immaginario del sud degli Stati Uniti, potrebbe essere
uno qualunque di quelli che una volta erano gli Stati Confederati che nel 1861
dichiararono la loro secessione dagli Stati Uniti d’America, quelli la cui
economia e la cui ricchezza era basata sulle piantagioni e sul lavoro degli
schiavi neri. È nel giugno del 1957 che, senza nessun preavviso, Tucker Caliban
cosparge la sua terra di sale (l’aveva acquistata dal padrone anni prima),
uccide il bestiame, dà fuoco alla fattoria e se ne va con la moglie incinta e
un bambino piccolo.
Caliban: nella “Tempesta” di Shakespeare Caliban è figlio
di una strega, metà umano e metà mostro, ridotto in schiavitù da Prospero,
quando questi arriva sull’isola con la figlia Miranda. E Prospero giustifica la
sua durezza nei confronti di Caliban accusandolo di aver cercato di violentare
Miranda. Caliban non smentisce, anzi, dice sfrontatamente che, se non glielo
avessero impedito, avrebbe popolato l’isola di piccoli Caliban. Il significato
di questo nome per i neri che hanno sempre servito la famiglia del generale
Willson è chiaro e si amplia ad inglobare tutti i neri, come sono visti dai
bianchi e quali paure scatenino nei bianchi. C’è già tutto nel nome Caliban.
Tucker Caliban è il primo ad andarsene. Dopo di lui uno sgocciolamento,
un fiume di persone di colore lascia Sutton. Per andare dove? Al Nord,
presumibilmente. Perché? E qui si scatenano le supposizioni dei bianchi che
osservano l’esodo, che parlano del sangue ereditato dall’Africano, il nero gigantesco
acquistato per mille dollari dal capostipite dei Willson e in grado di spezzare
le catene con le mani, che, pur perplessi, si rallegrano per essersi finalmente
sbarazzati dei neri. Senza pensare, però, a chi li sostituirà nei lavori che
sono sempre stati i neri a fare.
Gli attori di questo straordinario e tuttora attualissimo romanzo
distopico (pubblicato nel 1962) sono i neri, ma il punto di vista è quello dei
bianchi che osservano la scena- in ogni capitolo un punto di vista diverso.
Si
incomincia con quello di un bambino e verrebbe da pensare che sia una scelta
appropriata, gli occhi di un bambino sono innocenti. E lo sono, ma è perché i
genitori del piccolo Harry Leland sono speciali, suo padre gli dice, “Io e tua
madre cerchiamo di fare di te un essere umano decente”. Harry era amico di
Tucker Caliban, ha le lacrime agli occhi quando lo vede andare via, vorrebbe
seguirlo. È a lui che si rivolge per spiegazioni il reverendo Bradshaw quando
arriva a Sutton per capire che cosa sia successo. E il nostro pensiero corre
alla piccola Scout e a suo zio ne “Il buio oltre la siepe”, pubblicato due anni
prima. Ci sono gli altri, poi- c’è Dewey Willson, accusato di essere ‘amico dei
negri’, come a suo tempo suo padre che aveva condiviso la stanza all’università
con il nero colto e brillante che sarebbe diventato il reverendo Bradshaw, c’è
Camille Willson che prova simpatia per la moglie di Tucker Caliban e però si
sente superiore a lei, c’è chi è decisamente xenofobo.
Il finale del romanzo di William Melvin Kelley è di una tragicità
prevedibile. Quando, nell’ultimo punto di vista corale degli uomini bianchi riuniti sulla veranda, sentiamo le
parole, “Lo sapete che questo è il nostro ultimo negro? Pensateci un attimo. Il
nostro ultimo negro, per sempre”, avvertiamo la minaccia insita in questa
domanda, ci scorre un brivido lungo la schiena, negli occhi della mente vediamo
immagini di uomini incappucciati e corpi penzolanti.
I nomi di James Baldwin e di Faulkner sono stati avvicinati a quello di
William Melvin Kelley. Direi quello di Baldwin per il messaggio contenuto nel
suo romanzo e quello di Faulkner per l’atmosfera da profondo sud. Ma “Un altro
tamburo” non ha bisogno di paragoni per imporsi. È un romanzo con una voce
potente che non possiamo non sentire, che dobbiamo ascoltare perché non parla
solo di bianchi e di neri. Parla di sfruttatori e di sfruttati, di padroni e di
schiavi. E gli schiavi non hanno colore, non hanno sesso.
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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net
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