Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
Dragan Velikić, “Bonavia”
Ed. Keller, trad.
Estera Miocić, pagg. 352, Euro 15,30
“Una vita in transito”- è il titolo che
suggerisce una delle protagoniste del romanzo, Marija, a Marko, lo scrittore
frustrato che è diventato il suo amante dopo che si erano conosciuti
fuggevolmente facendo la coda per ottenere il visto davanti all’ambasciata
ungherese a Belgrado. Sono tutte vite in
transito, quelle dei personaggi di “Bonavia” dello scrittore serbo Dragan Velikić, vite in attesa di un visto, passate
sui treni, dormendo in alberghi (come lo storico Hotel Bonavia di Fiume, oggi
Rijeka), domandandosi se partire o restare. Partire e lasciarsi alle spalle
Belgrado con la sua povertà, la sua limitatezza, la sua storia di guerra, il
suo passato ancorato ad una grande Jugoslavia che non esiste più, la sua
incertezza di dove collocarsi in Europa. Restare, vegetare, sonnecchiare in
quella che una volta era una grande capitale e ora non più.
Partire per dove? Vienna, prima di tutto,
la cui memoria è ancorata per sempre all’impero austroungarico. A Vienna vive
Milijan, padre di Marko: dopo aver lavorato per anni come ferroviere, Miljan
aveva aperto un ristorante jugoslavo a Vienna e dopo, quando era subentrata la
moda della cucina cinese, Miljan aveva seguito l’onda dei nuovi tempi e ne
aveva inaugurato altri due. Donnaiolo impenitente, vitale, Miljian non si
arrende neppure in ospedale, dopo un infarto. A Vienna abita, con la madre, il
figlio di Marko ed è a Vienna che, per qualche giorno, sono presenti- e le loro
vite si incrociano a loro insaputa- tutti e quattro i protagonisti di
“Bonavia”: Marko che è venuto per festeggiare il compleanno del figlio, Milijan
(che non è andato a prendere Marko in stazione, come d’accordo, a causa dell’infarto),
Marija che raggiunge Marko (in realtà aveva pensato di lasciarlo) e Katarina
che è a Vienna per un convegno. Katarina è l’unica che ha fatto il grande
salto, si è trasferita in America troncando qualunque legame con il passato e
con Belgrado, smettendo di scrivere perfino all’amica Marija (Katarina ha visto
Milijan stramazzare a terra nel parco, senza sapere chi fosse, e, scambiandolo
per un inserviente, ha consegnato la sua valigia a Marko che alloggia nel suo
stesso albergo).
E intanto, tra un treno e l’altro, tra
una stanza d’albergo e l’altra, dai ricordi e dalle conversazioni, dai flash-back
e dalle osservazioni del presente, siamo venuti a sapere della storia dei
personaggi e delle loro famiglie e ci colpisce la similarità del destino di
Miljan, Marko e il figlio di questi- tutti cresciuti con un padre assente, un
padre ‘in transito’, figli del caso, quasi sia un’eredità genetica. E quando,
dalla storia di famiglia si passa a quella abbozzata degli stati, osserviamo
quanto sia tuttora importante e influente la figura del ‘grande padre’, sia
egli l’Imperatore Francesco Giuseppe che lasciò l’impronta di un carattere che
si può definire austriaco, oppure Tito a cui va riconosciuto il pur dibattuto
merito di avere unito le varie etnie.
C’è un quinto personaggio che fa la sua
comparsa alla fine, ed è lo scrittore stesso, con una storia personale che
assomiglia molto a quella dei suoi personaggi. Anche lui un figlio del caso,
anche lui in transito, anche lui con un albergo che è una pietra miliare nella
storia di famiglia: l’Hotel Bonavia, per l’appunto, così diverso ora da quando
vi soggiornò suo padre.
I confini tra gli stati sono quasi
scomparsi da anni, ormai. Se ne traccia la linea sottile sugli atlanti
geografici. Ma ci sono ancora- per fortuna- dei confini invisibili fatti di
parole, di pagine, di libri, di letteratura. Leggere un romanzo di uno
scrittore dell’Europa dell’Est o dei paesi balcanici o della nuova Russia non è
la stessa cosa che leggere un romanzo di uno scrittore dell’Europa occidentale.
C’è più originalità, più diversità, al di là del confine delle parole. C’è più
‘densità’, ci sono più spunti di riflessione- e non sulle solite banalità.
Occorre forse più impegno nella lettura, ma c’è una ricompensa.
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