vento del Nord
copywright Tine Poppe |
Sono giornate intense, queste del Festival dei Boreali a Milano,
organizzato dalla casa editrice Iperborea. Giornate ricche di incontri che
offrono spunti per riflessioni e idee nuove, possibilità di parlare con gli
autori dei loro libri perché- che cosa c’è di meglio di continuare a parlare di
libri che ci sono piaciuti, che abbiamo amato, con chi li conosce più di ogni
altro? Ero ansiosa di conoscere Erika Fatland, di conoscerla di persona (sembra
un elfo, ho pensato, quando l’ho vista) dopo essere stata in sua compagnia ed
aver sentito la sua voce per tutte le 524 pagine di quel libro affascinante che
è “Sovietistan”.
Quando è iniziato il suo interesse per le repubbliche che una volta
facevano parte dell’Unione Sovietica?
E’ iniziato con il mio desiderio di studiare il russo perché volevo
leggere in lingua originale i grandi scrittori russi. E poi mi piaceva studiare
una lingua slava. Avevo frequentato il liceo in parte in Francia e in parte in
Finlandia, e così sono andata in Russia, essenzialmente perché volevo imparare
la lingua. Avevo anche studiato antropologia sociale a Copenhagen e avevo
l’opportunità di fare ricerche sul campo, in attesa di diventare una
scrittrice- che era quello che volevo essere. Ma avevo 19 anni e prima dovevo
studiare.
Nel 2004 c’era stata la strage dei
bambini a Beslan, in Ossezia, ad opera di terroristi ceceni. Io andai a Beslan
tre anni dopo la tragedia in cui furono uccisi 200 bambini: volevo scoprire
come si fa a vivere dopo un simile dramma. E ho scritto la mia prima opera, “Il
villaggio degli angeli”, che è il nome del cimitero. Da lì è nato il mio
interesse per gli altri paesi che prima facevano parte dell’Unione Sovietica-
popoli diversi che vivevano insieme un esperimento sociale. Anche il
Turkmenistan, l’Uzbekistan e gli altri ‘stan’ facevano parte dell’Unione
Sovietica: come ne sono stati influenzati? Non sentiamo mai parlare di questi
paesi. Ero curiosa. Non c’era nessun libro su questi stati.
Se dovesse dire una sola parola per parlare di quello che più l’ha
colpita di ognuno dei cinque stati, quale sceglierebbe? Andiamo per ordine:
Turkmenistan: bizzarro.
Kazakhistan: vasto.
Tagikistan: montagne.
Kirghizistan: donne.
Uzbekistan: via della seta.
E adesso può spiegarci di più, del perché ha scelto queste parole?
Bizzarro il Turkmenistan perché è il paese più strano. E’ rimasto
isolato dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il suo presidente è come
impazzito: nessuno lo controllava più da Mosca. Ha trasformato il paese nella
sua immagine, il suo ego diventò ossessivo. La capitale Ashgabat è la Las Vegas
del deserto. In un certo senso è divertente e affascinante: ci sono strade
molto ampie e però non ci sono automobili. Non si trova un bancomat che
funzioni, bisogna partire con il denaro con sé. Il secondo presidente è
eccentrico quanto il primo: seguono entrambi la corrente del culto della
personalità. Bisogna uscire dalla capitale per incontrare la gente che è molto
amichevole ed ospitale.
Il Kazakhistan è grande, è il nono paese più vasto del mondo. E però è
abitato da meno di 20 milioni di persone. In Kazakhistan ho viaggiato in treno:
un’esperienza terribile.
Nel Tagikistan il 90% del territorio è formato da montagne. E’ un paese
molto bello ma molto povero, il più povero dei cinque.
Nel Kirghizistan vige l’usanza del ratto delle spose (le dico che avevo preparato una domanda su
questa tradizione che mi ha sconvolto). Dicono che è la loro tradizione, ma
non è tradizione come viene fatto oggi. Una volta era diverso, la ragazza
veniva rapita per superare ostacoli al matrimonio. Oggi le ragazze sono forzate
ad accettare il matrimonio- è diverso. E pensare che 800 anni fa Gengis Khan
aveva proibito il ratto delle spose- sua madre era stata una vittima di questa
usanza. E’ difficile che si verifichi un cambiamento: la polizia, gli avvocati, gli imam, tutti sono cresciuti con questa tradizione, è la norma. Affiora
qualche tentativo di cambiamento, ma è difficile, ci vorrà tantissimo tempo.
Nel libro racconto della ragazza russa con cui ho parlato- aveva rifiutato il
matrimonio, ma per lei non era una vergogna rifiutarsi di sposare l’uomo che
l’aveva rapita.
In Uzbekistan gli antichi edifici sono testimoni del passato, di quando
l’Uzbekistan era attraversato dalla via della seta che andava dalla Cina
all’Italia. I popoli degli altri stati erano gente nomade, qui invece la storia
diventa viva, testimone del passato, nelle splendide madrasse di Bukhara e di
Samarcanda.
Pensa che quella che si può definire come una specie di sindrome della
dittatura che accomuna i cinque ‘stan’ sia una diretta conseguenza del loro
passato?
E’ difficile dire perché questi stati non si siano trasformati in
democrazie come è successo in Georgia o nei paesi Baltici. Non avevano un
passato democratico, non erano mai stati paesi democratici. Accadde che la
struttura politica dell’Unione Sovietica rimase uguale. Nel Kazakhistan c’è
ancora, come presidente, Nazarbayev che fu installato come leader del partito comunista da Gorbachev.
Lei sottolinea, nel suo libro, la nostalgia comune in questi stati per un
passato che a loro sembra fosse migliore del presente. Ma non hanno ragione,
dopo tutto? Che cosa hanno guadagnato con l’indipendenza?
Quando ho chiesto una spiegazione per questa nostalgia, mi hanno
risposto che allora la gente era più uguale. Adesso ci sono persone
incredibilmente ricche ma la maggior
parte lotta per sopravvivere. Una volta la differenza non era così visibile. In
Tagikistan, ad esempio, si stava veramente meglio, avevano uno stato sociale.
Dopo c’è stata una guerra civile negli anni ‘90 e oggi non hanno neppure
l’elettricità per 24 ore di seguito. Stavano meglio in passato.
Bisogna anche dire che ormai l’Unione
Sovietica era molto tempo fa e i giovani non ne hanno memoria. La maggior parte
delle persone che ne parla ha nostalgia della propria giovinezza.
Mi ha colpito la loro mancanza di
indignazione per tutte le tragedie del loro passato- la carestia, le
deportazioni di massa, gli esperimenti nucleari con il conseguente aumento dei
casi di cancro, la scomparsa del lago Aral. E’ per ignoranza? Fatalismo? La
non-abitudine a pensare in maniera critica?
Domanda complessa. Durante il regime
autoritario dell’Unione Sovietica l’autorità non voleva che la gente pensasse,
che pensasse autonomamente. C’è anche mancanza di informazione. Non sanno
l’inglese, non ricevono notizie del mondo e quelle che ricevono dall’interno o
dalla Russia non sono obiettive.
Mi ha reso felice che persone dell’Uzbekistan
che avevano letto il mio libro tradotto in russo mi abbiano ringraziato per
essere finalmente venuti a conoscenza di tante cose. I più giovani sono nati in
questi nuovi stati e trovano tutto naturale, i più vecchi sono più critici
perché ricordano il passato.
Dove ci porterà con il suo prossimo libro?
Il prossimo libro, che sarà
pubblicato in Italia fra qualche mese, si intitola “La frontiera” ed è un
viaggio in giro per la Russia attraverso la Corea del Nord, la Cina, la
Mongolia, il Kazakhistan, l’Azerbaijan, la Georgia, l’Ucraina, la Bielorussia,
la Polonia, la Lituania, la Lettonia e l’Estonia. E infine la Finlandia e la
Norvegia.
Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook
intervista e recensione saranno pubblicate su www.stradanove.it
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