Casa Nostra. Qui Italia
seconda guerra mondiale
la Storia nel romanzo
Pietro Spirito, “Un corpo sul fondo”
Ed. Guanda, pagg. 236, Euro 14,00
Il 30 gennaio 1942 il
sommergibile Medusa venne affondato
al largo della costa istriana. Dopo tre giorni di tentativi si abbandonò ogni
sforzo di salvare i 14 uomini imprigionati nella camera di lancio di poppa.
Sessanta anni dopo un giornalista, incuriosito e spinto da un vecchio reduce
che si sente colpevole, svolge delle ricerche per capire quale sia stata la
sorte finale del Medusa e se veramente
tutto il possibile era stato fatto per far uscire gli uomini dagli abissi.
INTERVISTA A PIETRO SPIRITO, autore di “Un corpo sul fondo”
Terret hostem Medusa, era
il motto del sommergibile che si chiamava, per l’appunto, Medusa, come la fanciulla amata da Poseidone che trasformava in pietra
chiunque la fissasse negli occhi. Non era bastato il nome scaramantico,
tuttavia, per evitarne la sorte, colpito dal quarto siluro lanciato dal
sommergibile inglese Thorn, un nome
che significa “spina”, ironicamente perfetto per adempiere un destino. Il Medusa stava tornando alla base di Pola
dopo un’esercitazione, fu affondato al largo di Capo Promontore lungo la costa
istriana, erano circa le 14 del 30 gennaio 1942, un giorno freddo di sole e di
bora che soffiava da nord-est- c’erano 60 uomini a bordo, morirono tutti.
Uno spunto giornalistico, quello che dà
inizio al romanzo di Pietro Spirito: nell’agosto del 2000, quando l’attenzione è
puntata sul sottomarino Kursk che
giace a cento metri di profondità sul fondo del mare di Barents e ci si domanda
se si riuscirà, se si farà a tempo a salvare gli uomini intrappolati dentro, la
telefonata di una persona anziana in redazione comunica di avere rivelazioni da
fare. Di avere riscontrato somiglianze nel ritardo dei soccorsi al Kursk, nel mancato accordo
organizzativo, con quanto è successo al Medusa
durante la guerra. Partono da qui le ricerche del giornalista narratore,
dapprima scettico, poi incuriosito, poi intestardito sul risolvere gli
interrogativi e i dubbi posti dal vecchio: era stato fatto veramente tutto il
possibile in quel gennaio del 1942? O si era solo tentato di salvare gli uomini
perché c’erano interessi maggiori della vita di 60 persone? Ed era veramente
stato ricuperato l’intero
sommergibile un anno dopo? Perché era passata inosservata la sepoltura delle
salme? E, soprattutto, c’era ancora qualcuno in fondo al mare?
E’ un romanzo appassionante “Un corpo sul
fondo”. Evitiamo parole abusate come ‘suspense’ o paragoni con romanzi di
indagine poliziesca o con i thriller, perché il libro di Pietro Spirito è, sì,
un’indagine, giornalistica, storica, ma è anche molto di più. E’ un tassello
del passato, un richiamo della memoria, voci e volti restituiti a persone
scomparse che non hanno neppure ricevuto gli onori di un’adeguata sepoltura. E
nello stesso tempo, mentre il giornalista ricostruisce le ultime ore di agonia
del Medusa e dalle sue ricerche
affiora il relitto di un precedente sottomarino con lo stesso nome, un Medusa affondato durante la prima guerra
mondiale, il presente non scompare mai dalle sue pagine. C’è la figura del
vecchio Domenico che ha l’idea fissa di essere sorvegliato dai servizi segreti,
tormentato dal rimorso di essere responsabile dell’affondamento del Medusa (non ne aveva forse parlato con
una ragazza in una notte d’amore? E non l’aveva poi- anni dopo- vista
impiccata? Era una spia?), quella dell’amico morto nel sottomarino e di cui il
narratore rintraccia la famiglia (il destino- aveva inghiottito dei bottoni
sperando di evitare la partenza), l’anziano scienziato che affida al
giornalista il vecchio diario sulla sua esperienza sotto il mare, le immersioni
dello stesso protagonista (quanto diversa l’attrezzatura moderna da quella dei
palombari di una volta!) e la sua disavventura con le meduse (quelle ‘vere’, il
cui nome è Rhizostoma pulmo) che
sembrano avercela con lui.
E sotto, sotto le parole e le tonnellate di
acqua, due pensieri, o forse due domande: non siamo tutti dei naufraghi della
vita? E non è meglio quella tomba in fondo al mare che nella terra di uno squallido
cimitero? Stilos ha intervistato Pietro Spirito, giornalista de “Il Piccolo” a
Trieste, già finalista al Premio Strega 2003 con il romanzo “Speravamo di più”.
Un romanzo, una storia vera, un pezzo di Storia su un sottomarino
affondato: perché il sottomarino, nella letteratura e nella realtà, ha sempre
esercitato un grande fascino?
Credo che sia perché
il sottomarino è pieno di simboli, di significati, è uno degli oggetti umani
più carichi di simboli e con più metafore dell’andare a fondo, dello scendere, scendere
nell’abisso dell’animo, lo stare chiusi e quindi anche tutto ciò che riguarda
la comunicabilità, l’avventura, il rischio, il pericolo, il rimanere
intrappolati, la speranza.
Jules Verne aveva capito subito tutta la carica
potenziale metaforica sotto la macchina quando, all’epoca in cui si costruivano
i primi sommergibili, scrisse “Ventimila leghe sotto i mari”. Il sottomarino è
una macchina molto letteraria e, a proposito, forse è bene ricordare la
distinzione tra sottomarini e sommergibili, perché nell’accezione comune li si
confonde e sono la stessa cosa: il sommergibile è una nave semi-sommergibile,
un battello che naviga per lo più in superficie e può andare sott’acqua; il
sottomarino naviga prevalentemente sott’acqua. E poi, nella mia scelta
dell’argomento, ci sono stati anche dei motivi personali: amo molto il mare e
mi piace andare sott’acqua.
Ci incuriosisce sapere, prima di tutto, se lo spunto narrativo del
romanzo e le origini della ricerca siano vere: esiste veramente un Domenico C.
che non vuole essere nominato?
Sì, esiste e l’origine del romanzo è
proprio quella che si trova nel libro, con la telefonata nei giorni del Kursk.
Il personaggio narrante, il giornalista che fa le indagini sul Medusa, sembra essere Lei: perché ha
scelto di entrare in prima persona nel romanzo?
E’ la prima volta che uso l’io narrante in
prima persona, era un po’ un esperimento e mi metto in gioco in tutti e due i
sensi: come scrittore e come io narrante. E’ stata una scelta obbligata, quella
di scrivere in prima persona, perché la narrazione segue un filo autobiografico
ed è la storia di una ricerca che ho svolto. E quindi l’io narrante era una
scelta inevitabile; poi c’è il solito gioco di specchi: il giornalista che
parla non sono io, e però sono io. Dovendo raccontare la storia della ricerca
che si è svolta così come è nel libro, compresa l’indagine sott’acqua, non
potevo fare diversamente. Mi è stato molto difficile parlare di me senza
parlare di me- cosa d’altra parte che non volevo fare, perché i fatti miei non
interessano a nessuno.
All’inizio il giornalista/Lei sembra essere quasi seccato dal vecchio
rompiscatole: a che punto è scattato dentro di lei qualcosa di diverso? A che
punto l’ha appassionata la vicenda del Medusa?
Per rispondere devo dire qualcosa sul
perché ho scritto il libro: per denunciare gli abusi di memoria. Da anni mi
occupo di ricerche di questo tipo, come giornalista e come storiografo. Vivo in
una città, Trieste, in cui il peso della memoria è eccessivo. Sono abituato a
cercare, a fare immersioni nella Storia. L’interesse per quello che mi diceva
Domenico C. è scattato subito, ho capito immediatamente che entravo nei labirinti
del passato dove c’è il rischio di perdersi, soprattutto in questa vicenda
labirintica. Il romanzo si è costruito mentre lo scrivevo, lo specchio riflette
un’esigenza reale, quella di capire quanto è successo.
Uno degli aspetti “magici” del romanzo è il gioco delle coincidenze: la
scoperta che sono stati due i Medusa
affondati, le meduse marine che La attaccano, il ritrovare dei testimoni per
caso, i sogni premonitori. E’ stata una scelta consapevole, come scrittore,
inserire questo elemento “magico” nella narrativa?
E’ stata una scelta consapevole, voluta ma
anche inevitabile perché le cose sono avvenute così. Quando si va a caccia di
storie, si entra in territori dove queste cose accadono. Lo scrittore è come un
radar, scrivere significa mettersi in ascolto, quindi captare segnali del
mondo. Quando racconti una storia, sia vera o sia inventata, fai questo: ti
metti lì e stai lì in attesa e aspetti che il mondo si riveli. E’ ovvio che in
queste situazioni saltano fuori i fantasmi: l’attacco delle meduse,
l’apparizione del sottomarino fantasma durante la tempesta- sono cose che sono
veramente successe. Come succede che stai lavorando ad un personaggio, cammini
per strada e capita che lo vedi. Le coincidenze fanno parte della nostra vita.
Siamo in un tutto che è collegato a tutto. Nel momento in cui entri in una
storia azioni dei meccanismi. Qui, poi, la storia era bella e pronta, con anche
un altro Medusa, affondato in un’altra
guerra a poche miglia di distanza, di fronte a Venezia mentre questo era
sprofondato al largo di Pola.
Per quello che riguarda le ricerche negli archivi: non mi è parso che
la documentazione fosse sempre limpida. Rimangono dei dubbi sulla tempestività
dei soccorsi, sul fatto che tutto sia stato tentato per salvare gli uomini nel
sottomarino?
I dubbi rimangono. Ci sono dei testimoni
ancora vivi, Brunetto Montagnani che vive in Toscana e che non si trovava sul Medusa perché in licenza: lui è convinto
che ci fu la volontà di lasciarli là sotto, quei ragazzi. In realtà, con i
documenti alla mano ho consultato degli esperti e l’opinione che prevale è che,
in quelle condizioni di mare, quei ragazzi erano spacciati, non si poteva fare
niente di più per salvarli. Forse ci sarebbero state maggiori possibilità con
un tempo splendido e mare calmo. Vorrei sottolineare che la ricostruzione
storiografica di quanto è avvenuto è rigorosissima. Ho sottoposto il testo ad
esperti, ingegneri navali, storici, ho fatto una serie di controlli incrociati,
lavorando da giornalista. Per quanto il libro sia un romanzo e la cornice sia
di finzione, volevo che il nucleo centrale della ricostruzione fosse
assolutamente rigoroso.
Nella ricerca di prove Lei descrive la sua immersione sul luogo in cui
era stato segnalata la presenza di un relitto che poteva essere uno spezzone
del Medusa: che cosa ha provato nel
vedere la carcassa dell’U-boot?
Sono
un appassionato subacqueo e sono un visitatore di relitti affondati, non era il
primo che vedevo. Il relitto ha un fascino un po’ infantile, è come un pezzo di
Storia da riscoprire, ogni immersione su un relitto è emozionante e coinvolgente,
come sanno tutti quelli che frequentano relitti. Quello dell’U-boot è uno dei
relitti più frequentati. Ormai anche questo è diventato un tipo di turismo, non
di massa ma molto praticato. L’U-boot è un grosso tubo di metallo squarciato
che non suscita particolari sensazioni. E’ un argomento difficile da capire per
chi non è mai stato su un relitto. Nell’immaginario collettivo il relitto lo
trovi nei film di genere, nei cartoni animati…Ha un elemento fantasmagorico, ed
è qualcosa di fantasmagorico, però ha una sua realtà cogente. Suscita
un’emozione particolare, quella del ritrovare un pezzo di Storia precluso ai
più, che sopravanza l’aspetto più cupo, più trucido, anche orrorifico del fatto
di scendere a visitare un relitto.
Oltre al vecchio Domenico, ci sono altri due personaggi di rilievo: il
matematico Rosich e il croato Marcko. Qual è il loro ruolo nella storia del
sottomarino?
Rosich ha il ruolo di appoggio alla
metafora, è lo scienziato che parla della sua avventura nel sommergibile come
scoperta: il sommergibile come veicolo di scoperta di territori che possono
diventare pericolosi. Ed è anche una metafora della letteratura: andare in dimensioni
diverse e sconosciute che possono essere pericolose. L’ansia di conoscenza ha
un prezzo. Rosich è uno scienziato che, grazie a una formula matematica, ha
scoperto che esistono altri mondi e vuole vederli, questi mondi, ci va e vive
esperienze terribili al limite della sopravvivenza. Marcko è invece il
collegamento tra la guerra passata e le nostre guerre di oggi. Questo è anche
un romanzo sulla guerra. C’è una scena in cui il giornalista e Marcko si danno
la mano ed è come se scoccasse una scintilla tra due momenti della Storia, tra
due guerre: è per far capire che c’è un filo che unisce queste cose, le guerre
sono eruzioni della Storia. Marcko ha questo ruolo di collegamento e non è un
caso che sia lui che guarda i registri cimiteriali, è lui che colleziona la
terra di dove sono state le battaglie: è lui che ricuce una geografia
dell’orrore e lo può fare perché è un reduce come Domenico C.
C’è una preoccupazione costante nel vecchio Domenico, l’ansia che il
suo amico Cosmina non sia in una tomba. Eppure, proseguendo nella lettura, ci
colpisce la sensazione di quanto questa ansia sia inutile: la fine del Medusa è emblematica del nulla dopo la
morte?
Sì, dell’idea del nulla
dopo la morte, del grande vuoto su cui siamo seduti. E poi c’è anche la
convinzione dell’uomo contemporaneo che si trova a vivere tra le macerie e non
sa se c’è qualcosa di diverso da queste. Questo voleva anche essere un racconto
su una certa condizione di smarrimento- ho preso in prestito una frase da Marco
Lodoli, sulla nostra “epoca dislessica dove passato e presente si scontrano”, a
volte crediamo di essere nel Medio Evo e a volte ci sembra di essere nel
futuro, a volte ci sfugge il presente: è l’idea dell’uomo perso, come quando il
protagonista, durante l’immersione, si perde nell’acqua in profondità senza
punti di riferimento, sotto c’è il vuoto, sopra il vuoto. E’ in parte la
condizione dell’uomo contemporaneo.
Anche il romanzo precedente “Speravamo di più” era una storia che
andava indietro alla seconda guerra mondiale: c’è qualcosa che la attrae
particolarmente verso quel periodo?
E quale è stata la fonte di “Speravamo di più”, con la storia del
giapponese rimasto in Italia alla fine della guerra che sembra quasi una
notizia da giornale?
Fra le mie passioni ci
sono anche le arti marziali, un’attività molto collegata con il Giappone,
capita spesso che vengano dei maestri giapponesi in visita. E capita allora che
ci si racconti delle storie. Una di queste parlava dell’amicizia tra un maestro
giapponese in Italia e un ragazzo problematico che riuscì a superare, in parte,
i suoi problemi con la disciplina delle arti marziali. Poi il maestro tornò in
Giappone, il ragazzo sprofondò di nuovo nei suoi problemi, si gettò sotto un
treno. E la storia proseguiva dicendo che il maestro si svegliò di colpo, in
Giappone, usciva del fumo da un cassetto: era la foto del ragazzo che bruciava.
La storia mi era piaciuta, volevo creare un romanzo partendo da un’idea, dal
confronto con un’altra cultura, con chi è altro da noi. E mi sono chiesto che
cosa sarebbe successo se un maestro giapponese di arti marziali fosse arrivato
in Italia in un’epoca, dopo la guerra, in cui lui era praticamente un alieno…
Un’ultima domanda: come si connette la sua attività di giornalista con
il suo scrivere romanzi?
Il giornalismo e la
letteratura sono due universi separati e distanti che talvolta possono avere
aree di contiguità, talvolta la letteratura può essere funzionale al
giornalismo e viceversa. Ma sono due modi diversi di osservare il mondo: uno
informa sul mondo, l’altro rappresenta il mondo.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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