Casa Nostra. Qui Italia
prima guerra mondiale
FRESCO DI LETTURA
Paolo Malaguti,
“Prima dell’alba”
Ed. Neri Pozza, pagg. 297, Euro 17,00
Le iniziali di un nome, la data e la causa
della morte, per lo più per fucilazione. Si susseguono, queste iniziali e
queste morti, tutte di soldati, tutte nel 1917 o nel 1918, sul finire di quella
che doveva essere chiamata ‘la Grande Guerra’. Sono l’introduzione ad ogni
capitolo del bellissimo libro “Prima dell’alba” di Paolo Malaguti, fanno
risuscitare fantasmi di cent’anni fa, sono una sorta di condensata Spoon River
italiana, una litania a cui le donne in chiesa rispondevano, ad ogni
invocazione, Ora pro nobis. Qui forse
bisognerebbe dire Oremos pro vobis.
Il fatidico mese di ottobre del 1917 che
terminò con la disastrosa ritirata di Caporetto è il centro cruciale del
romanzo di Paolo Malaguti dedicato ad uno fra tanti di quei fantasmi,
all’artigliere Alessandro Ruffini che fu fucilato per ordine del generale
Andrea Graziani il 3 di novembre 1917 a Noventa Padovana perché, quando i
soldati sfiniti si erano messi frettolosamente in piedi sull’attenti al
passaggio inaspettato dell’automobile con a bordo il generale, non si era tolto
di bocca il rimasuglio di sigaro che stava fumando. La morte di Ruffini diventa
emblematica per tutte le vittime di questa guerra, per i morti falciati dalle
granate nemiche e per quelli uccisi per punizione, per aver ceduto allo
sconforto, per aver preso decisioni autonome difformi da ordini insensati, per
aver avuto una forma di coraggio che era stata scambiata per vigliaccheria.
Due filoni narrativi ci guidano dentro la
tragedia della guerra. Il Vecio è il protagonista del primo, il racconto è in
terza persona ma a noi sembra che sia lui a parlare, e insieme a lui sentiamo
le voci dei suoi commilitoni, voci che usano spesso parole del dialetto veneto
e una terminologia di truppa molto colorata (un glossario a fine libro ci
spiega i termini di cui abbiamo intuito il significato- i ‘caramella’, ‘gli
aquiloni’, i ‘diomama’), che raccontano i giorni della ritirata di Caporetto e quelli
passati in trincea, che parlano di fatalismo rassegnato, di strategie di
sopravvivenza, di ricordi ormai vaghi di una vita passata a cui sembra impossibile
poter tornare. Almeno, impossibile ritornare come se niente fosse successo,
come se si fosse uguali ad un tempo. Impossibile tornare ad una famiglia,
quando si sente che la famiglia più vicina è quella dei compagni che hanno
diviso le stesse esperienze. E il Vecio non è vecchio, affatto, ma si è
meritato il soprannome perché è riuscito a fare tutta la guerra. Suscita
addirittura dei sospetti: come ha fatto a eludere la morte?
Il secondo filone è una manciata di giorni
nel 1931 quando un corpo viene ritrovato lungo la massicciata del treno che da
Roma va a Bologna e poi a Verona. Il morto è il generale Andrea Graziani e
l’ispettore che si reca sul posto è Ottaviano Malossi, della Polizia di Stato
nella questura di Firenze. Ottaviano ha 32 anni, è stato uno dei ragazzi del ‘99,
quei ‘diomama’ poco più che bambini mandati a combattere nell’ultimo anno di
guerra, carne fresca per i cannoni. Con un nome come quello di Graziani,
Ottaviano capisce subito che ci sono grane in vista. E infatti. Come avvenne
nella realtà dei fatti, il caso viene chiuso rapidamente, anche se Ottaviano
non è affatto convinto che si sia trattato di un incidente.
Molto bello il finale, tristissimo ma di
una giustizia poetica. In poche pagine veniamo a sapere anche il finale della prima narrativa, con il Vecio
che si interroga sul significato di tutto quello che è stato, sul dovere
dell’obbedienza, e arriva ad una conclusione che è uguale a quella di Ottaviano
Malossi. E che ci deve far riflettere, perché- corsi e ricorsi della Storia- è
un interrogativo che si ripresenta di continuo, imponendoci delle scelte.
la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net
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