Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
autobiografia
il libro ritrovato
Hugo Hamilton, “Il marinaio nell’armadio”
Ed. Fazi, trad. Isabella Zani,
pagg. 229, Euro 16,00
Anni ‘60: l’America è impegnata
nella guerra del Vietnam, John Kennedy e Martin Luther King vengono assassinati,
nell’Ulster sono iniziati i “Problemi”. In casa di Hugo Hamilton continua lo
scontro di volontà tra il padre, rigido sostenitore della necessità di far
trionfare l’uso della lingua gaelica e severo educatore, e i figli. Tra di loro
la dolce mamma tedesca che non guarirà mai dalle ferite che la guerra le ha
lasciato nell’anima. Alla fine anche al padre sfuggiranno parole in inglese e
Hugo andrà a studiare a Berlino.
INTERVISTA A HUGO HAMILTON, autore de “Il marinaio nell’armadio”
E’ cresciuto il
bambino che raccontava che cosa volesse dire crescere in una famiglia irlandese-tedesca
ne “Il cane che abbaiava alle onde”. La voce è sempre la stessa, anche se ha
perso quel tono tenero e buffo di sorpresa innocenza e ha acquistato un
adolescenziale accento ribelle. Contro il padre che proibisce l’uso dell’inglese,
la lingua dei nemici che tuttavia è quella correntemente parlata ovunque, e li
rende doppiamente stranieri in patria, visto che l’altra lingua usata in casa è
quella della mamma tedesca. Come se questo non creasse già abbastanza problemi
di emarginazione- non si fa mai l’abitudine a sentirsi chiamare ‘nazista’ o
‘Hitler’ e adesso anche ‘Eichmann’ dopo il suo arresto in Argentina. E’ un
padre benintenzionato padrone, quello di Hugo Hamilton, che, insieme
all’inglese, vieta l’ascolto di altra musica che non sia quella classica,
obbliga i figli a studiare durante le vacanze e telefona per controllarli,
impone il coprifuoco e non tollera neppure un minuto di ritardo. Tra padre e
figli fa da schermo la madre dolcissima e piena di inventiva, è lei che li
salva dagli incubi spingendoli a disegnare i sogni (lei che ha ancora gli
incubi dei bombardamenti e delle macerie), che apre la porta al ritardatario,
che fa profumare di dolci, di una Gemütlichkeit
tutta tedesca, l’aria della casa.
Un romanzo senza trama, come è questo, è
costruito su una serie di episodi la cui importanza è tale per il ragazzo
stesso che li vive- quando contribuiscono al falò di Halloween con una porta e
Hugo colpisce un pompiere con una zolla,
E la diversità della famiglia, quel loro
essere maculati che è alla base del problema della ricerca di identità in
questo romanzo di formazione, è rappresentata da due libri, preziosi per motivi
diversi. Uno è un quadernetto del nonno paterno che vi aveva annotato la toponomastica
irlandese e l’altro è un libro antico, offerto in regalo alla mamma dalla
famiglia di Stefan che lei aveva aiutato dopo la guerra, quando la gente moriva
di fame in Germania. E il fatto che il libro venga restituito a Stefan è
un’altra delle supreme lezioni della mamma, perché la bontà è impagabile.
C’è
rabbia, c’è sconcerto, c’è ribellione, ma anche desiderio di capire, nel libro
di Hugo Hamilton. E la fine della lotta continua tra padre e figlio è segnata
dal riappropriarsi, da parte di Hugo, del cognome inglese del nonno, il marinaio
dagli occhi gentili la cui foto era stata relegata in fondo all’armadio, e dal
suo andare a studiare a Berlino, in cerca di sé. C’è del buono, tuttavia,
nell’essere ‘maculati’: tra i nuovi amici tedeschi c’è una ragazza che vorrebbe
anche lei appartenere ad un paese che non ha mai fatto del male a nessuno. Stilos
ha intervistato Hugo Hamilton che vive a Dublino, dove è nato nel 1953.
“Il marinaio nell’armadio”: un titolo che richiede una spiegazione. Il
marinaio nell’armadio è una parte di lei che deve essere liberata, oltre ad
essere la cosa più ovvia, e cioè la foto di suo nonno?
Sì, decisamente sì, e si capisce dalla
scena del libro precedente, del tempo in cui noi bambini ci chiudevamo dentro
l’armadio. E’ un’immagine che ritorna spesso: dobbiamo liberarci
dall’isolamento della lingua, dal mondo creato da mio padre, dalla storia in
cui ci ha intrappolato.
I suoi tre romanzi sembrano essere una sorta di trilogia: aveva in
mente una trilogia quando ha scritto il primo?
No, ogni libro è stato per me un’avventura
separata, un addentrarmi distinto nella scrittura. “L’ultimo sparo” è stato il
primo libro che ho scritto e non avevo idea che avrei scritto “Il cane che
abbaiava alle onde” e neppure che, dopo questo, avrei scritto “Il marinaio
nell’armadio”. Anche perché “Il cane che abbaiava alle onde” è stato un libro
difficile da scrivere, emozionalmente difficile. E’ stato duro per me
convincermi a raccontare la storia della mia famiglia, è stata una decisione
difficile da prendere per me come scrittore. Quando ho finito mi sono accorto
che c’era molto altro da dire, che quando racconti una storia di te stesso, la
fine non finisce quella storia ma, in un certo senso, è solo un’apertura.
Leggendo i suoi libri, percepiamo chiaramente la sua sensazione di
sentirsi uno straniero in patria. Che cosa è stato più doloroso per Lei, che cosa
l’ha fatta sentire più diverso dagli altri, il parlare in irlandese o essere
per metà tedesco?
Certamente essere per metà tedesco. Perché parte
della mia esperienza era essere connesso con un popolo che non solo era odiato
e di cui si parlava male ma che, nello stesso tempo, era estraniato da sé, era
diventato senza patria: i tedeschi non avevano modo di connettersi con l’essere
tedeschi. Non si trattava solo del fatto che, automaticamente, essere tedeschi
era associato con l’essere nazisti, quella era la realtà- era un fatto che i
tedeschi fossero nazisti. E io mi sentivo a disagio, mi nascondevo, come
d’altra parte facevano tanti tedeschi. Era difficile essere tedeschi. Inoltre
gli irlandesi osservavano tutto quello che era diverso e si facevano beffa di
tutto quello che era diverso.
Se aveste abitato nell’ovest dell’Irlanda, invece che a Dublino, si
sarebbe sentito meno estraneo, visto che era comune che si parlasse irlandese
in quell’area?
Forse sì, anzi certamente
sì, sarebbe stato molto più facile. Inoltre nel Connemara, quando andavamo,
tutti avevano grande simpatia per mia madre, proprio perché era tedesca. Così
come avevano simpatia per qualunque straniero che venisse nel Connemara, perché
li toglieva dal loro isolamento.
Ha sempre scritto i suoi libri in inglese? Perché, dopo tutto, la sua
prima lingua non era l’inglese…
E’ strano ma è così. Ho provato a scrivere
in gaelico e in tedesco ma non ci sono riuscito. Questo conferma quello che
diceva mio padre, “la lingua è la mia patria”. Non mi sono mai sentito “a casa,
in patria” né con il gaelico né con il tedesco. Ho sempre sentito il bisogno di
connettermi con la gente fuori di casa mia, con il mondo che parlava inglese.
Volevo vivere nello stesso paese di John Lennon.
Quando ha iniziato a scrivere? La scrittura ha avuto per Lei lo stesso
valore esorcizzante che aveva il disegnare gli incubi come sua madre la
spingeva a fare?
Sì, naturalmente. Scrivere è stato la
continuazione di quello che mia madre ci faceva fare da bambini, quando ci
faceva disegnare gli incubi. Ho iniziato a scrivere molto presto, sui
vent’anni, ma senza successo. Scrivevo un racconto all’anno…e restava lì. Poi,
nel 1995 ho iniziato a scrivere sul serio. L’ossessione degli incubi che mia
madre mi spingeva a disegnare è diventata l’ossessione dello scrivere.
Sua madre parlava di che cosa avesse voluto dire per lei, essere una
straniera e per di più tedesca nell’Irlanda del dopo-guerra?
Sì, mia madre ne parlava spesso.
Soprattutto si sentiva frustrata dall’abitudine tutta irlandese di girare
intorno alla verità, in contrasto con il modo di fare dei tedeschi che
l’affrontano sempre in maniera diretta. Da bambini noi iniziavamo a fare questa
cosa irlandese, a non dire tutta la verità e mia madre temeva questa cosa
irlandese in noi e insisteva perché dicessimo l’intera verità, apertamente e
sempre.
Nel romanzo “L’ultimo sparo”, quanta parte della vicenda è la vera
storia di sua madre?
Il libro è la storia romanzata della vita
di mia madre. E’ vero che era in Cecoslovacchia sul finire della guerra ed è
vero che è tornata in Germania fuggendo in bicicletta con un ufficiale tedesco.
Tutta questa parte è vera.
Però poi nel romanzo la fa andare negli Stati Uniti, come mai?
E’ significativo per me
come scrittore che la faccia andare negli Stati Uniti, perché vuol dire che
avevo ancora timore di dire la mia storia. Non volevo che si sapesse che sono
per metà irlandese e per metà tedesco. E mi nascondevo ancora.
Nel romanzo si parla di un movimento irlandese che simpatizzava con il
nazismo negli anni ‘30. Come mai se ne sa così poco al di fuori dell’Irlanda?
De Valera |
Era un movimento piccolo, con pochi seguaci, ma in Irlanda c’era
simpatia per i tedeschi perché combattevano contro gli inglesi. De Valera, che
era al governo allora, fu molto abile nel reggere il timone dello Stato,
riuscendo a mantenere la neutralità. De Valera viene spesso accusato di aver
simpatizzato con i nazisti ma in realtà riuscì a mantenere una distanza uguale
da ambo le parti. Se l’Irlanda fosse entrata in guerra a fianco degli inglesi,
sarebbe scoppiata un’altra guerra civile perché molti militanti dell’IRA
simpatizzavano con i tedeschi.
Suo padre sperava che i tedeschi potessero aiutare gli irlandesi nella
loro lotta per l’indipendenza. L’Inghilterra era il nemico comune. Quando
iniziarono i “Problemi” nel Nord, come ha reagito?
Mio padre era un nazionalista “culturale”.
La sua guerra era per la cultura più che per il territorio. Quando iniziarono i
“Problemi” non volle che andassi a combattere al Nord. In realtà fui “salvato”
dalla mamma tedesca. Fu lei a cambiare l’atmosfera, era lei che odiava la
guerra, che ripeteva sempre che “quelli con i pugni” non vincono mai.
Non è sorprendente che suo padre, nonostante avesse sposato una tedesca
antinazista, fosse così dispotico in casa? Più che a voi figli, i ragazzi in
strada avrebbero potuto urlare “nazista” a lui. Che cosa attraeva così tanto
suo padre verso la cultura tedesca?
Mio padre proveniva da un ambiente molto
povero nella parte occidentale della contea di Cork. Mia nonna voleva che i
figli si elevassero socialmente, voleva che studiassero, che uscissero dalla
povertà, che avessero un’educazione che desse loro una visuale più ampia del
mondo. Mio padre crebbe con uno smisurato desiderio di imparare. Voleva essere
connesso con il mondo in una maniera culturale e non solo politica. Mia nonna
riuscì a far studiare i figli perché erano solo due, lei era rimasta vedova e
riceveva una pensione dalla marina britannica. Ha sempre irritato mio padre il
fatto di aver potuto studiare grazie al denaro inglese!.
Alla fine suo padre si ammorbidisce e parla in inglese: ha capito di
aver perso la battaglia?
Mio padre ha scoperto di aver sbagliato, ma
per noi era tardi, perché era già l’epoca in cui io ero sempre “arrabbiato”.
Però si è reso conto del suo errore. Per me è stato molto strano sentirlo
parlare in inglese: mi sono improvvisamente reso conto che quella era la “sua”
lingua, la lingua che sua madre usava con lui, quella in cui gli leggeva le
storie. E all’improvviso ho capito che mi aveva sempre parlato in due lingue
straniere, il tedesco e l’irlandese.
Nel secolo passato due paesi hanno fatto uno sforzo tremendo per far
risorgere una lingua, Irlanda e Israele. Perché l’Irlanda ha fallito là dove
Israele ha avuto successo?
Era una cosa che mio padre faceva sempre
osservare, di come gli ebrei fossero riusciti a resuscitare la loro lingua. Mio
padre ammirava molto gli ebrei. Penso che, quando gli ebrei fondarono Israele,
c’era bisogno per loro di creare una patria, sia territorialmente, sia con la
lingua e la cultura. Quando l’Irlanda ottenne l’indipendenza, gli irlandesi
avevano già la loro patria, ma non si trovavano a loro agio con la loro
cultura. L’Irlanda era così povera negli anni ‘20. Gli irlandesi avevano solo
una storia di povertà, di fallimenti, di oppressione. E questo tipo di storia
fu rafforzato dalle emigrazioni: dopo l’indipendenza l’unica salvezza era
tornare a lavorare in Inghilterra. Sarebbe stato un disastro dal punto di vista
economico, adottare come lingua l’irlandese. E poi, indubbiamente, l’ebraico
era necessario come collante tra persone che venivano da ogni parte di Europa.
Per l’irlandese era l’opposto, la lingua era connessa con la carestia, con
l’emigrazione, la povertà.
Recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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