Voci da mondi diversi. Canada
FRESCO DI LETTURA
Catherine Mavrikakis,
“Gli ultimi giorni di Smokey Nelson”
Ed.
Keller, trad. Silvia Turato, pagg. 282, Euro 17,00
Nel
1989 un’intera famiglia viene massacrata in un motel nei pressi di Atlanta-
madre, padre e due bambini piccoli. Un ragazzo di colore è subito arrestato e
resta tre mesi in prigione, finché è scagionato dalla testimonianza della donna che ha incontrato l’assassino nel
parcheggio. Lei andava a pulire le stanze, l’uomo- pure lui un nero- le
aveva addirittura offerto una sigaretta. Non si era mai capito perché non
avesse ucciso pure lei, la sconosciuta che poteva incastrarlo: lo aveva
riconosciuto con assoluta certezza e, per fortuna, non era una di quelle
persone per cui tutti i neri sono uguali. A diciannove anni di distanza il colpevole sta per essere giustiziato.
Il romanzo di Catherine Mavrikakis è una forte protesta contro la pena capitale ancora vigente nella
maggior parte degli stati che formano gli Stati Uniti d’America (sono solo 21
gli stati che hanno abolito la pena di morte) attraverso le voci diverse di persone che hanno vissuto la tremenda vicenda
del 1989 che ha cambiato la loro vita.
Il primo a parlare è Sydney Blanchard, il ragazzo ormai trentottenne che è stato accusato ingiustamente. Parla a ruota
libera, Sydney, alla guida della sua auto e in compagnia del suo grosso cane
(bianco) mentre torna da Seattle a New Orleans. Parla, parla. Di Jimi Hendrix
che è il suo idolo (Sydney è nato il giorno in cui Jimi è morto), di musica (si
sente l’erede di Jimi), dell’uragano
Katrina che lo ha portato via da New Orleans, delle colpe di Bush e delle
responsabilità del Governo in quella che è stata una catastrofe naturale che,
però, guarda caso, ha provocato un numero di morti di colore di gran lunga
maggiore delle vittime bianche, della speranza in Obama, di quello che è
successo in quel motel quasi vent’anni prima- e sì, la televisione non fa che
parlare dell’uomo che fra poco finirà di vivere a spese dei cittadini.
Pearl
Watanabe è la donna che ha riconosciuto l’omicida. Sta andando a trovare la
figlia, non è più tornata in uno degli stati del Sud da allora, quando è
successo quello che è successo- lei ora vive alle Hawai, dove è nata e
cresciuta. Pearl non sa che Smokey Nelson sta per essere giustiziato e la
figlia farà di tutto perché non lo scopra. Perché Pearl non è mai riuscita a
dimenticare quell’incontro nel parcheggio, con il ragazzo che sembrava un uomo,
che non l’ha uccisa, che l’ha affascinata,
che lei ha denunciato.
Ray è il padre della giovane donna che è stata
uccisa. Quella di Ray è una voce farneticante
che parla attraverso quella di Dio, il
Dio inflessibile e razzista della ‘Bible belt’, un Dio che parla di
Giustizia Superiore e della feccia maledetta dei negri da cui bisogna ripulire
la terra, che esalta le imprese punitive del figlio di Ray che milita in una
sorta di mai nominato Ku Klux Klan, che vede Obama come suprema minaccia e
segno di decadenza, che tempesta che Lui non permetterà che l’assassino venga
graziato.
Il condannato, Smokey Nelson, è l’ultimo a
parlare. Quello che
deve dire non è molto significativo, il colare lento degli anni nel braccio
della morte, le visite della sorella (l’unica che gli è rimasta a fianco), l’ultimo
pasto, i ricordi di quel giorno, la donna nel parcheggio.
Non viene mai detto esplicitamente perché
Smokey abbia ucciso quelle quattro persone, si accenna, fuggevolmente, ad un
furto. E forse questa mancanza di motivazione è voluta, per rendere più
drastica la domanda se l’uomo possa
arrogarsi il diritto di mandare a morte una persona, anche se reo confesso
di un delitto assurdo. La risposta è
contenuta nel finale di cui non voglio dirvi nulla.
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