Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Ito Ogawa, “La cena degli addii”
Ed. Neri Pozza, trad. Gianluca
Coci, pagg. 158, Euro 14,50
Titolo originale: Atsuatsu wo meshiagare
“Sai che cosa mi ha detto mio padre poco
prima di morire?” mi ha confidato il mio fidanzato, notando il mio silenzio. “
‘Prima di sposare una donna, assicurati che sia in grado di apprezzare quel mio
ristorantino preferito a Chinatown’.”
E’
inevitabile che, quando si termina di leggere un libro di storie brevi, il
pensiero le raccolga velocemente in un tutto unico e ne selezioni una che più è
piaciuta. Perché ha toccato delle corde del cuore, o perché ha risvegliato
sentimenti nascosti. E quasi certamente non sarà la stessa storia ad essere
scelta da tutti i lettori- e questa è una cosa bella di un genere di
letteratura che potrebbe essere frammentario se non avesse, come nel caso de
“La cena degli addii” della scrittrice giapponese Ito Ogawa, un filo conduttore
che fa da leit motiv.
Non so se ‘Il misoshiru di Kō-chan’ sia la più bella, di certo è la
più toccante delle storie di questa raccolta (in una nota finale l’autrice ci
dice che è una storia vera). La mattina del giorno in cui andrà sposa, Koharu
prepara per l’ultima volta la zuppa a base di miso, il misoshiru, per suo padre. Non è un’abitudine familiare qualsiasi.
Dietro questo rito mattutino c’è una storia d’amore. La mamma di Koharu è morta
di tumore quando la bambina era piccola e, sapendo che cosa l’aspettava, aveva
insegnato alla bimba di neppure cinque anni a preparare il misoshiru. Con pazienza, giorno dopo giorno. E le aveva fatto
promettere che l’avrebbe cucinato sempre per la colazione del padre, finché
avesse lasciato la casa paterna per sposarsi. Perché poi, proprio il misoshiru? Perché era una sorta di gioco
amoroso tra il padre e la madre, una madeleine
che ricordava loro il giorno in cui lui le aveva chiesto di sposarla.
Oltre ad essere una storia bellissima, ‘Il misoshiru di Kō-chan’ dimostra bene le caratteristiche di questo libro in cui ogni racconto parla di cibo in relazione ad un addio che può essere anche una separazione temporanea e non definitiva. Il cibo diventa un legame, un laccio che attraverso almeno quattro dei sensi aggancia il cuore e la mente. Il cibo può gettare un ponte tra due persone, può essere un’altra maniera per comunicare, per ricordare una vita passata (come nella storia in cui una nipotina porta una granita alla nonna ormai svanita nel labirinto della sua mente e incapace di riconoscere chi le sta accanto), per progettare una vita futura (un giovane in procinto di partire per un anno di lavoro in Canada chiede alla ragazza che sta cenando con lui di sposarlo; la cena era una sorta di variante delle prove a cui venivano sottoposti gli eroi dei cicli cavallereschi: se lei avesse apprezzato, sarebbe stata la moglie giusta), per considerare, con un filo di impotente rammarico, come sarebbe potuta essere l’esistenza se si fossero intrapresi altri cammini (una coppia si reca a gustare, per l’ultima volta insieme perché la separazione è già stata decisa, gli squisiti funghi matsutake e solo quando lui se n’è andato la donna scopre, dando un’occhiata al libro dei ricordi della pensione, i desideri scritti un anno prima dal suo compagno), per far rivivere- per la durata della preparazione e della degustazione di un pasto- una persona che non c’è più (nell’ultima storia un marito defunto sembra voler imporre la propria presenza persino nell’errore della ricetta).
Oltre ad essere una storia bellissima, ‘Il misoshiru di Kō-chan’ dimostra bene le caratteristiche di questo libro in cui ogni racconto parla di cibo in relazione ad un addio che può essere anche una separazione temporanea e non definitiva. Il cibo diventa un legame, un laccio che attraverso almeno quattro dei sensi aggancia il cuore e la mente. Il cibo può gettare un ponte tra due persone, può essere un’altra maniera per comunicare, per ricordare una vita passata (come nella storia in cui una nipotina porta una granita alla nonna ormai svanita nel labirinto della sua mente e incapace di riconoscere chi le sta accanto), per progettare una vita futura (un giovane in procinto di partire per un anno di lavoro in Canada chiede alla ragazza che sta cenando con lui di sposarlo; la cena era una sorta di variante delle prove a cui venivano sottoposti gli eroi dei cicli cavallereschi: se lei avesse apprezzato, sarebbe stata la moglie giusta), per considerare, con un filo di impotente rammarico, come sarebbe potuta essere l’esistenza se si fossero intrapresi altri cammini (una coppia si reca a gustare, per l’ultima volta insieme perché la separazione è già stata decisa, gli squisiti funghi matsutake e solo quando lui se n’è andato la donna scopre, dando un’occhiata al libro dei ricordi della pensione, i desideri scritti un anno prima dal suo compagno), per far rivivere- per la durata della preparazione e della degustazione di un pasto- una persona che non c’è più (nell’ultima storia un marito defunto sembra voler imporre la propria presenza persino nell’errore della ricetta).
Se ‘Il misoshiru di Kō-chan’ è la storia più toccante, ‘Il mio
caro cuore colorato’ è la più straziante: in apparenza i protagonisti sono una
coppia anziana che va a pranzare in un locale che ha sempre frequentato. Dei
due, lei è la più arzilla, che parla in continuazione, si arrabbia perché il
posto non è più quello di una volta, chiede a lui se vuole essere imboccato, lo
tratta con enorme tenerezza. Il finale ci comunica un filo di angoscia.
“La cena degli
addii” si distingue dagli altri libri in cui il cibo diventa metafora per un
legame d’amore o altro perché poggia sull’idea del cibo come viatico, perché è
lieve, farcito di ricette orientali e di sentimenti e di storie di vita,
scritto con la naturalezza con cui si potrebbe scrivere un libro di cucina, di
quelli che diventano un tesoro di famiglia da tramandarsi da una generazione
all’altra.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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