il libro ritrovato
Donatella
Di Pietrantonio, “Mia madre è un fiume”
Ed. Elliot, pagg. 177,
Euro 16,00
Le pecore si facevano beffe di me i primi
tempi che le accompagnavo al pascolo da sola, non sapevo guidarle. Se
sconfinavano mi avvicinavo in modo troppo diretto e le fetenti invece di
retrocedere si addentravano nell’erba proibita. Quel giorno dovevo ricondurle
all’ovile per una stradina che tagliava i campi di un vicino piuttosto
irascibile. Si fermarono a brucare il trifoglio novello,le spingevo di qua e di
là senza riuscire a riportarle sul sentiero. Disperata, ti ho visto poi da
lontano, viene a salvarmi, ho creduto. Invece eri furiosa per il ritardo e mi
hai colpita con uno schiaffo dietro la testa.
Una madre. Una figlia. Un
amore forte eppure difficile, aspro come il paesaggio della terra d’Abruzzo in
cui vivono. Un affetto che sembra nascondersi dietro il pudore, proprio come la
bellezza schiva di una regione troppo spesso dimenticata.
“Mia madre è un fiume”,
opera prima di Donatella Di Pietrantonio, è la storia di questo rapporto, una
storia che diventa anche storia di famiglia e che inizia quando è più che mai
necessario ‘fissare’ questo amore, mettere delle pietre miliari, incollare i
ricordi perché non vadano perduti. Perché Esperia- la madre- sta perdendo la
memoria. Ha solo sessantadue anni, ma rivela i sintomi della più crudele delle
malattie- quella che ti ruba il cervello, che ti fa dimenticare un attimo per
l’altro quello che stai facendo, che ti fa smarrire il senso delle azioni
quotidiane. Che può portarti perfino a non riconoscere più chi ti è accanto.
Ecco perché lei, la figlia, ha incominciato a raccontarle quello che un tempo
sua madre ha raccontato a lei, accumulando frammento su frammento di ricordi.
Esperia era stata la
prima dei figli di Fioravante e Serafina. La prima di sei sorelle. Figlia della
prima licenza di Fioravante partito per la guerra. Poi- più o meno ogni
licenza, un figlio. Anzi, una figlia. E a tutte Fioravante aveva dato nomi
insoliti: dopo Esperia c’era Valchiria, e Diamante, Clarice, Clorinda…Erano
ricchi solo di figli, Fioravante e Serafina, ma non erano neppure poveri, c’era
sempre da mangiare per tutti. Magari le scarpe buone si calzavano solo quando
si entrava a scuola, togliendosi quelle infangate dalla camminata per arrivarci.
Erano contadini, avevano terra e pecore da portare al pascolo.
Il racconto che la figlia fa alla madre
non è lineare, la somma dei ricordi non è una semplice addizione. Ogni tanto la
figlia rievoca episodi dell’infanzia materna- e poi della madre adolescente,
del suo amore per il cugino che avrebbe sposato-, ogni tanto scava nei ricordi
della sua infanzia, quando soffriva
per l’incapacità della madre di mostrare il suo affetto per lei, per parlare dopo
del tempo presente, del dolore di assistere impotenti al disfacimento di una
persona, quando si cerca di recuperare il tempo perduto in un rapporto, prima
che sia troppo tardi. E, ad un certo punto, quasi ad offrire una spiegazione
tardiva al distacco che la figlia avvertiva da parte della madre nei suoi
confronti, affiora anche il penosissimo ricordo delle molestie paterne su
Esperia. Eppure Esperia nulla aveva detto alla figlia bambina, per non sciupare
il suo attaccamento al nonno.
Sullo sfondo di questa famiglia, l’Abruzzo.
Non ci viene mai permesso di dimenticare che Esperia vive in Abruzzo. E a volte
dobbiamo sostare un attimo e sforzarci per ricordare che Esperia è nata durante
la seconda guerra mondiale, che quello che ci narra, di una vecchia casa senza
elettricità e con il gabinetto all’aperto, dei chilometri da fare per arrivare
a scuola, delle pecore da portare al pascolo, di una quotidianità fatta di dura
fatica e di essenzialità- che tutto questo avveniva non molto tempo fa:
l’Italia è più grande e diversificata da come pensavamo. Dalle pagine
occhieggiano paesaggi molto belli e scabri, che sembrano trovare una
corrispondenza adeguata nel sentimento che pervade tutta la narrazione, in
bilico tra la poesia che ricopre di luce soffusa il passato, il rimpianto per
qualcosa che si è perso, l’orgoglio per le mete raggiunte e la pena, la pena
infinita, la pietas per la donna in cui la luce si sta spegnendo e che ha
ancora fiato per dire alla figlia: “Meno male che sei venuta, ti ha parlato
l’angelo all’orecchio”.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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