fresco di lettura
Anna
Kim, “Gli anni di ghiaccio”
Ed. Zandonai, trad. A. Allenbach,
pagg. 141, Euro 12,00
Titolo originale: Die gefrorene Zeit
Vienna 2005. Un albanese del Kosovo che si
chiama Luan Alushi. Sua moglie si chiamava Fahrie. No, si chiama Fahrie. Perché Luan Alushi non vuole neppure pensare che sia
morta. E’ scomparsa, ecco. L’hanno arrestata il 23 dicembre 1998 a B., vicino a
Pristina, in Kosovo. Da allora non se ne sa più nulla. a complicare le cose, la
guerra è scoppiata il 24 marzo 1999. Luan le aveva parlato per telefono da
Vienna il giorno precedente la scomparsa e si era messo in auto il 23 stesso,
appena lo avevano avvertito. Ora, sei anni dopo, Luan Alushi si rivolge
all’ente della Croce Rossa che si occupa di cercare le persone travolte dalla bufera
della guerra ed è la giovane donna che lo ascolta a raccontarci la sua storia.
Come si vive con un’assenza che è sempre
presente? Si vive congelati in una massa di ghiaccio che strizza il cuore, che
fa circolare sempre gli stessi pensieri nella mente- la scena dell’arresto, il
dubbio che Fahrie lo avesse provocato, i ricordi dell’anno passato insieme,
quello dell’attimo in cui si erano conosciuti, della cerimonia del matrimonio
in cui nessuno doveva sapere che loro erano innamorati. Sì, perché l’amore non
era previsto in un matrimonio combinato, secondo il rito albanese. E poi,
accanto a quel brevissimo spazio di tempo, quello lunghissimo dell’angoscia,
della sempre più fievole speranza e, per contrappunto, il voler credere che
Fahrie potesse riapparire, al di là di ogni ragionevolezza. Magari aveva perso
la memoria, magari si vergognava per quello che aveva subito.
E cominci a sentire che la cosa giusta da
fare è continuare a vivere la vita, invece di rimpiangere il passato, di
lasciarsi congelare, rinnegare tutto quello che potrebbe essere futuro anche
quando si esprime in modo passivo, quando ti è rinnegato; eppure ti sembra
ingiusto rinunciare senza avere notizie, ti sembra crudele, quasi si trattasse
di omicidio-
La prima parte del romanzo di Anna Kim è,
nonostante queste premesse, più lieve della seconda. Nella prima parte c’è il
racconto di un amore romantico, il colore delle tradizioni albanesi, il
sentimento che quasi inevitabilmente si crea tra Luan Alushi e la donna che
racconta, che lo interroga seguendo un formulario prestabilito. Fahrie viene
ritrovata e la donna accetta di accompagnare Luan Alushi in Kosovo- lui non si
sente in grado di affrontare da solo quello che lo aspetta.
E questa seconda parte gronda
orrore e dolore. Perché, a fianco della narratrice, compare un altro
personaggio, un punto di vista esterno che tuttavia non può fare a meno, con il
passare del tempo, di sentirsi sempre più coinvolto, trascinato verso il buio
del Male ad ogni nuova fossa comune che viene ritrovata, ad ogni nuova montagna
di cadaveri che deve cercare di ricomporre nel tentativo di ridare loro
l’identità che la morte ha cancellato. “I morti sono sempre più importanti dei
vivi”, dice l’anatomopatologo irlandese Sam. E, dopo aver letto con tutt’altro
sentimento del lavoro degli anatomopatologi nei thriller, in questo libro il
loro compito ci sembra una missione, un atto di carità, di pietas, che ha
qualcosa di religioso nel voler ricomporre quei miseri resti, nel ridare loro
un nome che li accompagni come presentazione nell’aldilà.
Alla scena del matrimonio, con
danze e canti e le donne tutte vestite di bianco come la giovane sposa dai
riccioli neri, si contrappone quella del funerale. All’allegria e alla musica e
ai tavoli imbanditi, il rumore degli spari e le macerie.
Non c’è luce nel finale. Nessuno
esce vivo dalla guerra. I morti muoiono di nuovo e i vivi---
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
la scrittrice Anna Kim
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