Rithy Panh, “L’eliminazione”
Ed. Feltrinelli, trad. Silvia Ballestra, pagg. 196, Euro
13,60
Ci sono dei libri da cui il lettore si
tirerebbe indietro, che farebbe a meno di leggere perché sa- dal titolo, dallo
strillo di copertina- che peseranno come macigni sul cuore. Ma sa anche,
altrettanto bene, che quelli sono libri che devono essere letti, libri di cui
si deve parlare, che sono stati scritti proprio per questo. E’ il caso de
“L’eliminazione” di Rithy Panh, scrittore e regista cinematografico, vincitore
del premio come miglior regista asiatico del 2013.
“Non ho mai pensato a un film che fosse una risposta o una dimostrazione.
Lo concepisco come un porsi delle domande.” A quelli che sono riusciti a
scappare in tempo, a quelli che sono scampati ai Khmer rossi, a quelli che
hanno dimenticato, o che non vogliono vedere, dono queste immagini: che possano
vedere, che vedano.
Rithy Panh è un sopravvissuto del regime di Pol Pot che ha causato un milione e settecentomila morti nei quattro anni dal 1975 al 1979. E, nonostante questo, la Kampuchea democratica ha avuto un seggio all’Onu fino al 1991, come se niente fosse successo, come se quelle morti fossero state accidentali, causate da una serie di pestilenze scoppiate con virulenza in Cambogia. Rithy Panh aveva 11 anni quando, il 17 aprile 1975, i Khmer Rossi entrarono in Phnom Penh e obbligarono tutti gli abitanti a lasciare la città ( ne abbiamo letto, di recente, anche nel bel romanzo di Madeleine Thien, “L’eco delle città vuote”). Perché facevano parte del ‘popolo nuovo’, erano borghesi e intellettuali, dovevano essere rieducati. Fu una gigantesca deportazione della quale i protagonisti non afferrarono la portata- i più, gli stessi genitori di Rithy, avevano fiducia nel comunismo. Mai avrebbero immaginato che l’intera Cambogia sarebbe diventata un enorme campo di lavoro forzato dove si moriva a migliaia di fame, di malattie, di torture. Si moriva perché “i Khmer rossi sono eliminazione. L’uomo non ha alcun diritto”, perché “A imprigionarti non si guadagna nulla. A eliminarti non si perde nulla.” Il fine del regime era ridurre la popolazione in due classi sociali: operai e contadini. Con la cecità e la stupidità dei regimi totalitari e populisti si era stabilito che chiunque poteva fare qualunque lavoro, solo la pratica era necessaria. Fotografie ritraevano ragazzetti trionfanti alla guida di trattori- d’accordo, si poteva imparare a guidare una macchina agricola. Ma le mani degli improvvisati medici che operavano con strumenti di fortuna tremavano, incapaci di fare alcunché che potesse salvare una vita o alleviare delle sofferenze.
Rithy Panh, che ha visto morire la madre e
il padre, una sorella, due nipotini, è riuscito a resistere- grazie alla madre,
grazie ad aiuti insperati e provvidenziali. Ha fatto di tutto, anche il
pulitore di cadaveri. Ed è vissuto per testimoniare, per portare alla luce la
verità. I suoi film documentari (“Bophana”, “S-21: La macchina di morte dei
Khmer rossi”, “Gente di Angkor”) sono Storia. Per Rithy Panh, “il lavoro di
ricerca è una lotta contro l’eliminazione”. Uno dei film, “Duch”, è sul
personaggio a cui Panh rivolge le domande nel libro appena pubblicato,
“L’eliminazione”.
Duch era il nome con cui si faceva chiamare il direttore del famigerato S-21, prigione, centro di sterminio dove almeno 20000 persone trovarono la morte. Ora Duch si è convertito al cristianesimo, si proclama innocente, dice: “Ci sono quattro segreti: non so, non ho sentito, non ho visto, non parlo”. Il metodo di Rithy Panh, le domande incalzanti che cercano di mettere il carnefice nell’angolo, ricorda quello di Gitta Sereny nei suoi straordinari libri inchiesta, “In quelle tenebre”, in cui dialoga con Stangl, comandante dei campi di Sobibor e di Treblinka, e “In lotta con la verità” dove il suo ‘avversario’ è Albert Speer, l’uomo che diceva che non sapeva ma che avrebbe dovuto sapere quanto stava accadendo in Germania. La differenza è che Rithy Panh ha vissuto in prima persona la tragedia del genocidio e i suoi ricordi personali, vividi come se si trattasse di fatti avvenuti ieri, si alternano alle risposte offerte da Duch, il carnefice in apparenza inconsapevole. L’effetto è sconvolgente.
Guarda il trailer di Duch, di Rithy Panh:
lo scrittore e regista Rithy Panh
Duch era il nome con cui si faceva chiamare il direttore del famigerato S-21, prigione, centro di sterminio dove almeno 20000 persone trovarono la morte. Ora Duch si è convertito al cristianesimo, si proclama innocente, dice: “Ci sono quattro segreti: non so, non ho sentito, non ho visto, non parlo”. Il metodo di Rithy Panh, le domande incalzanti che cercano di mettere il carnefice nell’angolo, ricorda quello di Gitta Sereny nei suoi straordinari libri inchiesta, “In quelle tenebre”, in cui dialoga con Stangl, comandante dei campi di Sobibor e di Treblinka, e “In lotta con la verità” dove il suo ‘avversario’ è Albert Speer, l’uomo che diceva che non sapeva ma che avrebbe dovuto sapere quanto stava accadendo in Germania. La differenza è che Rithy Panh ha vissuto in prima persona la tragedia del genocidio e i suoi ricordi personali, vividi come se si trattasse di fatti avvenuti ieri, si alternano alle risposte offerte da Duch, il carnefice in apparenza inconsapevole. L’effetto è sconvolgente.
Guarda il trailer di Duch, di Rithy Panh:
lo scrittore e regista Rithy Panh
Recensione pubblicata su www.Stradanove.net
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