Casa Nostra. Qui Italia
C’è un punto interrogativo nel titolo del
libro dello storico Angelo Del Boca, “Italiani, brava gente?” (ed. Neri Pozza,
pagg. 305, Euro 16,00), che innesta il dubbio che la risposta possa essere
“no”. Una risposta difficile da accettare, eppure i fatti accertati e
documentati da Del Boca, riguardo al periodo storico che va dall’unità d’Italia
alla fine della seconda guerra mondiale, parlano chiaro, i numeri sono più
eloquenti delle parole, le fotografie archiviate sono un evidente atto
d’accusa. E inoltre la realtà degli eccidi perpetrati dagli italiani non è
stata neppure tenuta nascosta, anzi è stata all’epoca motivo di vanto,
soprattutto durante il fascismo in quanto un comportamento così spietato
corrispondeva agli insegnamenti inculcati per un nuovo modello di italiano:
disprezzo per l’avversario, assenza di qualunque sentimento di pietà,
esaltazione della “bella morte”. Il libro di Del Boca vuole sfatare il mito
secondo cui gli italiani sono bonaccioni, gli italiani non sono crudeli, non
infieriscono sui nemici, non sono neppure paragonabili agli “altri”, sono
sempre stati bene accetti nelle terre occupate. Un mito di comodo e tuttavia
allarmante in quanto ci autoassolve e rimuove un passato che va affrontato. I
fatti che Del Boca illustra sono divisi in capitoli, come dei flash che
rivelano uno scenario di morte in una luce cruda e impietosa. Si parte dalla
lotta al brigantaggio dopo l’unificazione (fuorviante quel chiamare “briganti”
gli insorti, visto che erano soldati dell’esercito borbonico), per passare poi
in Cina, durante la rivolta dei boxer, e alle varie campagne in Africa. Ci
sentiremmo meno offesi dalle parole di un Gheddafi se fossimo più informati e
ricordassimo la prosopopea del “posto al sole”, il disprezzo contenuto in frasi
come quelle del generale Baldissera nel 1888, “l’Abissinia ha da essere nostra,
perché tale è la sorte delle razze inferiori; i neri a poco a poco scompaiono,
e noi dobbiamo portare in Africa la civiltà non per gli Abissini ma per noi”,
l’ignoranza totale della cultura e dei costumi della gente che ci apprestavamo
a soggiogare, l’insulto contenuto persino nelle parole delle canzoni in voga, Faccetta nera, bell’abissina…
E
soprattutto se conoscessimo i nomi dei luoghi di infame memoria, il
penitenziario di Nocra (detenuti incatenati su tavolacci, 300 gr. di farina a
testa, 10 di tè e 20 di zucchero, acqua salmastra- e razionata- da bere), la
piazza del Pane a Tripoli con la forca per le impiccagioni esemplari, i lager
(“Soluch come Auschwitz”) in cui Graziani fece deportare 100.000 persone (la
metà degli abitanti della Cirenaica), la “liquidazione completa” (la stessa
espressione usata dai nazisti) dei monaci di Debrà Libanòs sospettati di
connivenza con i ribelli- e la scena è fin troppo simile a quella degli
stermini degli ebrei, con le vittime sul ciglio di una fossa in attesa
dell’esecuzione: 2033 i morti. E ancora, le responsabilità di Cadorna, lo
schiavismo bianco, la pulizia etnica in Slovenia, le 300 tonnellate di iprite
sganciate tra il 1935 e il 1936
in Etiopia. Le cifre non hanno bisogno di commenti,
l’accurata bibliografia a chiusura di ogni capitolo degli orrori non lascia
margine di dubbio sulla veridicità dei fatti. Stilos ha intervistato il
Professor Del Boca a Torino, dove vive.
Nel capitolo introduttivo del suo libro ci sono citazioni di quello che
è stato scritto sull’Italia da visitatori stranieri, a partire dal 1600. E’ sconfortante
osservare che quelle osservazioni negative sono le stesse che leggiamo tuttora
sulla stampa straniera: dobbiamo pensare che, nelle parole di Heine, “il popolo
italiano è intimamente malato e inguaribile”?
Diciamo subito che
anche i giudizi degli italiani sugli italiani non sono confortanti, anzi, forse
sono ancora più cattivi, come quelli espressi da Leopardi. Come per tutti i
popoli, ci sono delle stigmate, dei difetti che sono difficilmente guaribili.
Nelle mie citazioni sono partito dal ‘600, ma sarei potuto risalire anche a
prima. E purtroppo, quando capita di uscire dall’Italia e prendere contatto con
altri intellettuali, ci si sente dire delle cose che non sono certo belle e che
feriscono, soprattutto perché sono vere.
Lei analizza come un certo tipo di uomo italiano sia stato “forgiato”
dall’indottrinamento mussoliniano, dal martellamento di slogan che miravano a
creare un modello di uomo forte, spietato, combattivo. Sarebbe possibile
forzare un altro tipo di modello, incline allo spirito critico che porta alla
disobbedienza come capacità di scegliere?
Indubbiamente Mussolini
è riuscito a creare un italiano duro e brutale ma, verso metà della guerra,
parlando con Ciano, aveva osservato, “ahimé, questo italiano è peggiore di quello
della prima guerra mondiale”, intendendo che aveva in parte fallito perché gli
uomini si mostravano meno audaci. Se Mussolini, usando gli strumenti della sua
epoca, è riuscito solo parzialmente a creare un italiano diverso, un italiano
non mandolinista e timido, se è riuscito solo nella parte più negativa, a fare
cioè un uomo brutale, una macchina da guerra, usando gli strumenti di oggi si
potrebbe tentare di fare di meglio. Certo non può farlo Berlusconi, con la sua
idea del mondo e della società consumistica. Ne uscirebbe un italiano mediocre,
scarso di idee, privo di autocritica. Guardo alle sinistre e mi chiedo quale
capacità possano avere. Ci vorrebbero dei decenni, ma le sinistre potrebbero
almeno dare agli italiani il senso della misura, un rispetto maggiore per se
stessi, una capacità di discutere e dialogare con gli altri. Mi basterebbe già
questo.
Il suo libro rompe un lungo silenzio: pensa che verrà accolto come una
doverosa informazione e un equo riesame della storia, o che verrà accusato di voler
denigrare l’Italia?
In genere dopo la
pubblicazione di ogni mio libro di storia coloniale ho ricevuto sia lodi sia
attacchi. Lodi da chi accettava una revisione della storia e attacchi da
nostalgici del fascismo e da elementi conservatori. Non è una sorpresa dunque
vedere il giudizio diviso in due. Questa volta però, nelle recensioni
pubblicate fino ad ora, non c’è un solo attacco e neppure ci sono obiezioni.
D’altra parte è un libro conciso, in calce c’è un archivio che non può essere
contestato. Che poi il libro possa servire a mutare delle opinioni su alcuni
fatti- me lo auguro. Il libro contiene un messaggio preciso: non dobbiamo
assolutamente accettare il titolo del libro, non ci meritiamo questa
definizione così decisa, così sicura, non
siamo “brava gente”. Spero che smetteremo di autoassolverci come abbiamo sempre
fatto.
Pensa che, inquadrando le azioni di violenza commesse dagli italiani in
Africa e altrove nell’atmosfera del tempo, nel contesto della guerra, sia
possibile renderle accettabili o per lo meno comprensibili?
Secondo me in tutte le
conquiste in Africa e in Asia, le violenze erano scontate, soprattutto dopo
che, nel congresso di Berlino del 1884, si era codificata la spartizione
dell’Africa. La violenza è ammessa, ma c’è uno spartiacque, ed è quello delle
violenze inaccettabili che io documento. Ho fatto una scelta di episodi limite.
Capisco che un esercito faccia una guerra per impadronirsi di territori, ma che
bisogno c’era di usare l’iprite quando c’era già una superiorità di armi? Lì
vedo la violenza, la barbarie inaccettabile.
Perché non c’è stato nessun tribunale per i crimini di guerra italiani?
Qualcuno ci ha tentato-
nel 1946 Hailé Selassié ha inviato alle Nazioni Unite l’elenco di 970 criminali
di guerra italiani chiedendo venissero sottoposti a processo. La cosa tragica è
che, a impedire a Hailé Selassié di mantenere questo impegno, sono stati gli
americani. Erano loro che mantenevano il paese in vita e con un preciso ricatto
hanno impedito ad Hailé Selassié di fare un processo- avrebbero sospeso gli
aiuti se avesse insistito a chiedere l’estradizione di quei personaggi. Gli
americani non avevano interesse che venisse processato un Badoglio che per loro
era un primo ministro che si era schierato a fianco degli alleati. Anche Tito
ha fatto un elenco delle persone da estradare per processarle, ma gli è stato
impedito da Roma e gli italiani hanno fatto un controelenco in cui il primo da
processare era Tito. In realtà gli italiani non hanno voluto una loro Norimberga:
se avessero chiesto l’estradizione di tutti i tedeschi criminali di guerra, nel
momento in cui si cercava di portare la Germania dalla nostra parte, non sarebbe piaciuto
né agli americani né all’Occidente. Così non c’è un solo criminale di guerra
italiano che sia stato condannato. Soltanto Graziani ha avuto 19 anni ma ne ha
scontato di meno per amnistie varie, e Graziani era non solo Ministro della
Guerra di Salò, ma anche il “macellaio” degli africani.
Nel libro si parla di Montanelli, di come abbia sempre negato le azioni
criminose italiane in Africa, compreso l’uso dei gas: era in buona fede?
Penso che fosse in
buona fede quando è andato volontario in Africa. Non so invece, quando
continuava a insistere con me- e la polemica è durata 35 anni- dicendo che lui
c’era e non aveva mai sentito l’odore di mostarda del gas, che l’iprite non era
mai stata usata. Più di una volta gli avevo
indicato i faldoni negli archivi italiani con i documenti che provavano
il contrario. Mi accusava di essere antiitaliano e fazioso. Dopo 35 anni di
queste battute, ho suggerito un arbitro a dirimere la questione: Susanna
Agnelli, che era Ministro degli Esteri, e il generale Corcione, Ministro della
Difesa. Dopo una serie di interrogazioni alle Camere, il ministro Corcione ha
fatto una dichiarazione che demoliva la tesi di Montanelli: il nostro esercito
aveva usato i gas in maniera continuativa e massiccia. Allegava alla
dichiarazione il rapporto in cui Badoglio dichiarava che, dopo la battaglia di
Amba Aradam, aveva scagliato tutta l’aviazione dell’Eritrea sull’esercito in
fuga di Ras Mulughietà e aveva scaricato 60 tonnellate di iprite. Montanelli,
da galantuomo, ha accettato la sconfitta e nella sua rubrica ha scritto “i documenti
mi danno torto”, chiedendo scusa a me e
ai lettori. E’ stata un’ammissione importante, eppure ancora oggi tanti sono
convinti che siano tutte fandonie, che noi italiani siamo brava gente.
C’è un capitolo un po’ anomalo nel libro, quello sul generale Cadorna.
Non è poi tanto anomalo,
perché, dovendo elencare una serie di violenze al limite, Cadorna assomma in sé
due forme di criminalità: nelle 12 battaglie dell’Isonzo ha mandato a morire
centinaia di migliaia di soldati non
perché avesse una precisa idea strategica, ma perché si era intestardito ad
usare quei disgraziati come maglio contro le fortificazioni austriache. Questo
è il primo grosso addebito che gli faccio, pure pensando ad altri generali che
hanno usato gli uomini come carne da cannone. Ma c’è un’altra cosa da addebitare
a Cadorna: la proibizione a che lo Stato italiano invii viveri ai prigionieri
in Austria, al punto che 100.000 nostri soldati sono morti di fame e di stenti,
mentre Francia e Inghilterra hanno inviato pacchi in maniera continuativa e
hanno avuto un numero di decessi di gran lunga inferiore. Perché? Per creare
una tale paura di cadere prigionieri da spingere i soldati a combattere fin
all’estremo.
C’è una somiglianza tra la velleità di portare la civiltà in Africa nel
periodo coloniale e la presunzione di portare oggi la democrazia in Iraq e in
Afghanistan?
Certo che c’è una somiglianza: è una
continuazione di questa presunzione dell’Occidente di possedere la verità e
sapere quello che è bene, e la mistica di doverlo portare agli altri a prezzo
di enormi sacrifici dei nostri, in cambio naturalmente di ricchezze materiali.
C’è stato qualcosa di buono, di costruttivo, di civilizzatore, che
hanno fatto gli italiani all’epoca delle conquiste in Africa?
Non possiamo dire che sia
stato un grosso regalo fatto agli africani, di aver costruito strade, ospedali,
qualche scuola: finché eravamo là, servivano agli italiani. Penso che, se
qualcosa di positivo è stato fatto, più che i governi siano stati i singoli
italiani a farlo. Molti italiani hanno contribuito allo sviluppo di questi
paesi, in particolare in Libia, facendo una specie di scuola di lavoro ai
libici che erano alle loro dipendenze, anche se con risvolti di interesse.
Invece nel Web Shebeli, in Somalia, gli indigeni che lavoravano nella
piantagione erano trattati veramente come schiavi, tanto che lo stesso federale
fascista Serrazanetti denunciò queste violenze a Mussolini in tre rapporti. Per
quanto riguarda l’Etiopia, è probabile che la presenza italiana abbia in un
certo senso inciso favorevolmente sullo sviluppo agricolo, lo ammettono anche
alcuni storici etiopi.
Che tipo di legame aveva creato l’esercito italiano con i corpi degli
ascari?
Gli ascari sono stati i
reparti più fedeli all’esercito italiano, si sono svenati per gli italiani, ne
sono morti 50.000 per l’Italia, in varie guerre. Durante la rioccupazione della
Libia, dopo il ‘21, i reparti erano
quasi tutti di ascari. Graziani usava questi soldati per le loro capacità
combattive, perché sapevano adattarsi meglio al terreno e al clima. A Cheren
nel ‘41, durante l’offensiva inglese contro gli italiani, gli ascari hanno
avuto più perdite che gli italiani. Eppure sapevano che la guerra era finita
anche per loro.
Perché questa dedizione estrema?
Per fedeltà, perché
speravano che l’Italia avrebbe dato loro una certa autonomia, combattevano per
una pre-indipendenza. Devo dire che nel protonazionalismo eritreo c’è un
coefficiente dato da questa dedizione degli ascari agli ideali italiani. E dire
che gli ultimi ascari, ormai poche decine, hanno avuto una liquidazione finale
di pochi soldi, invece della pensione.
Recensione e intervista sono state pubblicate nel 2005 dalla rivista letteraria "Stilos"