Sono stata in Albania, la scorsa
primavera. Non per fare un soggiorno al mare ma per un tour che mi ha portato
dal Nord al Sud del paese, con una guida preparata, bravissima. Davanti alla
finestra della mia stanza, nell’albergo di Tirana, c’era la statua equestre di
Gjorgi Kastriota Scanderbeg. Non sapevo nulla di lui quando sono arrivata, ne
ho sentito parlare ogni giorno durante il viaggio e ne ho capito l’importanza
per gli albanesi. Era una figura quasi mitica, un eroe. Quando è uscito il
libro di Stefano Amato, ho pensato subito che dovevo leggerlo, che era un
segnale per approfondire la conoscenza della storia di un paese che mi aveva
incantato.
A che cosa è dovuta la forza con cui
resiste il mito dell’eroe Scanderbeg? La necessità di un popolo di
identificarsi con un eroe? Il ricordo di un pericolo del passato che deve
servire come monito per il futuro?
Dipende dal punto di vista. Ho scritto il
romanzo da italo-albanese e non so se sia lo stesso punto di vista degli
albanesi di Albania. Anche da noi c’è un forte legame storico con Scanderbeg, è
un elemento che ha aiutato i profughi a mantenere la loro identità, un
riscontro con le capacità che Scanderbeg ha avuto come principe del principato
di Castriota, come diplomatico per i suoi contatti con gli aragonesi e un
esempio per i profughi che sono arrivati dall’Albania. E sì, certamente, per
gli albanesi è un monito- l’Albania è sempre stata minacciata dalla Turchia e
poi dall’Unione Sovietica.
Che cosa l’ha spinto a ‘ripescare’ la
figura di questo eroe?
Più che ‘ripescare’ avevo voglia di cucire
la storia dei miei antenati, degli albanesi che sono arrivati in Calabria, a
Frascineto dove sono cresciuto. |
Frascineto |
Da bambino si parlava albanese e nessuno me ne
spiegava il motivo, provavo curiosità per la storia della mia famiglia e per i
motivi per cui gli italo- albanesi erano legati alla loro identità. Crescendo
mi sono appassionato a questa storia e poi sono stato influenzato da Carmine
Abate, dal suo libro “Le stagioni di Hora”. Volevo capire come era avvenuto
l’esodo albanese in Italia e come si è tramandata la storia di Scanderbeg. Mi
ha portato ad immaginare come potesse essere stato per una ragazzina che vive
la fuga dall’Albania e, per raccontarlo,
sono partito dal mito di Scanderbeg.
In tutte
le statue e i dipinti che ho visto, Scanderbeg è un uomo imponente. Mi
ha incuriosito il suo elmo: perché è sormontato da una testa di capra?
Penso che si possa spiegare con uno degli
aneddoti che si raccontano su Scanderbeg, riportato dallo storico ottocentesco
Noli- durante una battaglia a Kruje Scanderbeg, per spaventare i nemici, mandò
avanti un gregge di capre con delle torce accese legate sulla testa.
La bandiera dell’Albania, molto
scenografica, ha un’aquila con due teste che guardano in direzioni opposte. Che
cosa simboleggiano le due aquile?
L’aquila bicipite viene dall’impero
bizantino ed è stata ripresa dall’Albania quando era già turca. Le due teste
rivolte in direzione opposta possono significare lo sguardo verso due aree
geografiche diverse oppure il doppio potere, laico e religioso. E poi dobbiamo
ricordare che il nome Albania viene dal nome Arberor che aveva nel Medio Evo.
In epoca moderna è chiamata Stiperia, cioè terra delle aquile.
La seconda parte del libro sposta
l’ambientazione del romanzo in Italia, più precisamente nella Calabria Citra-
una denominazione che peraltro non conoscevo. Prima di tutto mi ha colpito la
somiglianza tra le scene degli albanesi nel 1500 e quelle che sono ancora negli
occhi di tutti, del 1991- la fuga e l’esilio sono delle costanti. Nella mente
delle due protagoniste l’Italia rappresentava la pace, la fuga dalla guerra.
Non era poi molto diverso da quello che rappresentava per gli albanesi di 500
anni più tardi.
Sicuramente. A differenza però
dall’emigrazione degli anni ’90 c’era un accordo politico tra il Regno
Aragonese e Scanderbeg- il re Ferrante mandava aiuti militari e in cambio gli
albanesi conquistavano le terre occupate dai turchi per darle al regno di
Napoli. Gli immigrati albanesi erano malvisti, venivano chiamati con un termine
cattivo, ‘i cagnoli’, i branchi di cani. C’è una predisposizione innata negli
uomini a giudicare negativamente chi parla un’altra lingua o professa un’altra
religione.
Lei è cresciuto nella comunità arbëreshë.
Vorrei che ce ne parlasse. È una comunità chiusa? È numerosa? Parlano ancora
albanese? Sono tante domande…
Oggi no, non è una comunità chiusa, oggi
tutto è diverso, rispetto anche ai racconti di mia nonna che è nata nel 1940 e
di mia mamma che è del 1960. Mia nonna parlava solo in albanese e un poco in
dialetto calabrese. Facevo fatica a capirla. Fino al secondo dopoguerra era una
comunità chiusa, arretrata, basti pensare che il metano per il riscaldamento è
arrivato solo nel 2000. Incredibile. La mia generazione però – io sono nato nel
1987- è diversa. Siamo cresciuti con la RAI e con la televisione. Era cambiato
l’obbligo scolastico e l’italiano era diventata la prima lingua. L’obbligo
scolastico e la televisione hanno fatto la differenza. E poi, dal secondo
dopoguerra è iniziata una emigrazione verso la Svizzera e la Germania e la
popolazione si è ridotta. Sono zone depresse e molti vanno via, anche io sono
andato via per lavoro.
Si sono integrati? I matrimoni sono solo
tra albanesi o sono misti?
In passato i matrimoni erano solo tra arbëreshë,
c’era diffidenza verso gli italiani che venivano chiamati ‘latini’- adesso con
il termine ‘latini’ ci si riferisce agli stranieri. C’era una diffidenza etnica
verso le persone della Calabria. Poi, gradualmente, sono diventati comuni i
matrimoni misti.
Che religione professano?
Per quello che riguarda la religione,
apparteniamo alla Chiesa Uniate che segue il rito greco-bizantino, con vescovi
eletti dal Papa. È simile alla chiesa ortodossa, segue il calendario
greco-bizantino, i preti possono sposarsi, l’iconostasi è davanti all’altare,
la ricorrenza dei morti viene celebrata nella settimana prima della Quaresima,
però riconosce come capo il Papa di Roma.
Ci sono altre comunità arbëreshë nel Sud
Italia?
In provincia di Cosenza ci sono 36
comunità, ce ne sono altre in Sicilia, in Basilicata, in Puglia e in Campania-
sono i discendenti dei primi immigrati. Nel ‘700 si stabilirono altre comunità
in Abruzzo e in Molise. Nel Nord arrivarono dopo, in provincia di Piacenza..
Nella cultura albanese c’è una cosa che
mi affascina, una cosa di straordinaria importanza- la besa. Basta pensare che, per via della besa, durante la seconda
guerra mondiale l’Albania, unico tra i paesi europei, non ha consegnato i suoi
2000 ebrei ai nazisti. Può parlarcene?
La Besa- la traduzione in italiano sarebbe
‘Promessa’, ma ha un significato più viscerale, la Besa è la parola data. Ha
mantenuto il significato come ‘patto di sangue’, è una promessa che prevede
rispetto della persona e, se la promessa non viene mantenuta, difficilmente ci
si riappacifica. In passato si arrivava anche ad azioni violente. Ha qualcosa
in comune con il codice d’onore del Sud dell’Italia. La Besa è istituzionalizzata
dal kanun, il Codice. Si vuol
sottolineare l’impegno che si prende con qualcuno e dipende dal valore che si
dà alle promesse. Ha avuto valore per creare un ordine sociale. Nel passaggio
dall’impero bizantino all’impero ottomano definire le regole sociali fu di
vitale importanza: la promessa in momenti di incertezza sociale è basilare.
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