domenica 3 novembre 2019

Soth Polin, “L’anarchico” ed. 2019


                                                Voci da mondi diversi. Cambogia


Soth Polin, “L’anarchico”
Ed. ObarraO, trad. A. Giarda, pagg. 181, Euro 16,00

    Eros e Thanatos. Si potrebbero intitolare così le due parti, scritte a dodici anni di distanza, che compongono il libro di Soth Polin, uno dei pochi scrittori cambogiani che sono sopravvissuti al governo dei Khmer rossi che annegarono l’antico regno di Angkor nel sangue.
    Una breve nota su Soth Polin, autore per noi sconosciuto. Nasce nel 1943 in una famiglia borghese francofona e colta- la Cambogia fa ancora parte del protettorato francese e il governo di Vichy ha messo sul trono il principe Sihanouk. Quando Soth Polin ha dieci anni, la Cambogia diventa indipendente e il caso vuole che abbia  come insegnante di francese nelle scuole medie quel Saloth Sar che si sarebbe poi dato alla macchia per riapparire sulla scena impadronendosi del potere con il nome di Pol Pot, tristemente passato alla Storia per aver assassinato un quarto della popolazione cambogiana.

 Diventato professore di filosofia, Soth Polin incomincia a scrivere. La prima parte di questo libro, quella che intitolerei “Eros”, è una storia di sesso, non di amore. C’è un protagonista che è anche l’io narrante che passa da un incontro all’altro con donne diverse. Ci fa pensare ad un Henry Miller in versione cambogiana con la descrizione delle sue imprese sessuali, la glorificazione del suo membro, l’analisi dettagliata delle diverse anatomie femminili. È un misogino fallocrate che ha bisogno della donna per provare la sua potenza, privo di sentimenti che non siano di disprezzo anche quando esalta la bellezza delle donne con cui si accoppia. L’ultima delle sue avventure di amore fatto di sesso finirà in tragedia.
     Il contrasto con la seconda parte del libro- Thanatos- non potrebbe essere più grande. La voce dell’io narrante è sempre la stessa, anche se lui è invecchiato. Brusca e sprezzante. “Il mio nome è Virak…Il mio cognome non ha importanza…ho una fortuna sfacciata: sono un cambogiano rifugiato a Parigi.”
Virak fa il tassista a Parigi, ha appena avuto un incidente. “Come volo strepitante di uccelli eccitati,/ tutti i miei ricordi s’abbattono su di me”, sono i versi di Verlaine citati all’inizio. Era distratto dai suoi ricordi, Virak, quando ha perso il controllo dell’automobile. La passeggera inglese che trasportava è morta ed è a lei che Virak racconta la storia dei milioni di morti nel suo paese e di come anche lui ne sia in parte responsabile.

     Virak è un uomo che ha perso la sua anima dopo essersi lasciato la patria alle spalle, è “una ferita aperta dilaniata da quella moltitudine di piranha che sono i ricordi”. Lo inseguono le ombre della sua vita a Phnom Penh- della moglie, delle cognate, dei genitori, del Mekong. Dei due giornali di cui era direttore e che davano lavoro a più di duecento persone. I suoi ricordi iniziano da una misera infanzia, si fermano sull’anno traumatico della morte di John Kennedy, proseguono con la squallida storia del suo matrimonio e giungono al fatidico 1974, quando la Repubblica cambogiana era sull’orlo del collasso- un presidente smidollato, generali che vendevano armi ai Vietcong, soldati che ricattavano i contadini nelle campagne. E le persone fedeli alla Repubblica venivano uccise uno dopo l’altro.
     Il ricordo più doloroso, di quello che è stato decisivo per dare una svolta alla sua vita, è l’ultimo incontro con il ministro suo amico che lo aveva dissuaso dall’abbandonare tutto e andare all’estero- “la Cambogia è la nostra ragione di vita”. Avevano un appuntamento per la sera seguente. L’amico era stato assassinato. Non  non dai Vietcong o dai Khmer rossi, ma dai suoi colleghi del governo. E c’era una cosa che lui, Virak, poteva fare con i suoi giornali. Vendicarsi. Aveva pubblicato tutte le porcherie che aveva taciuto fino ad allora ed era fuggito all’estero. Le conseguenze erano andate oltre a quello che poteva aspettarsi. I Khmer rossi erano avanzati, una “utopia assassina” aveva ridotto la Cambogia in un paese lugubre “dove le case non hanno abitanti, le strade non hanno passanti”.

    La voce del narratore spesso ci infastidisce, una lettrice può trovarla spesso insopportabile. Eppure, quando avvertiamo il dolore filtrare nelle sue parole, la lacerazione della distanza da un paese che muore, sentiamo che questo è un libro necessario, che tutti dobbiamo leggere. Per sapere di più sulla Cambogia di cui abbiamo negli occhi gli splendidi templi di Angkor.

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