Abbiate pazienza, sono in vacanza
Tolkien non era ancora stato tradotto in italiano. L'attore che impersona Frodo sul grande schermo non era ancora nato. Leggevo in inglese "Il signore degli anelli", c'era un temporale, era saltata la luce. Ricordo di avere acceso una candela ed aver proseguito la lettura: per me quell'immagine- io che leggo a lume di candela- è diventata il simbolo della mia passione. Io leggo, sempre, ovunque. E amo parlare di libri, per farli amare dagli altri.
lunedì 24 settembre 2018
venerdì 21 settembre 2018
Simon Sebag Montefiore, “Cieli di fuoco" ed. 2018
Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
seconda guerra mondiale
Simon Sebag Montefiore, “Cieli di fuoco”
Ed.
Corbaccio, pagg. 383, Euro 17,00
Dopo “Sašenka” e “L’amore ai tempi della neve”,
ecco “Cieli di fuoco” a concludere la trilogia di Mosca di Simon Sebag
Montefiore. Una trilogia che è un affresco dell’Unione Sovietica dagli albori
alla fine della seconda guerra mondiale e di cui ogni libro può essere letto
separatamente- solo l’allusione ad alcuni personaggi di cui abbiamo già letto è
il tenue legame dell’uno con l’altro.
Nel 1942 rosseggia di incendi il cielo
sopra l’Unione Sovietica, l’aria riecheggia di spari ed esplosioni mentre
infuria la battaglia per Stalingrado. No, la città che porta il nome del Grande
Padre non può cadere, deve essere difesa fino all’ultimo uomo, non deve finire
in mano ai tedeschi.
Benja
Golden è il protagonista di “Cieli di fuoco”. Ebreo e scrittore, è finito nel
temuto gulag della Kolyma per una delle troppo numerose condanne fasulle,
impartite perché servano di lezione, per seminare il terrore. Se non ci fosse
chi lo aiuta, Benja non sopravvivrebbe alla durezza del lavoro, alla fame, al
gelo della Kolyma. Ed ora si presenta un’insperata via di uscita, una riduzione
della pena. C’è bisogno di uomini per combattere, c’è bisogno di carne da
cannone. Stalin ordina che venga formato un corpo di detenuti da mandare allo
sbaraglio: se spargeranno sangue per la patria, avranno in cambio la libertà.
“Cieli di fuoco” è un romanzo di guerra e
di avventura che si svolge nel brevissimo arco di una settimana o poco più. Benja
Golden e i suoi compagni si trovano presto intrappolati dietro le linee nemiche
e succede di tutto. Cosacchi, partigiani, tedeschi, italiani, traditori,
disertori e doppiogiochisti affollano la scena. Il mite Benja che era certo che
non sarebbe mai stato capace di ammazzare nessuno, si accorge che non può fare
niente di diverso dall’uccidere per non essere ucciso. Si accorge anche che il
bene e il male possono coesistere nella stessa persona, che non ci si può
fidare proprio di nessuno, che un uomo può avere due facce, come il dottore che
gli ha salvato la vita più di una volta e che sembra spinto da puro amore e
altruismo quando fa salire sul suo cavallo la bimba piangente scampata ad un
massacro. E, se è impossibile fare giustizia ai morti negli stermini di massa
(Simon Montefiore non li descrive, ma sappiamo
che di quelli si tratta, quando udiamo le scariche ripetute e ravvicinate,
quando vediamo la terra che sembra muoversi per il ribollire del gas dei
cadaveri), è però possibile almeno vendicare la fine dell’innocenza. In un
certo senso, allora, “Cieli di fuoco” diventa anche un romanzo di crescita
personale, una brutale presa di conoscenza della realtà.
Ci sono anche due storie d’amore nel
romanzo- sono momenti per dimenticare il fuoco della guerra. E sono entrambe
storie destinate a finire male (o quasi). La sedicenne figlia di Stalin si
innamora di uno scrittore sposato e molto più vecchio di lei. Possiamo
indovinare quale sia la reazione di suo padre e che fine faccia l’uomo che ha
osato tanto. E Benja Golden, che aveva amato e perso Sašenka, ha una brevissima storia con
un’infermiera italiana che lo cura quando lui è gravemente ferito e lo aiuta a
fuggire (le scene di sesso in condizioni di estremo pericolo mi sono parse
piuttosto improbabili, a dire il vero).
Si legge bene, “Cieli di fuoco”, anche se
è meno coinvolgente, meno appassionante dei due romanzi precedenti.
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martedì 18 settembre 2018
Maja Lunde, “La storia dell’acqua” ed. 2018
vento del Nord
distopia
Maja Lunde, “La
storia dell’acqua”
Ed. Marsilio, trad. Giovanna Paterniti, pagg. 341, Euro
18,00
2017.
Ringfjorden. Norvegia. “Eccomi di nuovo qui”: Signe, quasi settant’anni, è
tornata a bordo della Blå,
l’imbarcazione che porta il nome del Blåfonna, il Ghiacciaio blu “che un tempo era nostro”. Le navi da
crociera scivolano dentro il fiordo, i turisti ammirano la natura selvaggia e
nessuno sa quanto tutto sia cambiato. Nessuno sa che una volta lì c’erano le
Cascate Sorelle, c’erano le malghe del padre di Magnus, il ragazzo che Signe
amava. Non è rimasto nessun segno del fiume che scorreva lì un tempo. E’ solo
Signe che non si rassegna, che non ha dimenticato, che vuole compiere un’ultima
azione di protesta contro i furti a danno del ghiacciaio.
2041. Nei pressi di Bordeaux, Francia.
David, venticinquenne, è in fuga. Porta per mano la piccola Lou. Scappano dal
fuoco, dalla siccità, dalla fame: nel Sud della Francia non piove da cinque
anni, la terra è spaccata dalla sete, non cresce più niente, le scorte sono
esaurite. Ad un certo punto, girandosi indietro, David non ha più visto la
moglie che lo seguiva con il bimbo di un anno in braccio. David vuole credere
che lei lo raggiungerà nel campo di raccolta che avrebbero dovuto raggiungere
insieme, là dove fa tappa la marea di migranti diretti a Nord, dove piove
ancora.
“La storia dell’acqua”è il secondo romanzo
della tetralogia di Maja Lunde iniziata con “La storia delle api”, ogni libro
un capitolo nero su dove la dissennatezza umana ci sta conducendo, un
allarmante futuro per le prossime generazioni.
La narrativa del presente affonda nel
passato di Signe, ragazzina innamorata dell’aspro paesaggio della Norvegia,
solidale con il padre che si batte per la difesa del fiume senza curarsi delle
accuse di cecità di chi vede l’immediato vantaggio economico nella costruzione
di dighe e condotte. E’ un futuro di solitudine, quello che attende Signe che
adesso, però, nel 2017, salpa dalla Norvegia con un singolare carico a bordo.
Meta: la Francia, dove ora vive Magnus che l’ha ‘tradita’, passando dalla parte
del progresso che implica la scomparsa delle spettacolari Cascate Sorelle. Né
Magnus né Signe possono immaginare che le casse provenienti dai ghiacciai
norvegesi trasportate dalla Blå
saranno un vero e proprio tesoro per chi le ritroverà. Significheranno la vita,
come aveva ostinatamente ripetuto Signe.
Il filone del 2041 ci dà un senso di
angoscia perché ne avvertiamo la minaccia come terribilmente reale. La storia
di David e della sua bambina è ricca di dettagli. David lavorava in un impianto
di dissalazione, avrebbe dovuto decidere prima di lasciare la cittadina in cui
viveva con moglie e bambini. Come tantissimi altri. E’ giovane, non è molto
bravo a fare il padre. E’ bravo a giocare, questo sì, e, dopo che lui e Lou
trovano una barca (come ha fatto ad arrivare lì, dove tutto è secco? David non
può avere memoria del canale navigabile che portava fino al mare), il gioco di
partire e sfidare le onde diventa il preferito della bambina.
Non ci può essere una fine in un romanzo
come “La storia dell’acqua”. L’allarme è stato lanciato, così come ne “La
storia delle api”. A noi lettori batterci come Signe per un futuro diverso da
quello di David che deve sperare che
riprenderà a piovere: potrebbe dire qualcosa di diverso alla sua bambina?
Potrebbe aiutarla altrimenti che non giocando a sentire il rumore della
pioggerellina lieve, a vedere la nebbiolina delle gocce?
Le vicende di David e di Lou ci
appassionano di più di quelle di Signe che sono un poco appesantite
dall’intento di rendere chiaro il tema del romanzo. E tuttavia è un romanzo che
ci tocca nel profondo perché, anche se vorremmo accantonarlo, il problema di
quello che ci aspetta, di come il clima stia cambiando (e sappiamo perché), è
sotto gli occhi di tutti. Non è sufficiente dire ‘una volta non era così’. Come
dice David con voce sognante, “E’ così che era l’aria di casa nostra.” Non ci
si può accontentare di ‘un meglio’ nel tempo passato.
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venerdì 14 settembre 2018
Michael Frank, “I formidabili Frank” ed. 2018
Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
romanzo di formazione
autobiografia
Michael
Frank, “I formidabili Frank”
Ed. Einaudi, trad. F. Aceto,
pagg. 344, Euro 20,00
Frank non era neppure il vero cognome dei
‘formidabili Frank’. Era iniziato come nome d’arte in questa famiglia in cui le
due figure femminili predominanti avevano lo stesso nome e si erano date dei
soprannomi- Huffy la madre Harriet senior e Hank la figlia Harriet junior. E’
tutto speciale, nella famiglia Bergman, alias Frank. Ad iniziare dall’intreccio
di parentele: fratello e sorella Ravetch hanno sposato sorella e fratello
Bergman. Merona Ravetch e Martin Bergman hanno tre bambini- il più grande,
Michael, è la voce narrante nonché l’autore del libro. Irving Ravetch e Hank
non sono riusciti ad avere un figlio e prendono in prestito Michael, ne fanno
un figlio sostituto, gli rovesciano addosso il loro amore che finisce per
diventare opprimente, cercano di plasmarlo ed educarlo a riconoscere il bello
ovunque: sono due sceneggiatori famosi, hanno i mezzi per farlo. E poi ci sono
le due nonne, Huffy e Sylvia, che vivono insieme- Huffy la personalità
dominante, Sylvia remissiva e di certo infelice.
Il tono del libro all’inizio è leggero e
divertente. Michael è un bambino, gli piace essere il prescelto, non gli
importa che i due fratellini non ricevano le attenzioni e i regali di cui la
zia lo ricopre, spia dalla finestra l’arrivo dell’automobile che lo porterà a fare
commissioni insieme a Hank che ama girare per mercatini dell’antiquariato e per
negozi insegnando a Michael quello che è b. (buono) e n.b. (non buono). Poi, a
poco a poco, affiora il risvolto di questa situazione da privilegiato. Se
Michael non se ne rende conto, ci pensano i compagni di scuola a fargli capire
che è diverso dagli altri, tormentandolo, facendogli del male. Quale altro
bambino gira con l’album da disegno sotto il braccio, ha già letto Dickens, sa
chi è Balzac? Il minimo che possano fare è chiamarlo ‘femminuccia’ e ‘frocio’.
La presenza della zia diventa sempre più ingombrante, e non solo nella vita del
bambino. E’ lei che fa e disfa anche in casa di Merona, è lei che sceglie
mobili e quadri e objets. Difficile
sottrarsi al suo dispotismo, anche le vacanze dei Frank sono tutti insieme. E
poi, quando lei chiama, Michael deve accorrere. E’ un personaggio carismatico e
per certi versi affascinante. Ma temibile. Perfino il marito Irving, pur molto
legato a lei, ha bisogno di tirare il fiato ogni tanto, di incontrare un amico da
solo per un Coffee Time. E sia Irving sia Michael soffrono di mali di chiara
origine nervosa- passa tutto se sono per un po’ lontani da Hank.
Merona e Martin Frank |
Irving e Hank |
“La tua vita è una menzogna”, griderà
Michael allo zio, anni dopo. Perché, mentre noi assistiamo alla lotta di
Michael per non restare invischiato nella ragnatela che la zia ha tessuto
intorno a lui, lo zio Irving è già prigioniero- e senza speranza di liberarsi-
incapace di qualunque obiettività nei confronti dei comportamenti della zia.
Che diventa sempre più tirannica, assolutista, egocentrica, assurda e perfino
crudele nelle sue esigenze che sembrano voler essere una prova del suo potere
manipolatorio. E il tono del libro cambia, il libro di ricordi, il romanzo di
formazione si trasforma nella storia dell’evolversi di una malattia nervosa che
si arresta un attimo, con ritrovata ragionevolezza, solo davanti alla morte di
Irving.
“Zia Mame” di Patrick Dennis (1955) è il
precedente più famoso del personaggio della zia che diventa il Pigmalione del
nipote. Tuttavia c’è altro ne “I formidabili Frank” che si definiscono, ad un
certo punto, come “i formidabili pazzamente Frank”. C’è prima di tutto la
spontaneità del racconto di esperienza vissuta in prima persona. E poi il
ritratto di una famiglia che ha una storia difficile alle spalle, il quadro di
un luogo- Los Angeles e Hollywood - e di un ambiente (quello cinematografico)
descritti in maniera spumeggiante. Di certo ricorderemo a lungo l’immagine di
questa donna invincibile che, ormai anziana (101 anni nel 2017), usa la stessa
tattica accattivante, le stesse parole, more
is more, offrendo in regalo un libricino di Shakespeare alla figlia di
Michael.
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martedì 11 settembre 2018
Chen He, “A modo nostro” ed. 2018
Voci da mondi diversi. Cina
cento sfumature di giallo
noir
Chen He, “A modo
nostro”
Ed. Sellerio, trad. Paolo Magagnin, pagg. 345, Euro 16,00
Mai avrebbe immaginato, il camionista Xie
Qing, che sarebbe andato a Parigi. Mai avrebbe immaginato che avrebbe rivisto
la moglie Yang Hong, da cui aveva divorziato tre anni prima, in un
commissariato di Parigi. Morta in un incidente. Era finita fuori strada con la
sua auto, precipitando in un corso d’acqua. Era notte, aveva bevuto (come mai?
Yang Hong non beveva alcolici). Era riuscita a telefonare al numero di
emergenza ma i soccorsi erano arrivati troppo tardi. Aveva anche digitato un
altro numero: chi aveva cercato di contattare? E comunque Xie Qing, arrivato a
Parigi con viaggio pagato per riconoscere il cadavere della moglie, ha uno
sprazzo di furbizia e si rifiuta di firmare frettolosamente. Vuole saperne di
più sulla morte della ex moglie. e chissà che non riesca anche a guadagnare di
più su questa morte.
Inizia così, e seguendo un doppio filone,
la vicenda di questo Candide cinese catapultato da Wenzhou in Cina in un
Occidente di cui ha tanto sentito parlare e in cui fatica a muoversi. E’ il
1993, è da poco che in Cina tira un’altra aria. Nelle due storie noi seguiamo
le peripezie di Xie Qing a Parigi, dove per fortuna è ospite di un amico già
emigrato da qualche anno, e, alternativamente, riviviamo il passato suo e di Yang
Hong, figlia di un quadro che si è suicidato. L’ambiente in cui viveva Yang
Hong, lo stesso in cui si muoveva un’altra ragazzina che era stato il primo
amore di Xie Qing, il fatto che entrambe abitassero nella Residenza 118 con il
suo alone di lusso sconosciuto ai comuni cinesi, affascinava Xie Qing. Anche
lui sarebbe voluto partire per la rieducazione insieme a Yang Hong- si era
dovuto accontentare di aiutarla a salire sull’autobus che la portava lontano.
Il loro era stato un matrimonio destinato a fallire, troppa differenza di
classe sociale anche in un paese che glorificava l’uguaglianza. Non per nulla
Yang Hong non aveva voluto avere figli da Xie Qing. Chi era il padre, allora,
del bambino di un anno che adesso era rimasto affidato ad una gentile coppia
francese?
Mentre cerca di scoprire il mistero della
vita di Yang Hong che abitava in una splendida villa a Parigi, Xie Qing si
lascia a poco a poco coinvolgere in lavori diversi che sono solo in apparenza
onesti. Dalla Francia passerà all’Italia, in Grecia (la vista delle rovine del
Partenone lo lascia perplesso) e infine in Albania per coordinare il traffico
umano dell’immigrazione clandestina. Nel filone che ha Yang Hong come
protagonista seguiamo invece lo sviluppo dei piccoli commerci per cui i cinesi
sono famosi- la vendita di merci contraffatte. Condividiamo lo sconcerto di
Yang Hong quando esperimenta le condizioni lavorative dei cinesi nelle piccole
fabbriche in Francia e sorridiamo insieme a lei quando, diventata venditrice
ambulante sulle spiagge, si stupisce di come gli europei amino passare il tempo
sdraiati a cuocere al sole, senza fare nulla.
Scoprirete da voi come finisce
l’esperienza di due cinesi nel paradiso occidentale. “A modo nostro” è un
romanzo realista, un noir singolare che ci offre una tripla visuale- quella del
nostro mondo visto dall’esterno, da qualcuno che è del tutto digiuno della
nostra cultura e del nostro modo di vivere, quella di una Cina di un passato
travagliato che ormai vive nel ricordo e quella dei cinesi trapiantati in
Occidente, per nulla assimilati, in lotta per sopravvivere ed emergere (che
cosa fanno i principini rossi che sembrano membri di un club esclusivo e che
accolgono a braccia aperte la figlia di un quadro morto suicida?). Il filo
conduttore di tutto resta la corruzione, un’avidità illimitata che si fa strada
incurante dei cadaveri che si lascia alle spalle.
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sabato 8 settembre 2018
Ludmila Ulitskaya, “Il sogno di Jacov” ed. 2018
Voci da mondi diversi. Russia
storia di famiglia
la Storia nel romanzo
Ludmila Ulitskaya, “Il sogno di Jacov”
Ed. La Nave di Teseo, trad. M. De
Michiel, pagg. 606, Euro 20,40
Una cosa è certa: se il nostro mondo
esisterà ancora, se non si verificheranno visioni apocalittiche del futuro, tra
cento anni nessuno dei nostri discendenti troverà pacchetti di lettere scritte
a mano e legate insieme da un nastro. E’ una delle più gravi perdite del nostro
tempo. Ce ne rendiamo conto, una volta di più, leggendo “Il sogno di Jacov”, il
nuovo romanzo di Ludmila Ulitskaja, che inizia proprio così, con Nora che, alla
morte della nonna Marusja, trova un bauletto di vimini con la corrispondenza di
nonno Jacov e nonna Marusja ad iniziare dal 1911. Non sono solo le cimici a
scivolare fuori dal cumulo di carte, quelle sanno di sporcizia e vecchiume,
mentre il passato, la storia d’amore, il quadro dei tempi che furono, rivivono
nelle parole delle lettere, delle cartoline, dei telegrammi, fanno sembrare
attuale quello che non è più, ci fanno riflettere su come sia cambiato anche il
modo di vivere i sentimenti, suscitano nostalgia e rimpianto per un tempo più
lento che lasciava spazio alla lettura, allo studio, alla meditazione. La
faccia politica del passato sembra essere volutamente lasciata nell’ombra, pur
avendo molto peso nella vita dei protagonisti- sono tanti gli anni che Jacov e
Marusja non passano insieme, quando Jacov viene mandato ai lavori da una parte
all’altra dell’Unione Sovietica, fino all’ultima dura esperienza della Siberia,
quando poi, a sua insaputa, Marusja chiede il divorzio da lui. Per motivi di
censura le lettere di Jacov contengono solo allusioni, e inoltre il suo carattere
lo porta a guardare avanti, a sfruttare al massimo le possibilità che ha senza
compiangersi. Mentre il tempo della narrazione slitta verso il presente, altre
guerre rumoreggiano sullo sfondo- il nostro sguardo resta fisso sulla famiglia
di Nora Osetskaya, sulle quattro generazioni che ci portano fino al 2011-
Jacov, il figlio Henrich (che rinnegherà, per paura, il padre),
l’anticonformista Nora e suo figlio Jurik.
“Il sogno di Jacov” è un romanzo corposo,
come da tradizione russa. La trama è fin troppo ricca, troppo dettagliata e, in
certi punti, troppo lenta. Ma il fascino dei personaggi è grande, perché Jacov,
Marusja e Nora hanno tutti qualcosa di straordinario. La forza morale di Jacov
e la sua sete di cultura, le aspirazioni di Marusja all’indipendenza- una
femminista ante-litteram che calca il palcoscenico e non vuole rinunciarci, né
per amore del marito né per l’arrivo di un figlio-, la ribellione di Nora,
innamorata di un geniale regista georgiano, sceneggiatrice, che decide di avere
un figlio con un ex compagno di scuola autistico e con un’intelligenza
matematica fuori dal comune (senza però chiedere se lui sia d’accordo).
Tra
Kiev e Mosca, e poi l’America dove Jurik corre il rischio di perdersi, la
narrativa tiene il passo e acquista vivacità perché si sposta di continuo nel
tempo mentre segue le vicende dei quattro membri della famiglia cambiando il
tono di voce- difficile dire quale di loro ci appassioni di più. Forse Jacov,
perché giganteggia, per quello che ha dovuto sopportare, per la sua coerenza,
per la sua sete di sapere. E’ un romanzo che trabocca di citazioni letterarie,
di nomi di grandi scrittori e non solo romanzieri, di musica e di compositori-
da Rachmaninov ai Beatles su cui si fissa l’interesse di Jurik, bambino
intelligente e strambo quanto il padre. E se c’è una parola che può
sintetizzare questo romanzo della Ulitskaja è ‘passione’- è un recupero
appassionato del passato (la scrittrice si è ispirata alle vere lettere di suo
nonno), un inno appassionato alla vita nel suo scorrere tra asperità e calma
tranquilla.
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mercoledì 5 settembre 2018
Elizabeth Jane Howard, “Cambio di rotta” ed. 2018
Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
love story
romanzo di formazione
Elizabeth Jane Howard, “Cambio di rotta”
Ed. Fazi, trad. M. Francescon,
pagg. 450, Euro 18,50
Un dramma all’inizio del nuovo-vecchio
romanzo di Elizabeth Jane Howard, la scrittrice inglese riscoperta dalla casa
editrice Fazi che finalmente ha i riconoscimenti che merita. “Cambio di rotta”
si apre con il tentativo di suicidio di Gloria, segretaria dello scrittore
Emmanuel Joyce dopo che le è stato detto che non lo accompagnerà a New York. E’
facile per noi sospettare che ci sia altro dietro questo atto estremo-
Elizabeth Jane Howard è bravissima (lo sappiamo) nel costruire atmosfere, nel dire
senza dire, nel farci capire con un’occhiata scambiata dai personaggi, con una
mezza parola. Tanto per cambiare Emmanuel deve averla corteggiata, illusa,
fatta innamorare, forse sedotta. Lillian, la moglie, deve essere abituata a
chiudere gli occhi trincerandosi dietro la sua condizione di perenne ammalata
di cuore perennemente in lutto per la morte della piccola Sarah avvenuta
quattordici anni prima. E il segretario Jimmy, fedele come un cucciolo a
Emmanuel che l’ha tirato fuori da un orfanotrofio, deve aver gestito situazioni
analoghe di ragazze con cuori infranti chissà quante altre volte.
Uscita di scena Gloria, entra sul
palcoscenico una nuova segretaria in questo romanzo che procede alternando le
voci narranti e spostando l’ambientazione dall’Inghilterra all’America e poi
alla Grecia. Si chiama Alberta, è giovanissima. Anzi, non si chiama affatto
Alberta, sono Jimmy ed Emmanuel a cambiarle il nome. Il suo vero nome lo
vedremo in calce alle lettere che scrive a casa e ci sarà un momento in cui le
viene restituito- Emmanuel la chiamerà Sarah quando la vedrà nella luce di una
figlia e potrebbe esserlo, sua figlia, con i quarant’anni di differenza tra di
loro.
Alberta, che sembra uscita da un
romanzo di Jane Austen, o dal “Middlemarch” che sta leggendo (e se Alberta
assomiglia a Dorothea di George Eliot, c’è molto in comune tra Mr. Casaubon e
Mr. Joyce), con la sua faccetta pulita, i vestitini cuciti dalla zia, la sua
innocenza e il pensiero costante rivolto alla sua numerosa famiglia, si
inserisce perfettamente nel piccolo gruppo abituato al lusso e agli ambienti
sfavillanti della gente di teatro. In maniera inspiegabile ne diventa il
centro, il punto di riferimento.
Alberta è di una saggezza commovente e, pur
essendo così giovane (impossibile non sottolineare che si chiama Young di
cognome), ha ben chiaro quello che è giusto e quello che è sbagliato.
Nell’incertezza pensa a suo padre, ministro della Chiesa anglicana, il personaggio
assente ma sempre presente in “Cambio di rotta”. Il padre di Alberta finirà per
influenzare i comportamenti di tutti attraverso i ricordi della figlia. Continuando
ad usare il linguaggio teatrale, più che mai adeguato per questo romanzo che si
svolge nel tempo in cui si fanno provini per l’attrice che deve interpretare una
commedia di Emmanuel, quando il reverendo Young esce per sempre di scena, sarà
Emmanuel- finalmente- ad accollarsi il ruolo di padre che più si addice alla
sua età, abbandonando le sue velleità di conquistatore. E, nelle ore convulse
tra un traghetto e l’altro per arrivare a prendere l’aereo che li riporterà da
Atene in Inghilterra, ci sarà un ‘cambiamento di rotta’ per tutti, una
trasformazione che implica un guardarsi dentro e decidere che è giunto il
momento di cambiare la propria vita. Radicalmente- per Emmanuel, per Lillian,
per Jimmy. Con Alberta (che è tornata ad essere Sarah) inconsapevole, incerta
tra la paura e la fiducia nel futuro.
C’è sempre qualcosa di molto personale che
rende unici i romanzi di Elizabeth Jane Howard- la sua passione per il teatro
che era condivisa da Louisa nella saga dei Cazalet diventa qui quella di
Emmanuel, la sua incresciosa esperienza come oggetto di desiderio da parte del
padre (anche Louisa ne era stata vittima) è qui ombreggiata negli sguardi di
Emmanuel verso Alberta (restiamo con il fiato sospeso per tutto il libro,
temendo che il lupo sbrani l’agnello), la deliziosa voce di Alberta assomiglia
a quella della dolce Clary. La descrizione dei paesaggi, poi, è superlativa,
perfetta come un accompagnamento musicale- un avvio tranquillo nella pace della
verde Inghilterra, frenesia di vita superficiale a New York, l’incanto
dell’isola in Grecia dove la luce del sole mette a nudo la verità di ogni
comportamento.
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sabato 1 settembre 2018
Kamila Shamsie, “Io sono il nemico” ed. 2018
Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
love story
la Storia nel romanzo
Kamila Shamsie, “Io sono il nemico”
Ed. Ponte alle Grazie, trad. pagg.
282, Euro 18,00
Una parola: pietas. Un personaggio mitico: Antigone. Una scultura: la Pietà di Michelangelo, sia quella che
ammiriamo in San Pietro, sia quella, ancora più dolorosamente tragica,
conservata al Castello Sforzesco di Milano. Parola, personaggio e scultura si
rincorrono nella nostra mente quando terminiamo di leggere “Io sono il nemico”,
il romanzo di Kamila Shamsie che ha vinto il “Women’s Prize for Fiction 2018”. Pietas con il significato latino,
l’insieme di doveri verso gli uomini, la scultura di Michelangelo che meglio
esprime lo strazio della morte di una persona amata, l’Antigone della tragedia
di Sofocle che esige la sepoltura del fratello anche se è diventato il nemico
della loro città. Riscrivendo un’ “Antigone” ambientata nei tempi moderni,
Kamila Shamsie testimonia la validità eterna di certi comportamenti e di certi
doveri etici.
Isma, Aneeka e Parvaiz Pasha sono figli di
pakistani trapiantati a Londra, e Londra, insieme a Amherst (Massachussets),
Istanbul, Raqqa (Syria) e Karachi, sono i cinque luoghi- come i cinque atti di
una tragedia- in cui si svolge la trama. I tre Pasha sono orfani, Isma si è
occupata dei gemelli Aneeka e Parvaiz dopo la morte della madre ed ora che sono
grandi ha ripreso gli studi- seguirà i corsi per un dottorato ad Amherst. Il
padre è scomparso presto dalle loro vite- era un terrorista o era un eroe? E
comunque è morto in circostanze misteriose mentre veniva portato nel carcere di
Guantanamo. Ad Amherst Isma conosce per caso Eamonn, figlio del Ministro degli Interni britannico,
un pakistano che ha preso le distanze dall’islam, che ha una moglie irlandese e
ha irlandesizzato il nome arabo del figlio maschio (ricordiamo che, in Sofocle,
il fidanzato di Antigone si chiamava Emone). Questo preludio dell’azione è una
lenta introduzione, come tutti i primi atti. Sappiamo poco di Parvaiz mentre Isma è ad Amherst, soltanto che le due
sorelle non lo vedono da un po’ di tempo. E ‘il primo atto’ termina con Aneeka
che accusa la sorella di essere stata lei a denunciare Parvaiz alla polizia.
Il romanzo di Kamila Shamsie sembra,
dapprima, una doppia storia d’amore, quella, frustrata, di Isma per il
fascinoso e nullafacente Eamonn, e poi quella, trionfante di splendida
giovinezza, della spregiudicata Aneeka (si copre il capo con l’hijab ma non si
fa problemi ad andare a letto con Eamonn appena lo conosce). E potrebbe anche
essere un re-make della storia d’amore di Romeo e Giulietta: come può non
essere contrastato il legame tra la figlia di un terrorista e il figlio del
ministro dell’Interno che intende togliere la cittadinanza britannica a
chiunque abbia a che fare con i jihadisti? Ma: se Aneeka sapeva di chi è figlio
Eamonn, aveva un secondo fine quando lo ha seguito a casa sua? E: che cosa
succederà quando Eamonn saprà che Parvaiz ha inseguito il mito del defunto padre,
eroico combattente? Perché questo è quello che ha fatto Parvaiz, e le pagine in
cui il gemello diciannovenne è al centro della scena sono uno studio delle
tecniche reclutatrici jihadiste, una trappola mistificante e ingannatrice.
Quando il dramma si sarà compiuto, è il
tempo delle scelte. Qual è il dovere primario nei confronti di un morto? Quale
quello nei confronti di chi lo piange? La pietas
è segno di debolezza? Aneeka non ha dubbi, lei sa che cosa fare, madonna
piangente sul corpo del fratello nella bara di ghiaccio. Lei non cederà. Isma è
solidale con la sorella- non accetteranno che si ripeta quello che è successo
al padre, scomparso nel silenzio. Come si comporterà il ministro che ora si
vede attaccato sia dai britannici sia dai musulmani? E il fragile Eamonn
acquista la sua grandezza, diventa un uomo. Troppo tardi, perché questa è una
tragedia e sappiamo come finiscono le tragedie.
Bello, da pensarci sopra, da leggere.
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