Casa Nostra. Qui Italia
romanzo 'romanzo'
il libro ritrovato
Simonetta Agnello Hornby, “La zia marchesa”
Ed. Feltrinelli, pagg. 336, Euro
16,00
Il mio consiglio è di
incominciare a leggere dall’indice “La zia marchesa”, il nuovo romanzo di
Simonetta Agnello Hornby: la ricchezza di questo libro è già lì, e pure il godimento
che aspetta il lettore. Il titolo di ogni capitolo è un proverbio in dialetto
siciliano, seguito da una frase che riassume gli avvenimenti, una sorta di
commentario al detto coloratissimo che lo precede e che ha stabilito
l’atmosfera. Un’altra figura femminile al centro del romanzo, dopo quella della
domestica della famiglia Alfallipe che era la protagonista de “La mennulara”,
il libro d’esordio della scrittrice siciliana: la baronessina Costanza Sufamita,
che diventerà “la zia marchesa” sposando il marchese di Sabbiamena. Quando Costanza
era nata, nel maggio del 1859, secondogenita di Domenico e Caterina, sua madre
non l’aveva voluta vedere. C’erano stati dei bisbigli intorno alla sua nascita-
da dove le venivano quei capelli rossi come il sole a mezzogiorno? Ma il
baronello Domenico li aveva messi a tacere: o non c’era forse il ritratto di
un’antenata con i capelli rossi nel palazzo di Palermo? E lui, alla bimba
diventata donna che gli chiederà il perché di quei capelli, di quella
carnagione bianca con le efelidi che la fanno guardare da tutti come diversa
(“pilu russu, malu pilu”), risponderà che è perché è figlia dell’amore.
Tardi,
molto tardi, Costanza saprà la verità riguardo alla sua nascita e a quella dei
suoi fratelli, mentre il lettore apprende la storia della famiglia Sufamita in
parte dalla voce della balia fedele, Amalia, che si mescola e si sovrappone a
quella di un narratore onnisciente che svela i retroscena del matrimonio tra i
genitori di Costanza che avevano avuto bisogno della dispensa vescovile, in
quanto zio e nipote. Amalia può raccontare le scene di cui è stata testimone,
della bimba che deve proteggere dai maltrattamenti materni e poi della timida
fanciulla che vuole sposare a tutti i costi il marchese Pietro, del matrimonio
non consumato e del tardivo fiorire di Costanza in una bellezza che fa
finalmente innamorare il marito, amore e gelosia, tradimento e orgoglio- e poi
la morte di lui, e di lei, a soli trentasei anni. E’ la scrittrice-narratrice
che, invece, inserisce le storie degli altri membri della famiglia sullo sfondo
di una Sicilia di grandi cambiamenti, perché nel 1860 è sbarcato Garibaldi, nel
1866 c’è la rivolta del Sette e mezzo, i Sufamita acquistano le terre dei
conventi, i mietitori chiedono un aumento per il loro lavoro, e la scena si
sposta di continuo tra la nuda grotta scavata nel costone di marna della
Montagnazza, dove vive Amalia dopo la morte di Costanza, e le ville di campagna
e gli splendidi palazzi di Palermo della famiglia Sufamita. Un colore dominante:
il rosso dei capelli di Costanza, che è il rosso del sole e dei tramonti di
Sicilia, e quello del sangue del fratello di Costanza e dei papaveri
schiacciati nel campo dell’amore.
Stilos ha intervistato Simonetta Agnello
Hornby a Mantova, dove la scrittrice è stata invitata a partecipare al Festival
della Letteratura.
Restiamo di nuovo un poco stupiti, davanti al suo nuovo romanzo, ancora
più siciliano de “La mennulara”, visto che vive e lavora a Londra da così tanti
anni. Ci viene in mente Joyce, che ha continuato a scrivere dell’Irlanda per
tutta la vita, anche se non è più tornato a viverci.
Penso che un essere
umano sia un continuo: ho trascorso i primi 21 anni della mia vita in Sicilia e
poi ho vissuto all’estero. Significa che mi porto sempre dietro me stessa
ovunque io vada. In più ho sempre mantenuto la mia vita siciliana nella mia
vita domestica, i miei figli parlano italiano con accento siciliano, i miei
ricordi della Sicilia sono meglio datati di quelli dei siciliani perché sono
finiti ad un certo punto. E’ come se, essendo io ora “inglese”, mi fossi
raddoppiata invece che dimezzata. La mia identità non ha sospinto indietro la
mia sicilianità: sono come due acque dello stesso fiume, una bianca e una
rossa, ognuna con il suo colore, come il Rio delle Amazzoni.
Qual è l’origine della storia, perché la scelta di una vicenda
ambientata a metà dell’800?
A differenza de “La
mennulara”, quella della zia marchesa è una storia che mi porto dietro da tanto
tempo, da quando avevo 5 anni. D’estate andavo da mia nonna e facevamo visita
alle prozie che abitavano nello stesso palazzo, si chiacchierava, si
spettegolava e, quando c’era una donna brutta, goffa, malvestita, ignorante,
poco sofisticata, rossa, si diceva, “pare la zia marchesa”. Io chiedevo, “chi
è?”, e mi rispondevano, “niente…una che morì tanti anni fa”. Allora chiesi a
mio papà, ero curiosa di sapere chi fosse questa persona di cui le zie
parlavano così male e mio padre mi disse, “le tue prozie dovrebbero benedirla,
perché è morta senza figli e lasciò tutto alla nostra famiglia”. Da allora
avevo dentro di me questo seme di ingiustizia nei riguardi di questa antenata
rossa che avremmo dovuto benedire. Quando avevo 11 o 12 anni, un mio zio mi
suggerì di leggere “Tutte e tre” di Pirandello, “perché è una storia sulla tua
antenata”. Lo lessi e scoprii con orrore che parla della zia marchesa ancora
peggio di come ne parlassero le zie. Mi ha molto disturbato, che questa
poveretta fosse schernita nella letteratura e mal ricordata in famiglia, per
non aver fatto niente di male. Era come un “cutugno” dentro di me. E poi,
quando già avevo finito “La
Mennulara”, il pensiero di lei mi è tornato all’improvviso,
ho chiesto di lei agli anziani cugini di mio padre che di lei non ricordavano
neppure il nome, solo che parlava in siciliano, portava le gonne arricciate in
vita come le contadine, cucinava con le sue mani, mercanteggiava anche con il
pescivendolo. E così la zia marchesa è diventata un personaggio che io ho
inventato, perché le cose che avrei trovato nell’archivio di famiglia sarebbero
state poco piacevoli.
La famiglia, la terra, la “roba”: sono temi classici della letteratura
siciliana.
Credo che siano i temi
classici della letteratura dei paesi poco progrediti, statici, che vivono di
agricoltura. Forse in Europa la
Sicilia è la regione che più si identifica con questa
situazione. Non mi piace quando si dice, “la Sicilia è diversa, la Sicilia è unica”. Non è
vero, nel mondo siamo tutti simili. Per esempio, ho trovato similitudini tra la Sicilia e Trinidad:
entrambe isole, povere, c’è la mentalità di un’isola con tanta gente. La roba,
la famiglia, la terra: quando ci sono questi territori circoscritti, c’è poco
stimolo di cambiamento, c’è povertà, tutto il mondo è paese.
E pure lo splendore e il decadimento di una famiglia sono temi classici
della letteratura siciliana.
E’ vero. Se parliamo
dell’aristocrazia, quella siciliana è stata esautorata dal fatto che la
monarchia da cui l’aristocrazia dipende e si nutre non è stata presente in Sicilia
dagli inizi del ‘700 alla fine del ‘700. Il Re stava a Napoli e non ci
visitava, c’era un vicerè, la
Sicilia viveva offesa e si manteneva solo con la pompa, con
il concetto di se stessa e quei pochi nobili che avevano funzioni a Napoli. I
vicerè erano spesso del continente, perciò o pompa o niente. O bella figura o
niente. Avevamo molti meno stimoli culturali dall’estero che se avessimo avuto
una corte. Ci davano dei titoli per tenerci tranquilli e ci dicevamo da soli
che eravamo importanti.
Nuova è invece la figura femminile di Costanza, insolita donna
siciliana sia per l’aspetto fisico sia per il ruolo che assume.
Quel poco che si sa di
lei basta per farmela amare. E’ una donna considerata brutta e diversa, che ha
subito umiliazioni personali- il marito morto a casa dell’amante- e che è stata
iconoclasta nel suo comportamento, tenendosi il figlio del marito in casa e
invitando l’amante alle esequie, per lasciare però il patrimonio a dei nipoti
sconosciuti. Nella sua domesticità si è espressa e realizzata nei limiti
concessi dal sistema. Ricamava ma anche rammendava, cucinava e amministrava la
sua dote, era ricca ma si vestiva da contadina. Perché era un animo libero e
aveva trovato la felicità a fatica.
Nel suo romanzo si parla di lumache e tartarughe, perché proprio questi
due animali?
Mi piacciono le lumache,
mi piace mangiarle e vederle,
trovo che hanno un’importanza europea. Sono
onnipresenti in tutta la
Sicilia, a Palermo i babbaluci sono un piatto tipico, e però
sono animali che trovo anche a Londra. Cambia tutto ma le lumache rappresentano
una continuità animale naturale. E mi piacciono le tartarughe, ne ho una di 70
anni. Quando ho delle difficoltà nella vita, mi piacerebbe essere una lumaca o
una tartaruga per ritirarmi nel guscio- meglio una tartaruga, una lumaca può
essere calpestata.
E la Montagnazza?
Perché la Montagnazza?
Per far da contrasto con le splendide residenze dei Sufamita?
No, la Montagnazza perché è
un posto bellissimo, sulla costa di Porto Empedocle. E’ una montagna di marna
bianca con delle grotte naturali che una volta erano abitate, e a me piace
molto.
Trovo sempre straordinario l’uso misurato e colorito che fa del
dialetto nei suoi libri. In questo poi ci sono i proverbi all’inizio di ogni
capitolo, una ricchezza di folklore incredibile.
I proverbi per me sono
una fonte di diletto e di conforto, e in più sono l’anima di un popolo. Non so
come mi è venuta l’idea. Forse è iniziata da “Pilu russu, malu pilu”, ho
iniziato con uno e me n’è venuto in mente un altro. Ero convinta che l’editore
me li avrebbe tolti, sono un commento, alcuni sono ironici. Ho scoperto di
avere cinque libri di proverbi in casa e poi, mentre scrivevo, ne ho trovato o
me ne hanno regalato altri.
Ha già in mente un nuovo romanzo?
Sì e sarà un romanzo
inglese, ambientato in Inghilterra e scritto in inglese. Spero che verrà
tradotto in italiano.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos