Abbiate pazienza. Le mie letture proseguono di corsa, ma la scrittura al computer e l'aggiornamento sul blog seguono il passo delle stampelle
Tolkien non era ancora stato tradotto in italiano. L'attore che impersona Frodo sul grande schermo non era ancora nato. Leggevo in inglese "Il signore degli anelli", c'era un temporale, era saltata la luce. Ricordo di avere acceso una candela ed aver proseguito la lettura: per me quell'immagine- io che leggo a lume di candela- è diventata il simbolo della mia passione. Io leggo, sempre, ovunque. E amo parlare di libri, per farli amare dagli altri.
martedì 31 maggio 2016
Incidente
Abbiate pazienza. Le mie letture proseguono di corsa, ma la scrittura al computer e l'aggiornamento sul blog seguono il passo delle stampelle
lunedì 30 maggio 2016
Kate Atkinson, “Un dio in rovina” ed. 2016
Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
la Storia nel romanzo
FRESCO DI LETTURA
Kate Atkinson, “Un dio
in rovina”
Ed.
Nord, trad. Alessandro Storti, pagg. 456, Euro 18,60, Ebook Euro 9,99
E’
Edward Todd il protagonista, il ‘dio in rovina’ del titolo del nuovo romanzo di
Kate Atkinson, l’Icaro che precipita
perché si è avvicinato troppo al sole con le sue ali di cera, il pilota della
RAF uscito in 70 missioni durante la seconda guerra mondiale, rispettato e
ammirato da tutti. In una di quelle fatali lettere che ogni aviere lasciava
nell’armadietto, da essere spedite in caso di non ritorno, un uomo
dell’equipaggio dell’aereo di Teddy scriveva alla fidanzata incinta di chiamare
Edward il bambino che fosse nato, perché il suo comandante era la persona più brava che avesse mai
conosciuto. Eppure, quando Edward/Teddy lo aveva saputo, quando si era
messo a piangere dopo aver comunicato la notizia della morte alla madre e alla
fidanzata del compagno, aveva anche pensato che se il povero Vic fosse vissuto
più a lungo avrebbe di certo conosciuto qualcuno migliore di lui. E’ già tutto
qui, il carattere di questo personaggio, l’uomo
medio buono che non sa di esserlo perché la bontà e la correttezza e
l’onestà sono nella sua natura e non potrebbe essere altrimenti. Forse manca di
fuoco, forse è incapace di grandi passioni, ma l’affidabilità, il senso di sicurezza che emana da lui, il calore dell’affetto con cui sa avvolgere chi gli sta vicino- la
moglie, la figlia Viola, i nipotini, le sorelle, i compagni di volo- valgono
ben di più di qualunque fiammata.
“Un dio in rovina” è un romanzo ambizioso.
E’ un romanzo splendido. C’è dentro
tutta la storia del ‘900 attraverso quattro generazioni di Todd, ma è
soprattutto la seconda guerra mondiale
che interessa la scrittrice- con un’altra prospettiva, con il personaggio di
Ursula, sorella di Teddy, che viveva parecchie vite in mondi paralleli, Kate
Atkinson ne aveva già parlato nel romanzo precedente, “Vita dopo vita”. C’è una
sola vita per Teddy, e appesa a due ali di un bombardiere- si calcola che solo
uno su dieci piloti sia sopravvissuto nel corso della guerra. E la narrativa si
sposta avanti e indietro, a volte si
interrompe in momenti drammatici, quando avvertiamo che stiamo per avere una
rivelazione- come quando Teddy è convinto che la moglie lo tradisca perché non
sa come altrimenti giustificare le menzogne sui suoi allontanamenti da casa, ma
dovremo aspettare parecchio prima di apprendere quella che sospettiamo sia la
verità-,
a volte troviamo frammenti di vita lontani nel tempo- un episodio
dell’infanzia di Teddy, nel 1925-
accostati ad altri di un tempo diverso, il 1980,
ad esempio, con Viola, l’unica figlia di Teddy che è andata a vivere in una
comune, per ritornare poi agli anni di guerra, il 1940, il 1941, fino al
bombardamento di Norimberga nel 1944 quando
la contraerea tedesca decimò le forze alleate, proseguire oltre, mentre il
mondo riacquista i suoi colori con la pace, Teddy si sposa, scrive articoli
sulla natura per un giornale, sta vicino alla moglie fino all’ultimo istante
con un amore che va al di là di qualunque parola. E, sempre a frammenti,
sappiamo della ribellione di Viola (pessima figlia, pessima madre, e meno male
che c’è un nonno che interviene- ma che cosa ha reso così sgradevole Viola?), di
Viola che, a sorpresa, diventa scrittrice, di Teddy che invecchia in un
ricovero per anziani, tra le frasi acide della figlia e quelle amorevoli della
nipote.bombardamento di Amburgo |
La
frammentarietà del tempo permette a Kate Atkinson di svelarci i personaggi
a poco a poco, di costruirli aggiungendo tessera a tessera, colmando gli spazi
vuoti della memoria, facendo balenare un lampo di futuro su cui ritornerà più
avanti, completando il presente dell’azione di Teddy con una rivisitazione di
quanto è successo- non ha mai pensato,
mentre fumo nero e fiamme si alzavano dalle città tedesche, che le vittime
erano anche donne e bambini? Teddy non ha ripensamenti del genere: ha fatto quello che era giusto nel momento in cui lo
faceva, per fermare un Male dilagante, ripromettendosi di dare il meglio di
sé ‘dopo’. Promessa mantenuta.
Non posso dire nulla sulla fine del
romanzo. Tranne che è un colpo di scena
sconvolgente che è difficile accettare.
la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net
sabato 28 maggio 2016
Veit Heinichen, “Nessuno da solo” ed. 2011
Voci da mondi diversi. Area germanica
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Veit Heinichen,
“Nessuno da solo”
Ed. e/o, trad. Silvia Montis, pagg. 369, Euro 18,50
Titolo originale: Keine
Frage des Geschmacks
“Perché si agita tanto, Miriam? Corruzione e potere vanno a braccetto. Ovviamente
il nostro premier è un megalomane, ed è il primo a corrompere se stesso, ma
d’altro canto non c’è nessuno in grado di fermarlo. La sinistra è un
gruppuscolo ormai passato di moda, diviso, sempre impegnato a litigare, che
abolirebbe il popolo seduta stante, tanto ne ha paura. L’opposizione viene
tutt’al più dalle stesse fila della maggioranza e dal Vaticano. E questo non è
normale.”
Un produttore cinematografico tedesco
muore nel mare di Trieste. Era ospite sul lussuoso yacht di un ricco
imprenditore dai molti traffici. Dei sacchi di un caffè che costa più di mille
euro al chilo vengono rubati da un’importante torrefazione. Una parlamentare
inglese riceve per posta delle foto in cui è ritratta insieme ad un aitante
giovane a Grado. Inutile dire che i due non stanno sorseggiando una tazza di
tè: è un ricatto.
“Nessuno da solo”, la trama del nuovo
romanzo di Veit Heinichen, lo scrittore tedesco che da anni vive a Trieste, parte
da questi tre crimini. Il commissario Proteo Laurenti è al centro della scena;
il suo aiuto, la piccola ispettrice calabrese Pina Cardareto, questa volta ha
un ruolo marginale; la segretaria Marietta, di solito così avvenente e
abbigliata in maniera provocante, è stranamente sciatta e svogliata. In
compenso c’è un altro personaggio femminile che attrae la nostra attenzione: la
giornalista etiope Miriam, arrivata da Londra con il pretesto di un servizio su
Trieste come ‘capitale del caffè’, mentre in realtà sta cercando l’uomo che
compare nelle foto roventi insieme alla sua amica a cui ha peraltro suggerito
subito un contrattacco- far divulgare le foto dai giornali dopo averle
‘ritoccate’ e accusare l’italiano di aver eseguito un fotomontaggio. Intanto si
sa come vanno le cose in Italia…
Non è solo una lettura da intrattenimento,
il romanzo di Veit Heinichen. E’ un ritratto tra il sardonico e l’ironico
dell’Italia dei tempi in cui viviamo. Un romanzo graffiante in cui, come in un
gioco di specchi, i comportamenti di chi ci governa vengono riprodotti in più
di un personaggio, gli scandali che occupano le prime pagine dei giornali
affiorano in riferimenti imitativi, lo stesso elemento della trama imperniato
sulle fotografie vere e contraffatte viene usato per mostrare due facce della
stessa medaglia- come l’opinione pubblica possa essere manipolata e
condizionata. L’economia italiana- le ricchezze accumulate con metodi
disinvolti, le truffe e i furti in un paese che, citando un recente intervento
del nostro premier, non è in crisi-,
la corruzione che si dà per scontata, l’assoluta mancanza di morale in ogni
campo: tutto questo è nel mirino dello scrittore tedesco. Non si salva nessuno,
in questo romanzo di Veit Heinichen. Lasciamo da parte i personaggi
direttamente coinvolti nei crimini e osserviamo come è cambiato il commissario protagonista
della serie. Proteo Laurenti aveva già avuto una storia d’amore con il
sostituto procuratore di Pola, ma era una relazione a distanza che non incideva
poi tanto sulla sua vita coniugale. Ora, però, è innamorato del suo medico
curante, una ragazza che ha l’età delle sue figlie. Cerca di evitare di
incontrarla nei luoghi in cui può imbattersi in qualcuno che conosce, ma
Trieste è piccola, il pettegolezzo è sulla bocca di tutti, perfino Marietta,
perfino il vecchio medico legale Galvano lanciano frecciate. E compaiono foto
compromettenti anche di Proteo e della sua fiamma…Ma dopotutto, se ci sono
ragazzine che chiamano ‘papi’ Berlusconi, perché no?
Anche la moglie di Laurenti ha
un’avventura: tutte quelle cene fuori, e la vacanza in mare con le amiche…Altro
che amica a fare lo skipper! Non è finita. La figlia Patrizia amoreggia con un
giovane che non è il padre della sua bambina di quattro mesi…
Quanto alla giornalista etiope
Miriam, il suo personaggio dà allo scrittore la possibilità di introdurre altri
temi di attualità- il razzismo degli italiani che è esploso con l’invasione
degli extracomunitari e l’alterazione del passato coloniale. Perché non è vero
che gli italiani siano sempre stati ‘brava gente’. Non è vero che sia stata una
fortuna per Etiopia e Somalia essere state occupate dagli italiani. E le
repressioni violente, e i gas tossici?
Ogni volta che leggo un romanzo ‘giallo’
di Veit Heinichen mi viene da pensare che sia necessario uno scrittore
straniero per svelare il lato oscuro dell’Italia. Che ci voglia un occhio
esterno per una maggiore obiettività, per un distacco più equo. E apprezzo il
coraggio di Veit Heinichen che sembra avere un atteggiamento del tutto diverso
da Donna Leon, la scrittrice americana che ambienta i suoi romanzi a Venezia e
che ha un protagonista che, per certi versi, assomiglia a Proteo Laurenti.
Donna Leon dice di non volere che i suoi libri siano tradotti in italiano per
timore di offendere il paese che la ospita. Possiamo dubitare, tuttavia, che
abbia timore di esporsi- paura che Veit Heinichen non ha. Non c’è malanimo,
nelle denunce di Heinichen. Piuttosto il dispiacere nel riscontrare gli aspetti
negativi di un paese che- lo avvertiamo- ama e che vorrebbe migliore.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
venerdì 27 maggio 2016
Maggie O’Farrell, “Il tuo posto è qui” ed. 2016
Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
love story
FRESCO DI LETTURA
Maggie O’Farrell, “Il
tuo posto è qui”
Ed.
Guanda, trad. S. De Franco, pagg. 401, Euro 20,00
Quando si legge tanto, si sente il
bisogno di variare il genere di lettura e non c’è niente di meglio che una storia d’amore per ridare colori al
mondo dopo aver terminato un romanzo duro, una storia di crimini che non lascia
spazio a sentimenti che non siano di vendetta o di rivalsa, un romanzo che ha
solo il colore del sangue. Ero pronta a lasciarmi conquistare da Maggie
O’Farrell, pur con la solita punta di ansia che mi coglie quando incomincio un
nuovo libro di un autore che amo- mi deluderà? riuscirà a ‘reggere’ il paragone
con gli altri che ho già letto?
“Il tuo posto è qui” non segue una
cronologia lineare, la storia- o le varie storie- si alterna tra presente e vari strati di passato, per
l’uno o per l’altra dei due protagonisti che si incontrano in una maniera così
casuale che, quando succede nella realtà, si dice ‘come in un romanzo’: ad un
incrocio nel Donegal, la regione più
selvaggia e scarsamente abitata dell’Irlanda.
Claudette e il suo bambino hanno trovato lì ‘santuario’, un rifugio per nascondersi dal mondo,
dalla celebrità che soffocava la vita di Claudette, attrice e regista. Daniel Sullivan, professore di
linguistica di New York, un storia d’amore giovanile terminata drammaticamente
alle spalle, un matrimonio finito male e due figli che l’ex moglie gli
impedisce di vedere. Peccato, perché Daniel è straordinario con i bambini- lo
era con i suoi (il maschietto soffriva di eczema), lo è con il bimbo
balbuziente di Claudette, lo sarà con i due figli che avrà da Claudette. Daniel
è comunque un personaggio straordinario che
amiamo nella sua fallibilità, nella sua onestà con se stesso, nel suo
riconoscere le sue colpe. Quello di Daniel e Claudette è un grande amore, irto di difficoltà perché neppure Claudette ha un
carattere facile, perché il passato ritorna, perché Daniel si deve conquistare
con umiltà la comprensione e il perdono, perché ognuno dei due deve percorrere
un cammino di conoscenza. E’ per quello che la scena del romanzo cambia spesso,
ad un cammino interiore corrisponde-
erraticamente- un cammino in luoghi
diversi. Svezia, India, New York, California, Irlanda, lo spettacolare
Salar de Uyuni in Bolivia, il deserto di sale dove una conoscenza occasionale
suggerisce a Daniel quello che deve fare per riconquistare Claudette. I personaggi
di Maggie O’Farrell ci piacciono perché non
sono perfetti, perché ognuno di loro ha una crepa, l’alcolismo di Daniel,
il tomentoso eczema di Niall, la balbuzie di Ari, perfino l’arrogante sicurezza
di Claudette è un difetto. E allora li sentiamo vicini.Salar de Uyuni |
Non cambiano solo i luoghi ma anche i punti di vista, nel romanzo di Maggie
O’Farrell. Passiamo dall’uno all’altro, di capitolo in capitolo, senza mai
smarrirci o perdere il filo, apprezzando l’umanità
e l’empatia che la scrittrice mostra verso i personaggi, ascoltando le voci
dei bambini, soffrendo con Daniel, sorridendo delle stravaganze di Claudette,
godendo dell’eleganza della scrittura,
del lieve umorismo, della perfezione delle frasi. C’è una lezione finale di
vita che impariamo in questa storia di un amore imperfetto, di due persone che
hanno molto sofferto, che hanno rischiato di soccombere sotto i sensi di colpa,
che hanno lottato per restare a galla, che si separano e tornano insieme perché
solo insieme riescono a dare un senso alla vita. Ed è che “Dobbiamo puntare avanti, smetterla di inseguire quello che non
possiamo avere o abbiamo perduto”.
E
no, il nuovo romanzo di Maggie O’Farrell
non ha deluso le mie aspettative.
la recensione è pubblicata su www.stradanove.net
giovedì 26 maggio 2016
Veit Heinichen, “La calma del più forte” ed. 2009
Voci da mondi diversi. Area germanica
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Veit Heinichen, “La calma del più forte”
Ed. e/o, trad. Silvia Montis,
pagg. 329, Euro 18,00
E’ un vero peccato non poter dire che Veit Heinichen è uno dei migliori
giallisti italiani. Semplicemente perché, nonostante Herr Heinichen viva ormai
da moltissimi anni a Trieste, nonostante che i suoi libri siano tutti
ambientati in questa città, che abbiano a che fare con gli svariati crimini della
società italiana e che i personaggi siano italiani, resta il fatto che Veit
Heinichen è tedesco. Potremmo allora dire che Veit Heinichen è uno dei migliori
scrittori di gialli, o noir che dir si voglia, che hanno a che fare con il
mondo del crimine italiano proprio perché non
è italiano, il che gli facilita un punto di vista più distaccato e obiettivo,
una libertà di affondo senza alcuna remore, un coraggio che non è da tutti nel
fare nomi e nel denunciare traffici eccellenti.
Il nuovo romanzo, “La calma del più
forte”, si apre con una scena insolita che diventerà metaforica per quanto
accadrà più tardi: Pina Cardareto, la piccola ispettrice calabrese di stanza a
Trieste da tre anni, viene aggredita da un pitbull durante il quotidiano
allenamento in bicicletta. Pina zoppicherà per tutta la durata della vicenda;
del cane apprenderemo il nome e la storia in capitoli in corsivo in cui la
finzione narrativa esige che sia lui stesso a raccontare la sua vita da cani. Perché
è lui, il cane Argo, la vittima rappresentativa di tutte le vittime. Argo che
si chiama come il fedele cane che riconosce Ulisse dopo la lunga assenza e che
viene addestrato per diventare un cane da combattimento, dopato, sottoposto ad
un trattamento di una crudeltà indicibile, senza possibilità alcuna di reagire.
Non occorre essere un animalista per indignarsi, per sentirci in qualche modo
tutti colpevoli della sua fine.
E’ il dicembre del 2007, aria di
Natale, aria di bora a Trieste, aria di esultanza perché il 20 di dicembre,
entrando in vigore l’accordo di Schengen, cadranno le frontiere tra Italia e
Slovenia. Ci sono segnali di allarme (e il combattimento illegale dei cani
serve da accompagnamento), manifesti con la scritta ISTRIA LIBERA. DALMAZIA
NOSTRA e- come nelle locandine che appaiono nei film sul Far West, con il volto
del Ricercato di turno- il viso
raffigurato è quello di un uomo d’affari molto noto che viene minacciato di
morte. Nessuno viene mai minacciato di morte per niente: l’affascinante Goran
Newman, che abita poco al di là della frontiera in una splendida casa isolata e
super-sorvegliata, che indossa sempre sottili guanti grigi che si fa arrivare
da Londra, che si fa chiamare Duke come il famoso jazzista, è tra gli
speculatori finanziari che hanno portato avanti la criminosa politica di nuova
colonizzazione di cui il suo stesso figlio lo accusa. La terra sulla costa
croata viene venduta a prezzi irrisori, espropriando legalmente la popolazione
che viene cacciata nell’interno. E lì, in riva al mare, sorgono complessi
alberghieri che favoriranno il turismo, certo, ma com’è che non c’è nessun
comune cittadino croato a trarre profitto da tutto ciò? Mentre scoppiano in
cielo i fuochi d’artificio per festeggiare lo storico evento, solo un orecchio
più fine potrebbe distinguere altri botti…
La piacevolezza dei romanzi di Veit
Heinichen deriva dall’equilibrio tra tensione e placidità e tra pubblico e
privato, il tutto insaporito dal colore locale di ricette e vini e illuminato
dal colore dell’aria della città che una volta era il porto asburgico
sull’Adriatico. Le trame di Veit Heinichen traggono sempre spunto da
avvenimenti veri- scandali, fatti di cronaca, traffici illeciti di ogni tipo-
ed è come se lo scrittore ci costringesse a prendere atto che i crimini di cui
parla si svolgono sotto i nostri occhi, ingenui, incuranti, benpensanti. E
tuttavia il brivido d’indignazione suscitato nel lettore viene volutamente
attenuato (all’italiana?) dall’atmosfera domestica intorno al commissario
Proteo Laurenti, che si preoccupa per il figlio Marco che si fa le canne e per
la figlia prediletta che è incinta, che ha ancora un guizzo di rimpianto per una
storia d’amore extraconiugale ormai finita, che occhieggia sorridendo i bottoni
slacciati della camicetta della segretaria. E poi c’è l’ombrina con tartufo
bianco d’Istria, ci sono le bistecche d’orso (certamente non sono tra i piatti
prediletti da Montalbano), le salsicce di cui arriva il profumo anche al
lettore- ci viene il dubbio che forse Veit Heinichen abbia scelto Trieste come
sua dimora perché è un gourmet.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
mercoledì 25 maggio 2016
Veit Heinichen, “Danza macabra” ed. 2008
Voci da mondi diversi. Area germanica
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Veit Heinichen, “Danza macabra”
Ed. e/o, trad. Maria Paola Romeo
ed Elena Tonazzo, pagg. 296, Euro 17,00
Titolo originale: Totentanz
Accarezzò la canna quasi con
tenerezza, si posizionò sulla piazzola, diede uno sguardo al telemetro e regolò
l’arma. “Questo fucile di precisione cambierà il modo di fare la guerra.
Leggero da trasportare, veloce da montare e rapido da caricare, maneggevole,
preciso e con un silenziatore così potente che sparare fa meno rumore che
stappare una bottiglia di champagne”.
Si legge di volata il quinto episodio della serie che ha per
protagonista il commissario Proteo Laurenti. Il titolo del nuovo romanzo dello
scrittore tedesco Veit Heinichen che vive a Trieste è “Danza macabra” e ben si
addice al balletto di morte delle pagine finali, collegandolo con l’affresco
medievale della chiesetta di Hrastovlje che Laurenti visita all’inizio. Così
come suggestiva è la copertina del libro, con quello che forse è il più famoso
tram d’Italia che si arrampica sulle colline carsiche fino all’abitato di
Opicina- scenario di ben due momenti chiave e mozzafiato del romanzo.
L’avvio della
vicenda è piacevolmente lento e, come negli altri libri della serie, i problemi
personali e famigliari di Proteo si mescolano a quelli del suo lavoro. Il fatto
che la sua amante di oltreconfine, il sostituto procuratore di Pola Živa Ravno,
gli dica, proprio dopo aver visto la “Danza macabra” di Hrastovlje, che ha
deciso di mettere fine alla loro relazione, non mette certamente di buon umore
Proteo Laurenti. Che si trova ad affrontare parecchi casi tutti insieme- e qui
sta, da un certo punto di vista, la parziale debolezza del romanzo. Perché, se
è vero che la quotidianità è sfaccettata, c’è tuttavia rischio di dispersione
nel portare avanti parecchie tracce in un romanzo di indagine poliziesca. E
infatti, anche in “Danza macabra”, ne viene approfondita solo una e la
conclusione ha il sentore di una resa dei conti personale.
C’è la questione
degli immigrati clandestini e del lavoro nero, per cui Laurenti si apposta in
piazza Garibaldi, sorprende un tizio che si sta facendo pagare il pizzo e viene
malmenato da uno scimmione di uomo con l’alito micidiale. C’è un non ben
definito spionaggio industriale nel centro di ricerca scientifico che porta
all’assassinio del custode Damian Babič. C’è il caso della giornalista ridotta
in coma a colpi di stoccafisso (e noi lettori sappiamo di lei molto di più di
quanto pare ne riesca a scoprire Laurenti). Quello di molestie nei confronti
dell’ispettrice Pina Cardareto, piccola di statura, molto ambiziosa, ottima
disegnatrice di fumetti. E infine- riflettori accesi sul caso più importante:
riappaiono in scena i fratelli Drakič ed è subito chiaro che non potranno
restare tutti e tre sul palcoscenico alla fine, Tatjana e Viktor e Proteo.
Ci sono dei criminali che, a meno che non muoiano,
risorgono sempre dalle ceneri. E si sono fatti ancora più scaltri e agguerriti.
Viktor Drakič gestisce i suoi affari da un isolotto al largo della costa
croata, una sorta di Napoleone che trae enormi profitti dal traffico di esseri
umani, droga, armi e (tempismo eccezionale nella scelta dell’argomento da parte
di Veit Heinichen) smaltimento dei rifiuti, tossici e non. Con l’aiuto della
sorella che ha cambiato il nome in Petra Piskera insieme ai connotati fisici
(opera di chirurghi che però non hanno pensato alle impronte digitali) e svolge
ufficialmente funzione di console di un piccolo e sconosciuto stato dell’Europa
dell’Est.
I ballerini della danza della morte sono
dunque i due fratelli e Proteo in quella che diventa, nella seconda parte del
romanzo, una lotta personale supportata da una parte dagli scagnozzi di Viktor
(con un’arma fabbricata in Svizzera di cui ci sono solo tre esemplari e che
permette di colpire l’obiettivo a enorme distanza- altra goccia in questa ricca
trama), e dall’altra dalla minuscola e intraprendente Pina e dal bisbetico ma
sempre efficiente dottor Galvano.
Si trema per la sorte di Proteo, ci si
indigna per il tentato stupro a sua moglie, si ride con Galvano. Si gode, con
un piacere squisito, degli scorci di mare e di vigneti e di altopiano carsico.
Si gustano piatti di pesce e si sorseggia buon vino. E…riuscite a immaginare la
velocità di un’auto in fuga lungo le rotaie del tram che scende da Opicina?
bene, è quella del romanzo.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
lunedì 23 maggio 2016
Peter Terrin, “Montecarlo” ed. 2016
vento del Nord
FRESCO DI LETTURA
Peter Terrin,
“Montecarlo”
Ed.
Iperborea, trad. Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, pagg. 179, Euro 16,00
Il
fuoco non è ancora fuoco. Non proprio. Non può essere ambientato che a
Montecarlo, sul circuito dove si svolgono ogni anno le gare di Formula 1, il romanzo dello scrittore belga di lingua
olandese Peter Terrin che si intitola “Montecarlo”. E le parole con cui
incomincia ci annunciano subito la
tragedia che accadrà. Possiamo solo sperare che, se avviene all’inizio, non
sia fatale- come si costruirebbe un romanzo, altrimenti?
Il piccolo (perché destinato a non essere
conosciuto) eroe della vicenda è un giovane e timido meccanico della Lotus, Jack Preston, con la passione dei motori e
una certa ambizione, nonché capacità, di fare carriera. Fa molto caldo a
Montecarlo, quel maggio 1968. L’aria
è carica di aspettative e di esultanza: la gara, l’eccitazione del rombo dei
bolidi sulla strada, il principe e la principessa di Monaco che sono tra gli
spettatori, l’attrice Deedee, più
attesa, più ricercata con lo sguardo della stessa coppia principesca.
Perché la
principessa ha un impareggiabile fascino regale, ma Deedee! Jack Preston sogna di vedere Deedee da vicino, con
il suo adorabile broncio, i capelli che deve scostare dagli occhi, il corpo da
dea. E la vede. Possibile che Deedee stia guardando proprio lui? che si diriga
verso di lui? No, Deedee sta cercando di evitare i giornalisti per raggiungere
i principi, passandogli accanto. In quel momento la fiammata. Jack Preston agisce di istinto, copre con il suo corpo
la giovane attrice che viene poi trascinata via dalla guardia del corpo. Jack
Preston finisce in ospedale con gravi
ustioni.
Questi sono i fatti- dopo succede
pochissimo, la lunga degenza di Jack, il ritorno in Inghilterra, l’indignazione
nello scoprire come i giornali abbiano scritto dell’incidente (la guardia del
corpo avrebbe salvato l’attrice, Jack Preston non viene neppure citato), l’attesa.
Perché da adesso incomincia la lunga
attesa di Jack Preston per un riconoscimento di quello che ha fatto. Ha
salvato la vita a Deedee, lei lo sa bene, sul suo corpo ci sono le cicatrici
delle ustioni che avrebbero potuto essere sul corpo di lei, è logico aspettarsi
che lei gli scriva, che trovi il modo per ringraziarlo. Lo farà forse
pubblicamente, durante un’apparizione televisiva? Jack, con i sogni di carriera
infranti, vive per quello.
E il romanzo, in maniera incisiva e sottile, esplora
quello spazio indefinito tra realtà e
aspettative, tra realtà e
immaginazione, tra il nostro essere e l’apparire. Quando Jack ritorna a
casa, ad Aldstead, viene accolto come un eroe. Poi una voce maligna avanza un dubbio. E le voci corrono veloci tra
un boccale e l’altro in un pub. Guarda Jack, non guarda Jack, Deedee
(somigliante a Brigitte Bardot, la famosa BB) dallo schermo televisivo? In un
mondo in cui il valore è decretato dalla
fama, Jack Preston vorrebbe la sua parte, per quanto piccola. La moglie, che
ora è più affettuosa che mai, è un debole surrogato per Deedee. Tuttavia,
lentamente e noi lettori non potremmo neppure spiegare come accada, anche noi
siamo contagiati dal dubbio di che
cosa sia avvenuto veramente in quella scena che, come fosse la pellicola di un
film, continua a girare nella mente di Jack Preston. Fino alla fine, inattesa-
oppure no?-, anche questa sfumata ad
arte, anche questa lasciata in parte a noi da ricostruire.
Veloce come un’auto da corsa, profondo con
leggerezza, triste come un sogno
infranto.
domenica 22 maggio 2016
Veit Heinichen, “A ciascuno la sua morte” ed. 2006
Voci da mondi diversi. Area germanica
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Veit Heinichen, “A
ciascuno la sua morte”
Ed. e/o, trad. Valentina Tortelli, pagg. 306, Euro 16,00
“A ciascuno la sua morte” è il
terzo romanzo dello scrittore tedesco Veit Heinichen che vive a Trieste e che
ha creato il personaggio del commissario Proteo Laurenti. Terzo romanzo pubblicato
ma il primo della serie, con la possibilità quindi di sapere di più sulle
origini e sulla vita privata di Proteo, con uno sguardo sul “prima” degli altri
due libri (“I morti del Carso” e “Morte in lista d’attesa”).
Ad iniziare dal suo nome, oggetto di
scherzi da parte del figlio e che però acquista un significato metaforico,
perché il proteus anguinus laurentii
è l’animaletto senza occhi che vive nelle grotte del Carso, come a dire di
Proteo che indaga sotto la superficie azzurrina e sonnolenta di Trieste. Veniamo anche a sapere di come Proteo ha
conosciuto sua moglie, poco dopo essere stato mandato a Trieste dal Sud, lo
seguiamo in una gita a San Daniele per festeggiare gli 80 anni della suocera,
insieme alla madre, arrivata da Salerno e tutta vestita di nero, e ai tre figli.
Perché Proteo Laurenti, a differenza di Montalbano e di altri ispettori del
romanzo poliziesco nostrano, è l’uomo medio italiano, attaccato ai valori
tradizionali, alla famiglia prima di tutto (osserviamo per inciso che è
singolare che l’unico altro commissario sposato e con figli, di cui vediamo
quindi lo sdoppiamento del ruolo, sia il Guido Brunetti di Donna Leon, un’altra
scrittrice straniera che vive in Italia e ambienta tutti i suoi gialli a
Venezia). Proteo reagisce come qualunque padre della sua cultura e della sua
generazione davanti alla notizia che la figlia primogenita concorre per il
titolo di Miss Trieste, rimprovera il figlio che si è dimenticato di rinnovare
l’assicurazione del motorino, resta basito nel vedere la sua foto accanto a una
prostituta sui giornali (brutto colpo, quella foto di sorpresa- chi ci crede
che era un interrogatorio di lavoro?).
Detto questo per caratterizzare il
personaggio di Proteo Laurenti (uno dei più amabili sulla scena letteraria),
c’è qualcos’altro che collega “A ciascuno la sua morte” con gli altri due
romanzi di Veit Heinichen: il tipo di crimini che Laurenti indaga e che hanno
molto a che fare con la locazione geografica della città. Trieste è una città
di confine, crocevia di rotte diverse, con frontiere di terra e di mare: una
volta per Trieste passava il contrabbando di sigarette, o del pescato, più di
recente il commercio di organi (vedi “Morte in lista d’attesa”); in questo
romanzo il problema scottante e molto doloroso è il commercio degli esseri
umani, il traffico dell’immigrazione clandestina, sia di mano d’opera sia di
donne che vengono avviate alla prostituzione.
Proteo Laurenzi (George Goetz) sullo schermo |
La trama gialla del romanzo è agile e
scattante: c’è un morto che il mare restituisce e una coppia di fratello e
sorella slavi che vengono assassinati, ma l’attenzione del lettore è rivolta ad
una rete di crimini più ampia che coinvolge personaggi importanti nel mondo
dell’economia e della politica. E ad una cittadina dal nobile passato, che
Heinichen ci restituisce con i suoi colori, il profumo del mare, i caffè
all’aperto sulla famosa Piazza dell’Unità, le strade che si arrampicano sul
Carso, con l’affetto sincero di chi si sente del posto.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
sabato 21 maggio 2016
Gina Nahai, “La strega nera di Teheran” ed. 2016
Diaspora ebraica
FRESCO DI LETTURA
Gina Nahai, “La strega nera di Teheran”
Ed. e/o, trad. De Caro, pagg.
529, Euro 16,58
Los
Angeles, aprile 2013. Il Figlio di
Raphael viene trovato morto, dentro la sua automobile, davanti ai cancelli
della grandiosa villa. E’ stato sgozzato. Quando arriva la polizia, però, non
c’è nessun cadavere. Scomparso. Una
finta morte per sottrarsi ai creditori? Oppure? La moglie non sembra essere
troppo sconvolta da quanto è successo.
Incomincia così, come se fosse un thriller,
il romanzo “La strega nera di Teheran” della scrittrice ebrea iraniana che vive
in America dal 1977. E c’è, sì, un
filone thriller, con un investigatore a cui è stata affidata l’indagine
perché è pure lui, come l’uomo assassinato, un ebreo iraniano, capace di
comprendere meglio, dunque, una cultura e un ambiente così diversi da quelli
americani. Così come c’è un filone di
realismo magico che deve essere accettato così com’è, quasi che parti della
vicenda fossero storie raccontate da una moderna Sheherazade- e sono tante le
storie che si accavallano l’una sull’altra, e tanti i personaggi, anche se al
centro c’è la famiglia Soleyman, da
cui ha inizio tutto.
A Teheran,
ai tempi dello Shah, i Soleyman erano una delle famiglie più ricche del paese.
Il primogenito Raphael aveva una singolarità- emanava una luce dall’interno,
era come incandescente. Come aveva
fatto a legarsi alla donna che verrà sempre chiamata ‘la strega di Bushir’ o ‘la strega nera’? Ignorante e rozza, più
vecchia di lui, brutta. Però lei lo aveva curato fino alla morte e dopo, quando
la famiglia pensava di potersene sbarazzare, aveva annunciato di essere
incinta: avrebbe dato un erede ai Soleyman.
Ma se non aveva più l’età per concepire un figlio! Dove era andata a prendere
quel bambino nato dopo tredici mesi di gravidanza che non avrà altro nome,
neppure all’anagrafe, che Figlio di Raphael? Per difendere i diritti di questo
figlio bastardo la strega di Bushir impiegherà tutti i suoi malefici, scatenando misteriose forze
della natura per vendicarsi, prima contro coloro che erano andati ad abitare in
quella che era stata la sua casa, poi contro Aaron, il fratello di Raphael, e
infine contro la moglie e le figlie di Aaron.
Ma intanto è cambiato tutto in
Iran, e la strega non se n’è accorta. Lo Shah è dovuto fuggire, è tornato l’Ayatollah Khomeini, i fondamentalisti barbuti imperversano,
quelli che restano dei Soleyman (soltanto la moglie e una figlia di Aaron)
riescono a comprare la via della fuga attraverso la Turchia. Pure il Figlio di
Raphael, dopo aver tentato di salvarsi con la conversione all’islam, arriva a
Los Angeles. E’ veramente un ‘figlio di puttana’ che merita la fine che fa,
questo Figlio di Raphael. Possiamo concedergli l’attenuante delle sofferenze
dovute al ridicolo di cui è sempre stato vittima e alla condizione di figlio
non riconosciuto, ma di certo è un genio
della truffa. Ed erano tanti quelli a cui aveva fatto del male e che lo
odiavano.
Nel confronto costante tra i due mondi,
America ed Iran, è l’America a perdere.
L’America, con tutte le sue straordinarie potenzialità, con il suo liberalismo,
con il sistema economico basato sul credito, offre eccezionali possibilità a
chi ha l’arte di raggirare le persone a suo vantaggio.
L’aberoo, quella qualità su cui si insiste tanto, la rispettabilità su cui si basa la dignità
dell’uomo in Iran, non esiste in America. Tutta la narrativa centrale del
romanzo, con le difficoltà- o forse il rifiuto- degli ebrei iraniani non di
integrarsi ma di assimilarsi con gli abitanti del posto, è molto bella. Così
come è bello il personaggio di John Vain,
l’esatto opposto del Figlio di Raphael, l’uomo che aiuta tutti gli iraniani
immigrati, prestando e spendendo anche i soldi che non ha. E non esiste
giustizia se John Vain finisce in prigione mentre il Figlio di Raphael si
compra sempre la libertà. Di proseguire a truffare.
Los Angeles- Rodeo Drive |
E’ un romanzo che conquista il lettore a
poco a poco, “La strega nera di Teheran”. Può infastidire quando la narrativa
mette alla prova la nostra credulità ma, nello stesso tempo, incuriosisce e affascina con il contrasto
fra due culture e, nei tempi di continui flussi di migranti in cui viviamo,
apre uno squarcio su una migrazione
elitaria che tuttavia è (non lasciamoci fuorviare) altrettanto dolorosa,
forse solo un poco meno problematica, di quella dei poveracci che sbarcano
sulle nostre coste.
giovedì 19 maggio 2016
Veit Heinichen, “Morte in lista d’attesa” ed. 2004
Voci da mondi diversi. Area germanica
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Veit Heinichen, “Morte in lista d’attesa”
In “Morte in lista d’attesa”, dello scrittore tedesco Veit
Heinichen, ritroviamo Proteo Laurenti, il commissario che abbiamo già
conosciuto in “Morte sul Carso”, dello stesso autore. Giorni di grande
eccitazione a Trieste: è atteso Berlusconi che deve incontrare il cancelliere
tedesco, chiacchiere e brontolii in dialetto in piazza per gli ennesimi
cambiamenti che dovrebbero abbellire la città, tutta la polizia è mobilitata
per la sicurezza del percorso del “grande Timoniere”. Ed è già chiaro il tono
dello scrittore che non esagera mai, in qualità di ospite a Trieste, nella sua
ironia fine- com’è chiaro pure, in entrambi i suoi libri, come si trovi bene in
Italia e come sia capace di apprezzarne le qualità, oltre a vederne i difetti.
Corteo di macchine, dunque, e un incidente che non si può evitare. Viene
investito un uomo che indossa solo un camice d’ospedale, non ha documenti.
Inizia così un romanzo poliziesco che ci svela una realtà nascosta e che si
preferisce ignorare: quella delle cliniche di lusso che in apparenza svolgono
interventi di chirurgia estetica, ma ricavano i maggiori introiti dai trapianti
d’organi. Basta pagare e un ammalato grave può venire operato e rimesso in
sesto in tempi brevissimi. I donatori? I poveracci dei paesi dell’Est europeo
per lo più, allettati da cifre irrisorie ma superiori al loro guadagno annuo,
ingannati da promesse sull’assoluta assenza di pericolo di quanto si accingono
a fare- se poi invece di un rene ne servono due, o magari serve anche la
vescica perché è meglio per il paziente, be’, non è difficile sbarazzarsi di un
cadavere che difficilmente verrà reclamato. Però succede, ogni tanto.
Così il
giornalista svizzero Ramses Frei, che non si sa rassegnare alla morte della sua
compagna il cui corpo è stato rimpatriato da Malta svuotato degli organi
interni. O il fratello del morto investito. E ci saranno due uomini che
indagano insieme a Proteo Laurenti (a sua insaputa e con intenti diversi) sui
traffici della clinica sul Carso- così famosa che circolano voci che Michael
Jackson stia per venire lì a farsi operare. Uno dei medici viene trovato in fin
di vita, castrato. Laurenti spara e uccide il guidatore di un camion che
irrompe nel cimitero nel tentativo di fare una strage di medici. Due le persone
che si sono macchiate di sangue apertamente, quindi: andrà a loro il rimorso e
la condanna, quando c’è tutto un sistema che lucra sugli omicidî programmati?
Proteo Laurenti sullo schermo |
Questo il problema di fondo di un romanzo che aggiunge altri dettagli
caratterizzanti il personaggio di Laurenti: ha fatto uno scambio di casa con il
vecchio dottor Galvano e viene sospettato di truffa, prosegue la sua avventura
extraconiugale al di là del confine, adotta un vecchio cane poliziotto che
verrà ferito nella sparatoria. Sullo sfondo, Trieste- città di confine che è
nata dall’immigrazione e che deve fronteggiare di continuo tutti i problemi
connessi con il flusso immigratorio, testa di ponte dell’Italia verso l’Oriente
e nostalgica del passato asburgico, tra il brullo altipiano del Carso con le
sue vie dei vini e il mare scintillante che Proteo ammira dal “Faro”, il suo
ristorante preferito.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove. net
mercoledì 18 maggio 2016
Simone Sarasso, “Da dove vengo io” ed. 2016
Casa Nostra. Qui Italia
noir
FRESCO DI LETTURA
Simone Sarasso, “Da dove
vengo io”
Ed.
Marsilio, pagg. 612, Euro 19,50
Francesco Castiglia (diventerà Frank Costello). Salvatore Lucania
(diventerà Charlie Luciano. Perché
Charlie? Perché suona bene). Meyer
Lansky (del tutto impronunciabile il suo cognome polacco, omettiamolo
subito). Benjamin “Bugsy” Siegel.
Sono poco più che bambini quando li conosciamo all’inizio del nuovo romanzo “Da
dove vengo io” di Simone Sarasso, il primo volume di una serie di nove in cui lo scrittore vuole
raccontare cent’anni di malaffare a New
York, dal 1901 al 2001. Sono italiani che sono salpati per il viaggio della
speranza dalla Sicilia e dalla Calabria. Sono ebrei in fuga dai pogrom in
Polonia. Gli italiani neppure sanno come si scrive, ‘America’.
Per loro resta a
lungo ‘la Merica’. E per i genitori di Frank e di Salvatore/Charlie l’inglese
non sostituirà mai il dialetto, impareranno solo a dire alcune parole, quelle
necessarie. Abitano tutti nel Lower East
Side, un quartiere povero: ma dov’è tutta la meraviglia, dov’è tutto l’oro, che
cosa c’è di così diverso dalla vita che avevano prima, al paese? Valeva la pena
di affrontare l’ignoto e lasciarsi dietro un pezzo di cuore? E’ da questa delusione, dall’ abbrutimento
della miseria che spuntano altri sogni, che si mette a frutto l’arte di
arrangiarsi. E, nel grande calderone che è l’America, vale la pena che i
mangiaspaghetti e gli ebrei si schierino sullo stesso fronte contro i ‘mick’,
gli irlandesi rissosi quanto gli italiani che però hanno il vantaggio della
familiarità con la lingua, pur con accento diverso.
Frank Costello |
Ha un ritmo
serratissimo, “Da dove vengo io”, più di qualunque thriller. Incalzante e veloce. Uno stile fatto di
frasi secche come un colpo di
pistola, aguzze come pugnalate. E si spara molto, si usa molto il coltello- e
non solo queste armi, anche delle spranghe vanno bene- nel romanzo di Sarasso. Da
quando i quattro ragazzi si affacciano sul mondo dell’illegalità, tutto avviene
in un lento crescendo. Gioco d’azzardo.
Sfruttamento della prostituzione. Strozzinaggio. Imposizione di un ‘pizzo’
da pagare per avere protezione. Passa il Volstead Act nel 1919 ed è un colpo di
fortuna: importazione di whisky di
contrabbando, allestimento di una vera e propria flotta, apertura degli speakeasy, i locali dove si possono
consumare alcolici perché i soldi aprono tutte le porte (nessuno sa niente,
tutti sanno tutto). E poi droga, un
colpo di fortuna ancora più grande. I ragazzi imparano velocemente, imparano a
vestirsi, a presentarsi in un’altra maniera come avessero una verniciatura di bon ton. Imparano anche a lasciarsi
cadaveri alle spalle senza pensarci su due volte. E’ una mattanza a New York,
ma anche a Chicago dove regna Al Capone.
Bugsy Siegel |
Succede tanto, anzi, tantissimo, nelle seicento
pagine di “Da dove vengo io”. Succede così in fretta che ci stupiamo quando,
verso la fine, leggiamo che il bel Bugsy Siegel ha solo diciassette anni. E’ un
susseguirsi tumultuoso di idee
brillanti ed astute tutte volte ad un solo scopo, arricchirsi. Bando a
qualunque scrupolo o rimorso.
Meyer Lansky |
Questo non è un mondo
per chi tentenna.
Spietatezza è la parola d’ordine. Se qualcuno è di intralcio, se qualcuno si
azzarda anche solo a segnalare con un bisbiglio un colpevole, bene, costui deve
essere eliminato. Tolto di mezzo. Fatto scomparire. Ridotto al silenzio.
Servirà di lezione per tutti.
Questo non è un mondo
per i sentimenti. Ne
resta un briciolo per ‘la mamma’- si sa che le mamme italiane ed ebree hanno un
attaccamento speciale per i figli maschi. Ma anche le mamme devono sapere
quando tacere. Frank si innamora e si sposa- la sua è la favola della bella e
il bandito, ma quanto sa veramente la bionda Bobbie? Quanto non vuole sapere?
Lucky Luciano |
Questo non è un romanzo
per chi è debole di stomaco.
E’ un libro duro, non potrebbe essere altrimenti. E’ un libro di carne e di
sangue, di ingiurie, abbrutimento e parole sporche. E’ un libro in cui i
personaggi neppure sanno il significato della parola ‘etica’. In cui il Male
diventa sistema di vita trascinando tutti in un gorgo.