Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
il libro ritrovato
Jonathan Coe, “Circolo chiuso”
Ed. Feltrinelli, trad. Delfina
Vezzoli, pagg. 397, Euro 16,00
Gli stessi personaggi de “La
banda dei brocchi”, solo che allora erano gli anni ‘70, erano giovani, l’età
della scuola, dei primi amori, delle bombe dell’IRA e degli scioperi compatti,
adesso è l’inizio del nuovo millennio, alcuni di loro hanno ottenuto quello che
volevano, altri no. Benjamin Trotter sta sempre scrivendo il libro che nessuno
ha mai letto, suo fratello Paul è il più giovane parlamentare laburista, Claire
ha sposato Philip Chase e si è separata da lui, Doug Anderton è un giornalista
impegnato. Le vicende personali, matrimoni che si sciolgono, vecchi amori che
riappaiono, la soluzione del mistero della scomparsa della sorella di Claire,
si srotolano parallelamente ai cambiamenti sulla scena politica, con gli operai
che protestano per la minacciata chiusura di una fabbrica e il governo che vota
per l’intervento in Iraq. Alla fine il circolo si chiude, si concludono le
storie iniziate nel romanzo precedente e anche il neolaburismo del governo
Blair sembra riconnettersi alle posizioni della Lady di Ferro.
INTERVISTA A JONATHAN COE, autore di “Circolo chiuso”
Quando era stato pubblicato, nel
1994, “La famiglia Winshaw” dello scrittore inglese Jonathan Coe, ci aveva
colpito la forza dell’ironia selvaggia, quasi swiftiana, con cui il giovane
autore sferzava la società britannica. Era un romanzo che offriva vari livelli
di lettura in una geniale commistione di generi- pamphlet politico, romanzo nel
romanzo, satira sociale, thriller-, condannando i personaggi, colpevoli di
crimini contro la società per cupidigia personale, a pene del contrappasso
dantesche. Più pacato il tono ne “La banda dei brocchi”, quasi rassegnato in
uno sconforto deluso in “Circolo chiuso”. “Circolo Chiuso” non è solo il nome
di un club esclusivo, o la chiusura narrativa delle storie iniziate nel romanzo
precedente, ma è anche e soprattutto il cerchio che si chiude di un’ideologia
politica, quella laburista, che non si sviluppa in una linea divergente da
quella del governo conservatore, ma vi si ricollega nel segno dell’ambiguità.
L’ambiguità su cui è imperniato il personaggio di Paul Trotter che non dice mai
chiaramente quello che pensa, che è il maestro delle frasi che possono essere
rigirate e interpretate in maniere opposte. Sempre timoroso di inimicarsi il
“Tony” di cui tutti parlano.
E così vota per la guerra in Iraq, e non ha il
coraggio di farsi vedere alla manifestazione degli operai della Rover, anche se
è nella contea che lo ha eletto. E neppure, almeno fino alla fine, di lasciare
la moglie che tradisce, per non rovinare la sua immagine. Quello che è chiaro
nei personaggi di “Circolo chiuso”, e che Jonathan Coe riesce ad esprimere con
la leggerezza dell’humour britannico, è che qualunque scelta personale è una
scelta politica e le storie di ognuno hanno sempre un risvolto politico
qualunque sia l’ambiente in cui si svolgono, o le competenze di lavoro di
ognuno.
“Sono passati vent’anni e sotto sotto non è
cambiato niente. Non cambia mai niente”, dice uno dei protagonisti riferendosi
alla vita sentimentale di Benjamin, ma, nel contempo, a tutta la realtà che lo
circonda. Dopo che il Duemila era iniziato senza grandi scosse, senza il temuto
Millennium Bug, un altro personaggio aveva detto, “a me sembra tutto uguale a
prima”. Perché quello che si avverte è che è tutto un gigantesco gioco di
apparenze- come l’enorme ruota del Mondo Nuovo eretta di fronte al Palazzo del
Parlamento simbolo del passato-, che la gente crede di aver votato un partito
di sinistra, e invece “hanno votato per altri cinque anni di thatcherismo, se
non dieci, o quindici addirittura”. Tony Blair è al suo terzo mandato: ci siamo
quasi. Stilos ha intervistato Jonathan Coe.
Non ho iniziato “Circolo
chiuso” con la scena del ristorante con cui termina “La banda dei brocchi”
proprio perché questo romanzo è una continuazione del primo, i due libri
insieme sono come una singola entità. Avevo pensato ad un dialogo per iniziare,
poi non mi sembrava necessario, volevo semplicemente proseguire con le storie
incominciate. E non è la prima volta che uso un modello circolare. Già ne “La
famiglia Winshaw” finivo con la stessa frase con cui iniziavo- sono portato al
cerchio come forma strutturale. Era da almeno quindici anni che avevo in mente
questi romanzi. All’inizio pensavo di scrivere una serie di romanzi, forse sei,
e l’idea era che le storie sarebbero state raccontate da due personaggi in un
ristorante girevole. Perché mi trovavo a Singapore nel 1991 in uno di questi
ristoranti e fu allora che decisi che avrei iniziato così la serie e l’avrei
terminata in “Circolo chiuso” e avrebbe coperto le varie fasi della vita dei
personaggi. Mi piaceva l’idea allusiva del ristorante che gira in cerchio e
domina il panorama. Poi, mentre scrivevo, i romanzi sono diventati due, il
primo e l’ultimo in pratica, tralasciando quelli di mezzo. Sarebbero mancati
gli anni ‘80 e gli anni ‘90 della vita dei personaggi che avrebbero dovuto
essere immaginati dai lettori.
“La famiglia Winshaw”, ambientato negli anni ‘80, è molto diverso
dagli altri due romanzi. C’è un’ironia selvaggia ne “La famiglia Winshaw”:
erano i tempi che la richiedevano, o è lei che ha vissuto quegli anni in
maniera più intensa o è un cambiamento che è sopravvenuto in lei?
Per tutti questi
motivi, ma prima bisogna forse rettificare che non si tratta di una trilogia,
proprio perché “La famiglia Winshaw” è del tutto diverso. Penso che per me gli
anni ‘80 siano stati un periodo meno complesso degli anni ‘70 e del tempo
presente.
L’ideologia politica di allora, l’inizio del thatcherismo, segnava
anche l’inizio dell’età dell’individuo, mentre negli anni ‘70 l’Inghilterra
lottava per l’ultimo tentativo di costruire una società basata su principi di
giustizia sociale, in contrasto con le crescenti energie del thatcherismo. Ho
scritto degli anni ‘70 come di un decennio che ho goduto da adolescente, quando
era possibile credere in degli ideali a cui mi sentivo vicino. Invece la mia
risposta agli anni ‘80 era la rabbia e la frustrazione perché la società stava
andando in una direzione che non era quella che volevo. E’ per spiegare tutto
questo che il tono è fortemente polemico e satirico ne “La famiglia Winshaw”.
Il titolo “Circolo chiuso” suggerisce parecchie idee- il riferimento
più ovvio è al nome del club, il più sottile è che, politicamente, ci si trovi in
un “cul de sac”: era questo che aveva in mente?
Il titolo mi piace perché
ha parecchi significati. Un’idea è che le due ali politiche, la destra e la
sinistra, hanno compiuto un viaggio con una lunga digressione e poi si
incontrano: hanno percorso come un cerchio. E poi si riferisce ai personaggi:
sembra che abbiano fatto molta strada ma in realtà finiscono per tornare al
punto di partenza. Infine anche il mio viaggio come scrittore è terminato,
almeno per quello che riguarda questa sequenza di romanzi. Insieme a “La
famiglia Winshaw”, hanno in comune una prospettiva panoramica, contengono
elementi della tragedia e della commedia, sono un affresco sociale. Con
“Circolo chiuso” sono andato anche il più lontano possibile e per me, come
scrittore, quel viaggio è chiuso.
Due personaggi sono giornalisti: che opinione ha della stampa in Gran
Bretagna? Quanta libertà d’espressione c’è? Perché Doug viene allontanato dal
suo incarico per coprire le pagine di letteratura, più innocue.
Non c’è un’aperta censura,
non c’è una chiara censura politica, la stampa è libera, ma il mercato libero
impone ugualmente una censura, perché se c’è la competitività la stampa deve
attrarre i lettori, e i lettori non vogliono leggere di difficili verità
politiche, preferiscono gli articoli di giornalismo inchiesta. C’è sempre meno
spazio per il giornalismo impegnato come quello di Doug, ce n’è sempre di più
per cronache mondane, pettegolezzi. Ma penso che fare il giornalista sia uno
dei lavori più importanti in una democrazia: ci deve essere qualcuno a
monitorare quello che sta succedendo.
E’ stato un espediente letterario interessante far tornare Claire
dall’Italia, all’inizio del libro, in modo che osservasse i cambiamenti che ci
sono stati in Inghilterra negli anni trascorsi tra i due romanzi. Claire è
seccata dai comportamenti nuovi che vede, mentre trovava naturali gli stessi
comportamenti in Italia: non è un poco ingiusto questo paragone?
Claire è seccata dalla
nuova guida “sportiva” degli inglesi, dall’uso continuo dei telefonini: è
scontato che gli italiani guidino come dei pazzi, urlino gli uni contro gli
altri. Sono dei clichè inglesi sugli italiani, ma accettiamo che gli italiani
siano così, per noi è una conseguenza naturale del loro essere appassionati e
pieni di vitalità. Gli inglesi sono cauti e tranquilli, perciò quando la gente
guida in maniera aggressiva in Inghilterra, c’è più pericolo. Claire pensa che
in Inghilterra lo stesso comportamento significa qualcosa d’altro da quello che
significa in Italia. E così per i telefonini: si sa che gli italiani sono
chiacchieroni, che comunicano tanto tra di loro. Gli inglesi sono riservati, si
tengono i pensieri per sé, e allora ci si domanda, ‘ma che cosa hanno da dirsi?
Perché adesso si parlano e prima no?’.
Ne “La banda dei brocchi” diceva che il colore degli anni ‘70 era il
marrone: quale sarebbe per lei il colore degli anni che stiamo vivendo?
Il bianco è il primo
colore che mi viene in mente, un bianco lucido, il colore degli iPod che adesso
tutti hanno in Inghilterra, come uno status symbol. Un non colore perché i
nostri tempi non sembrano avere un loro proprio carattere come invece lo
avevano gli anni ‘70.
Sempre ne “La banda dei brocchi” faceva dire ad uno dei personaggi, un
gallese, che gli inglesi sono una nazione di “macellai e vagabondi”: non è
un’accusa piuttosto pesante?
Sì, molto pesante, ma
qualunque scozzese, irlandese o gallese sarebbe d’accordo e direbbe così.
Quello che è importante, però, è la maniera in cui Benjamin risponde: non nega,
non acconsente, ma dice: “E’ un punto di vista”. Questa è la maniera inglese di
reagire ad un’accusa. La respinge in un modo garbato e questa è una delle forze
dell’establishment britannico: considerare ogni punto di vista, non prendere
niente di petto, non affrontare niente in maniera drastica.
Qual è il suo personaggio preferito nel romanzo?
Claire. Perché è forte,
indipendente, coraggiosa, ha senso dell’umorismo, vede le cose più chiaramente
degli altri, come dice il suo stesso nome. Mi piace anche Philip, la voce della
ragione. A differenza di Doug, non ha grandi ambizioni come giornalista e
neppure aspira a grandi case a Londra. E’ contento del giornale locale per cui
lavora, Philip è un uomo “rispettabile”, una qualità difficile di cui scrivere.
E c’è qualche personaggio che ha avuto un’evoluzione indipendente,
diversa da quella che lei aveva in mente per lui?
Sì, il personaggio di
Paul Trotter: sapevo l’inizio della sua storia ma non ne sapevo la fine. Mi è
stato detto da dei lettori che hanno trovato terribile il momento in cui Paul
ha come una rivelazione di che cosa debba votare e vota per la guerra in Iraq,
anche se era contrario, e lo fa perché in questa maniera potrà avere per sé
l’appartamento in cui incontra la sua amante, dato che il proprietario verrà
inviato a coprire la guerra. Invece è il momento che lo redime, che lo rende
umano, prima era un robot al servizio del partito. La personalità di Paul non
cambia nel corso del tempo, accenna a cambiare solo alla fine. Ma, dopo tutto, nessuno
cambia mai veramente, siamo tutti chiusi in modelli di comportamento ed è
quello che viene dimostrato nei miei libri.
Paul Trotter è estremamente consapevole della sua immagine pubblica:
fin dai tempi dello scandalo Profumo, penso che non ci sia nessun altro paese,
tranne forse l’America, in cui ci sia un rapporto così stretto tra vita privata
e vita pubblica.
E’ qualcosa di molto
difficile da capire per gli italiani e i francesi, il fatto che gli uomini
politici vengano giudicati per la loro vita privata. Possono comportarsi male,
possono non mantenere le promesse fatte agli elettori, essere coinvolti in
scandali finanziari, ma hanno la carriera rovinata se vengono sorpresi in una
relazione sentimentale “illecita”. In realtà è un atteggiamento molto ipocrita,
perché la vita dei giornalisti che riferiscono questi scandali non è certo
esemplare. C’è una doppia morale. In Inghilterra siamo convinti di avere un
alto standard nella vita privata. La politica inglese non è corrotta come
quella italiana: è raro trovare un politico che accetti delle tangenti o che si
associ con dei criminali. E allora dobbiamo trovare un’altra maniera per
distruggere un personaggio politico. Quello che è interessante è osservare
quanto sia stretto il rapporto tra il potere e l’attrazione sessuale, e
invariabilmente questi legami coinvolgono uomini politici fisicamente brutti e
donne molto belle. I lettori si domandano, ‘ma perché questa donna va a letto
con uno così?’. Ma pare che l’aura sessuale intorno agli uomini politici, unita
al potere, sia fortissima.
In Italia la biografia di
Bogart è stata pubblicata solo lo scorso anno, in realtà è qualcosa che ho scritto
molto tempo fa, nel 1990, ed è come un lungo saggio di taglio giornalistico.
Non è un libro importante per me. Invece ho scritto un’altra biografia, la
storia di B.S.Johnson, uno scrittore sconosciuto degli anni ’60, un originale
romanziere d’avanguardia che è morto suicida, e questo è stato ed è, per me, un
libro importante, ho impiegato otto anni per scriverlo, è il più lungo dei miei
libri. E’ importante perché contiene molto di me, del perché scrivo, perché
molti scrittori scrivono. Spero che venga pubblicato anche in Italia- i dubbi
riguardano il fatto che nessuno in Italia ha mai sentito parlare di
B.S.Johnson, ma neppure in Inghilterra era conosciuto.
a breve troverete il post con la recensione dell'ultimo romanzo di Jonathan Coe, "Numero undici"