sabato 31 ottobre 2015

Julia Glass, “L’oscura sacralità della notte” ed. 2015

                                Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                              FRESCO DI LETTURA


Julia Glass, “L’oscura sacralità della notte”
Ed. Nutrimenti, trad. D. Di Marco, pagg. 486, Euro 22,00

         

   Il verso di una canzone di Louis Armstrong spiega il titolo del romanzo di Julia Glass, the bright blessed day and the dark sacred night, la luminosa benedizione del giorno e l’oscura sacralità della notte. Un verso che racchiude in sé tutta la vita, gli alti e i bassi, le felicità e i dolori, quello che sappiamo e quello che ignoriamo, la luminosità del giorno che compensa il buio della notte, benedetto e ben accolto l’uno e altrettanto l’altra nella sua diversità.
Una famiglia al centro de “L’oscura sacralità della notte”, e tutte le traversie ad essa connesse, i segreti che vengono alla luce, gli intricati rapporti famigliari, le esperienze d’amore che nel mondo di oggi non sono più solo quelle di un rapporto uomo-donna, si dipanano nella trama, ci trasportano dalla costa orientale degli Stati Uniti ad un Vermont innevato e poi, quando tutto si è calmato, tutto è venuto alla luce e ogni problema sembra essere risolto, arriva una nuova tempesta- naturale, questa volta, un uragano- che coglie la famiglia allargata riunita a Provincetown ed un’onda anomala distrugge la felicità ritrovata.

     Kit Noonan è il protagonista in questo romanzo in cui i personaggi si affollano. Suo è il dramma interiore che gli farà intraprendere un cammino di ricerca, spinto dalla moglie. Kit è professore di storia dell’arte, al momento disoccupato. Sua madre, una violoncellista molto dotata che ha dovuto adattarsi a fare l’insegnante di musica, lo ha avuto a diciotto anni e non ha mai voluto dirgli chi fosse suo padre. Una donna inquieta, sua madre Daphne. Quando Kit aveva nove anni si era risposata con un vedovo che aveva adottato Kit dandogli il suo cognome, lo aveva lasciato dopo dieci anni per sposarsi nuovamente con un uomo da cui aveva avuto una bambina- un trauma per Kit che non aveva voluto lasciare il padre adottivo. Ora che ha superato la quarantina e che è padre a sua volta, Kit vuole sapere e, davanti al rifiuto categorico della madre di dirgli alcunché, parte per questo singolare ‘viaggio’ di crescita e di ricerca, va dal padre adottivo sperando che questi possa aiutarlo.

    Il romanzo di Julia Glass non è un mystery, non c’è la curiosità di sapere, il lettore sa quasi subito chi sia il padre di Kit. Una narrativa del libro è un flash back sul passato, un ritorno alla magica estate in cui Daphne aveva avuto la fortuna di essere ammessa ad un campo in cui si studiava musica. Dove aveva conosciuto Malachy. L’incanto del primo amore. La cecità del primo amore. Non erano i tempi per sospettare qualcosa. Daphne non aveva l’età per avvertire qualcosa di ‘strano’. A poco a poco la narrativa del presente colma le lacune, ci racconta il seguito di quella estate. Che cosa significa per Kit ritrovare il padre biologico e nello stesso tempo sapere di averlo già perso, anzi, di non averlo mai avuto, in realtà?

    Sono tanti i personaggi e sono tante le storie che si accalcano nel libro. Storie di amore etero e storie di amore gay, storie d’amore di due generazioni prima di quella di Kit e le difficoltà del matrimonio di Kit. Ecco, forse c’è un po’ troppo nel romanzo di Julia Glass. Si ha la sensazione che, se alcune delle storie collaterali fossero state tagliate, la luce del riflettore avrebbe illuminato con più forza la storia centrale che invece si diluisce nelle altre. E, se Kit è inteso per essere il protagonista, le nostre simpatie vanno però al personaggio della madre di Malachy, Lucinda, un nome che contiene un raggio di luce, una donna che commette errori (chi non ne fa?) ma che ha un cuore grande, che è il perno su cui ruota la famiglia.


venerdì 30 ottobre 2015

Mischa Berlinski, “Ricerca sul campo” ed. 2011

                                Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                 Diaspora ebraica
                 il libro ritrovato

Mischa Berlinski, “Ricerca sul campo”
Ed. gran vía, trad. Francesca Frulla, pagg. 418, Euro 17,00

     
     Ho terminato di leggere “Ricerca sul campo” di Mischa Berlinski. Peccato. Mi sento privata di qualcosa. Avrei voluto andare avanti a leggere, anche se mi rendevo conto che tutto era stato detto.
“Ricerca sul campo” è un romanzo stupefacente. Perché è ricchissimo, di storie, di personaggi, di quesiti, di informazioni. Perché è insolito. Perché è esotico, capace di farci dimenticare che noi lettori non viviamo là, in Thailandia, il paese in cui il romanzo è ambientato. Perché è profondo e leggero, percorso da un umorismo gentile.
      Il libro è la narrazione di una duplice ‘ricerca sul campo’- quella del personaggio che ha lo stesso nome dello scrittore e quella della studiosa antropologa Martiya van der Leun. Mischa Berlinski fa ricerche su Martiya e Martiya sulla popolazione Dyalo che vive nel Nord della Thailandia.
E sono entrambe ricerche appassionanti: così come il romanzo è costruito, ci sembra di spalancare di continuo nuove porte che ci conducono in un ambiente dove incontriamo nuove persone, ognuna con una sua parte di storia che dovrebbe portarci a sapere che cosa è successo a Martiya, come è stato possibile che questa americana di origine olandese si sia suicidata in un carcere thailandese dove stava scontando una condanna per assassinio. Con estrema naturalezza la vicenda passa di continuo dal presente al passato, dal punto di vista di Mischa a quello di Martiya e a quello di chi l’ha conosciuta, dalla vita di Mischa- che ha accompagnato la sua compagna che ha accettato un incarico di insegnante a Chiang Mai e che, a poco a poco, viene preso dal ‘mal d’Oriente’ e diventa ossessionato dalla storia dell’antropologa- a quella di Martiya, arrivata nel villaggio sperduto di Dan Loi negli anni ‘70 pensando di fermarsi un paio di anni senza immaginare che non avrebbe più voluto andarsene, che sarebbe diventata ossessionata dalla cultura dei Dyalo. E dall’amore per un dyalo. Anzi, la parola giusta è quella francese che qualcuno usa parlando di Martiya al Berlinski personaggio del libro: Martiya era obsedée, che si può anche interpretare come ‘posseduta’ dagli spiriti del luogo.

     Nella nota finale l’autore ci dice che questo libro doveva essere una storia sulla conversione al cristianesimo dei Lisu della Thailandia del Nord: la popolazione Dyalo non esiste ma Berlinski deve aver sfruttato le sue conoscenze sui Lisu. Perché uno dei filoni di ricchezza di questo straordinario romanzo è costituito dalla storia dei Dyalo e dalla loro cultura, così come la registra Martiya che, quando arriva nel villaggio, non conosce una parola della loro lingua e deve confrontarsi di continuo con i divieti per non far arrabbiare gli spiriti, e così come viene raccontata dalla famiglia dei Walker, i missionari che da tre generazioni predicano il cristianesimo nel Nord della Thailandia. La storia della famiglia Walker  è una delle digressioni importanti del libro, non solo perché aggiunge dei tasselli alla nostra conoscenza dell’Est, ma anche  perché, alla fin fine, l’assassinio compiuto da Martiya è l’ultimo atto di un conflitto di culture, quasi il risultato di voler imporre la supremazia di Uno spirito su Molti spiriti- soprattutto sullo spirito del Riso, di vitale importanza per i Dyalo.
    
Quanto ai Dyalo- forse questo è il fascino principale del romanzo: Mischa Berlinski riesce a scrivere qualcosa che si avvicina ad un testo di antropologia senza mai risultare arido o noioso. Il villaggio, le capanne, gli abiti, le consuetudini, la vita sociale e privata dei Dyalo, le condizioni climatiche- tutto prende vita soprattutto attraverso gli occhi di Martiya e, quando Mischa incontra Tanti-Peti, che aveva ospitato Martiya finché lei proprio non ne poteva più di quella convivenza, gli sembra di averlo sempre conosciuto. Come avviene a noi. E così pure per gli altri indigeni, ognuno con il suo soprannome che lo identifica alla perfezione.
    “Ricerca sul campo” è uno di quei libri che mi fanno invidiare chi deve ancora leggerlo.
      

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net






mercoledì 28 ottobre 2015

Elizabeth Bowen, “La casa di Parigi” ed. 2015

                                  Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                              FRESCO DI LETTURA


Elizabeth Bowen, “La casa di Parigi”
Ed. Sonzogno, trad. Alessandra di Luzio, pagg. 288, Euro 16,00

           

      Non sono certa che i due bambini, Henrietta e Leopold, siano i protagonisti del romanzo “La casa di Parigi” della scrittrice irlandese Elizabeth Bowen. Non sono neppure certa che lo sia Karen Michaelis, la madre di Leopold (figura che rivive per noi nel passato, clamorosamente assente nel presente). Tantomeno lo è la pallida e servizievole signorina Fisher, angustiata e tiranneggiata da una madre invalida di un male misterioso. O il fedifrago Max, il tenebroso anglo-francese ebreo, padre di Leopold che è morto dieci anni prima (Leopold ha nove anni), circonfuso di un alone di rimpianto amoroso ben poco meritato. Forse è proprio la casa di Parigi la protagonista di questo romanzo che ci fa pensare a Henry James per l’atmosfera sussurrante di figure fantasma (“Il giro di vite”), per i due personaggi di bambini stranamente saggi, come due piccoli adulti, che ci ricordano la Maisie di “Che cosa sapeva Maisie” e per la tecnica narrativa capace di alternare i punti di vista. Una casa singolare, alta e stretta, buia, con mobili scuri, un tempo una pensione per signorine a Parigi per motivi di studio, ora crocevia di passaggio per Henrietta e Leopold- lui al centro di un dramma, lei testimone non partecipe. Henrietta fa sosta nella casa tra un treno e l’altro mentre sta andando a raggiungere la nonna sulla Costa Azzurra. Leopold dovrebbe incontrare lì la madre che non ha mai visto- arriva dall’Italia dove vive la famiglia inglese che lo ha adottato. Dovrebbe, appunto.
L’atmosfera è carica di aspettativa, nella prima parte del romanzo, con l’incontro casuale dei due bambini. Aspettativa gioiosa di Henriette che spera di vedere almeno il Trocadéro in questa breve sosta. Aspettativa timorosa e ansiosa, traboccante di domande quella di Leopold, teso fino allo spasimo nel desiderio di conoscere finalmente la mamma, di sapere qualcosa, finalmente, su di sé. Bambini troppo adulti entrambi, una veramente orfana di mamma, l’altro come se lo fosse. Che parlano un linguaggio ben poco infantile, anche se poi Henrietta stringe a sé una scimmia di pezza. Anche noi lettori siamo colmi di aspettativa, quando inizia la seconda parte.
      Il tempo si riavvolge al passato, nella seconda parte. A dieci anni prima e a prima ancora. A quando Karen diciottenne era arrivata a Parigi per studiare arte ed era diventata amica della signorina Fisher. A quando aveva conosciuto Max, a quando- in seguito- si era fidanzata con Ray Forrestier, aveva saputo del fidanzamento di Max con la signorina Fisher, aveva rivisto entrambi. Si era data appuntamento con Max…
    La terza parte è un ritorno al presente, tutto è stato spiegato, compare sulla scena Ray Forrestier, i due bambini si separano, Henrietta parte per il Sud della Francia, Leopold per un futuro ancora incerto, ancora colmo di aspettative.

    “La casa di Parigi” è un libro intenso, un libro di silenzi, di spazi d’ombra (come quelli delle stanze della casa), di sentimenti che dobbiamo intuire, a tratti appesantito da un eccesso di descrizioni che combaciano con quello che stanno provando i personaggi (la pioggia sottile e triste durante l’incontro tra Max e Karen), e non sempre i dialoghi suonano spontanei. Eppure, è un romanzo che intriga, per gli stessi motivi per cui a volte ci respinge- per la sua aria di segretezza, il contrasto tra l’infanzia ignara e il mondo degli adulti che contiene tutte le risposte, il giudizio inespresso dei bambini nei confronti di questo mondo che- lo avvertono oscuramente- ha delle leggi tutte sue che possono danneggiarli.




      

Yan Lianke, “Il sogno del villaggio dei Ding” ed. 2011

                                                    Voci da mondi diversi. Cina
                                                                il libro ritrovato


Yan Lianke, “Il sogno del villaggio dei Ding”
Ed. Nottetempo, trad. Lucia Regola, pagg. 445, Euro 20,00
Titolo originale: Ding Shuang Meng


     A quel tempo c’era un sacco di gente che vendeva il sangue e un sacco di gente che lo comprava. Molti andavano a comprarlo direttamente nelle case della gente, portandosi dietro l’attrezzatura necessaria. Ti passavano davanti alla porta di casa in cerca di sangue proprio come passano i rigattieri in cerca di metalli vecchi e scarpe rotte. Non dovevi neanche muoverti di casa, te ne stavi tranquillo ad aspettare il grido: “Compro sangue!...Chi vuole vendere?”



    Chiedo ad ogni lettore di perdonare il dolore che questo libro gli procurerà- scrive Yan Lianke nella postfazione del suo libro, “Il sogno del villaggio dei Ding”. Perché “Il sogno del villaggio dei Ding” è un libro che fa male, che causa al lettore la sofferenza dello spettatore impotente davanti al Male che l’uomo infligge ai suoi simili. Yan Lianke è nato in Cina nella provincia di Henan: nel 2001, solo nella provincia di Henan, si registrarono un milione di casi di Aids. Un’epidemia. Non dovuta, come in Africa, a rapporti sessuali non protetti ma ad una dissennata campagna per la vendita di sangue per rifornire di plasma gli ospedali. Mancanza assoluta di qualunque genere di profilassi, aghi usati e ri-usati, lo stesso batuffolo di cotone impiegato per chissà quante persone…La gente incominciò ad ammalarsi, ma i poveri sono abituati ad accettare le malattie come una fatalità. Finché ci fu una prima diagnosi.
    Yan Lianke ci racconta questa storia attraverso la voce fuori campo della vittima più innocente e, paradossalmente, in un certo senso più estranea a questa tragedia: un ragazzino morto, non di Aids ma avvelenato da qualcuno che intendeva vendicarsi di suo padre Ding Hui che si era arricchito con la vendita del sangue. All’inizio c’era stato un arricchimento generale nel villaggio dei Ding. Ora non c’è casa da cui non sventoli uno stendardo bianco in segno di lutto. Il villaggio è avvolto nel silenzio. Nell’anno passato c’era stato un morto ogni dieci giorni. Di questo passo sarebbero morti tutti nel villaggio. Come le foglie di un vecchio albero, sarebbero prima appassiti, poi ingialliti e infine caduti a terra con un fruscio, spinti chissà dove da una raffica di vento.

    La narrativa di Yan Lianke ha il tono dell’elegia funebre, alterna il realismo delle scene di vita quotidiana con frasi che sembrano versi di una ballata accorata, una di quelle cantate da un cantastorie itinerante, con ripetizioni di parole che ti entrano nella mente e nel cuore prima di una pausa ad effetto, per lasciarti assimilare quanto è stato detto. Tutto il villaggio rivive nelle pagine di Yan Lianke- gli ammalati che si trasferiscono a vivere dentro l’edificio scolastico per limitare il contagio e i sani che battibeccano con i malati, rimproverandoli per l’imprudenza, tenendosene alla larga. La generosità e l’altruismo sono scomparsi insieme alla salute. C’è un’eccezione luminosa ed è il personaggio del nonno del ragazzino che racconta dall’aldilà, che viene chiamato Maestro anche se non lo è in realtà. E’ solo il custode responsabile della scuola. E continua a svolgere questo incarico ora che le aule sono piene di ammalati invece che di bambini: è per compensare il villaggio per quanto ha fatto suo figlio Ding Hui? Per scontare una colpa non sua? Di certo Ding Hui non ha rimorsi. Anzi, allarga il mercato. Si appropria delle bare che il governo concede alle famiglie per seppellire i morti e le rivende. Sono scene grottesche, quelle della visione della fabbrica di bare e del commercio di queste, delle trattative sul prezzo e la qualità. Saranno ancora più grottesche quelle dell’altra idea brillante di Ding Hui: fare il sensale di matrimoni tra i defunti. Per avidità, Ding Hui farà sposare anche suo figlio, il ragazzino che è morto troppo giovane per conoscere l’amore.


    C’è, però, anche una vera storia d’amore tra i malati. Bella, straziante. Ricorda le storie d’amore nei ghetti o nei campi di concentramento. Con un finale che potrebbe essere quello di una tragedia scespiriana. E mentre il furto delle bare e la dissacrazione della tomba degli amanti potrebbe trovare il suo posto in una tragicommedia, la figura del vecchio Ding che cerca di riequilibrare la giustizia, senza però essere compreso, è altamente drammatica. Anche perché una città non distante si è arricchita in maniera straordinaria e, invece, la terra vicino al villaggio dei Ding, colpita dalla siccità, sembra essere morta insieme ai suoi abitanti: no, non c’è giustizia a questo mondo.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


martedì 27 ottobre 2015

Paula McLain, “Tra cielo e terra” ed. 2015

                                       Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
        biografia romanzata
        FRESCO DI LETTURA


Paula McLain, “Tra cielo e terra”
Ed. Neri Pozza, trad. S. Fefé, pagg. 383, Euro 13,50



      Una volta avevo una casa in Africa- le parole di Meryl Streep che interpreta la baronessa Karen Blixen all’inizio del film “Out of Africa” echeggiano lungo tutto il libro “Tra terra e cielo” di Paula McLain, cariche di nostalgia e di amore per una terra dal fascino magico. Non è Karen Blixen la protagonista del romanzo della McLain, ma Beryl Markham nata Clutterbuck, bella, impetuosa, anticonvenzionale, allenatrice di cavalli e aviatrice. Le strade di Beryl e della baronessa Blixen si incontreranno, impossibile che non sia così nel Kenya che era stato dapprima East British Africa dove tutti i coloni bianchi si conoscono. Beryl è parecchio più giovane di Karen, tuttavia. E Karen arrivò ventottenne dalla Danimarca in Kenya, come moglie di Bror Blixen, mentre Beryl aveva solo due anni quando il padre decise di tentare la fortuna in Africa e ne aveva quattro quando sua madre, che non sopportava quella vita di isolamento, tornò in Inghilterra con il figlio maggiore lasciando Beryl con il padre.
L’amore di Beryl per l’Africa è diverso da quello di Karen. Non è l’attrattiva che nasce da un paragone maturo tra il luogo da cui si proviene e quello in cui si è arrivati, non è l’incanto della scoperta, la folgorazione del nuovo che arriva all’anima. Beryl ha l’Africa nel corpo e nel cuore, Beryl non ha mai conosciuto altro e la sua conoscenza dell’Africa è puro istinto che le scorre nel sangue. Se Karen è amica dei suoi kikuyu, Beryl è quasi una sorella del ragazzino nero con cui ha scorrazzato e giocato nelle sfide dell’infanzia, di cui si è quasi innamorata da adolescente, tenuta a distanza da lui che era ben consapevole dei pericoli- per lui- di una simile attrazione. E tuttavia Kibii, con il nome adulto di Ruta, resterà accanto a Beryl per tutta la vita, insieme alla moglie e al figlio, con una fedeltà cieca che lo fa comprendere ed accettare ogni sua scelta di vita.

    Beryl Markham ha avuto una vita inquieta, da ribelle che lotta per non soggiacere, per quanto possibile, alle regole imposte dalla società del suo tempo. Nata nel 1902, si sposò giovanissima, a mala pena diciassettenne, per la prima volta. Aveva forse altre scelte per non abbandonare le colline vicino alla fattoria di Njoro che tanto amava, dopo il fallimento del padre? Che ne sapeva lei, del matrimonio e dell’amore? Forse quello che provava poteva bastare. Povera Beryl. Eppure lei non si dà per vinta, non si abbandona alla depressione. Si guarda intorno, suo padre era un allenatore di cavalli, c’è un’intesa spontanea tra Beryl e i cavalli, da sempre. Ecco: sarà la prima donna a prendere il brevetto di allenatrice di cavalli, nonostante la diffidenza, le malignità, le chiacchiere. Delle chiacchiere Beryl imparerà a infischiarsene. Ci saranno sempre pettegolezzi su di lei, più o meno fondati. Una donna giovane e bella come Beryl non può tagliare l’amore fuori dalla sua vita. Anche se ci vorranno anni prima che il marito le conceda il divorzio. Prima ha un amante, poi si sposa con un ricco inglese di cui porterà sempre il cognome, Markham, anche dopo la separazione. Il capitolo della sua vita che riguarda la sua maternità infelice è stranamente simile a quello di sua madre- pure Beryl lascerà il figlio bambino da solo con il padre.
    Non è finita, la vita avventurosa di Beryl che non pretende mai di essere diversa da quello che è, agli antipodi di Karen Blixen a cui contende l’amore dell’affascinante Denys Finch Hatton. Tanto Karen è colta e intellettuale e raffinata, tanto è grezza e spontanea e immediata Beryl- ed è questa l’attrattiva che esercita. Forse è per avvicinarsi a Denys che l’esperienza del volo la tenta, forse è per il desiderio di una libertà sconfinata, forse è per accettare un’altra sfida, e comunque Beryl impara a pilotare un aereo. Sarà la prima donna a trasvolare l’Atlantico da Est a Ovest, non stop. E questo ci porta al capitolo iniziale del libro, dove restiamo con il fiato in sospeso.


     Paula McLain è bravissima nel calarsi nei panni del suo personaggio, la narrativa è in prima persona e Beryl Markham emerge viva e luminosa dalle pagine, un esempio femminile di audacia.




mercoledì 14 ottobre 2015

Holidays





Può darsi che non riesca ad aggiornare il blog con regolarità, abbiate pazienza.

martedì 13 ottobre 2015

Paula Hawkins, “La ragazza del treno” ed. 2015

                                         Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                              cento sfumature di giallo
FRESCO DI LETTURA

Paula Hawkins, “La ragazza del treno”
Ed. Piemme, trad. B. Porteri, pagg. 306, Euro 19,50



        La lezione della grande Agatha Christie, maestra indiscussa del ‘giallo’, è sempre valida. Ricordate due cose mentre leggete il romanzo “La ragazza del treno” di Paula Hawkins: l’assassino è il maggiordomo (non letteralmente, ovvio) e non è detto che il narratore sia affidabile. Poi preparatevi ad una lettura intensa, perché il libro della Hawkins ha un ritmo serratissimo e non è possibile posarlo ed occuparsi di altro.
     Non c’è un solo narratore, in realtà, ma sono tre le giovani donne che raccontano la vicenda, una di loro inizia da un tempo precedente, l’anno prima degli avvenimenti, per poi ricongiungersi al tempo della narratrice principale. Che è Rachel, la ragazza del treno, nel senso che è una pendolare che prende lo stesso treno tutti i giorni per andare al lavoro. Guarda fuori dal finestrino, c’è una casa che ama osservare in maniera particolare, perché è abitata da una coppia che le piace- sono belli tutti e due, sembrano molto innamorati. Ha attribuito loro dei nomi, Jess e Jason, e ha anche immaginato quale sia il lavoro che svolgono. Una mattina, però, vede Jess baciare un uomo che non è il marito. Dopo poco uscirà sui giornali la notizia che Jess (in realtà si chiama Megan) è scomparsa. Megan è la seconda voce narrante, quella che inizia il suo racconto più o meno un anno prima, quando ha chiuso la galleria d’arte in cui lavorava e ha sposato Scott.

    A poco a poco mettiamo a fuoco il carattere di Rachel- non è facile, quando una persona parla in prima persona raccontando di altro e lasciandosi sfuggire frammenti di sé. Rachel beve. Non ci abbiamo fatto caso subito, quando compera una lattina di qualcosa di alcolico prima di salire sul treno, poi è lei stessa a dirci di più sul suo problema che ormai è fuori controllo, quando è iniziato, come abbia causato la fine del suo matrimonio con Tom che lei continua a perseguitare con telefonate, soprattutto quando è ubriaca. Ecco il punto: quanto è affidabile Rachel in quello che ha osservato e in quello che racconta, visto che le capita spesso di non ricordare nulla di quanto è successo quando ha bevuto troppo, finanche a perdere i sensi? Quanto è affidabile Rachel con i suoi sentimenti di gelosia nei confronti di Ann, la nuova moglie di Tom, e di desiderio di rivalsa? Quanto è affidabile Rachel che mente ogni giorno dicendo che va a lavorare e invece è stata licenziata?

     La terza narratrice è Ann, impegnata tutto il giorno con una bimba piccola, gelosa di Rachel, impaurita da lei, pronta a qualunque cosa per togliersi dai piedi questo fantasma della vita precedente dell’uomo che ormai è suo marito, senza badare al fatto che questi avesse usato per lei, corteggiandola, le stesse parole che aveva usato con la prima moglie.
    Una donna è scomparsa. Il primo sospettato è il marito. Dopo di lui lo psicologo da cui Megan andava perché depressa e insonne. Noi abbiamo letto le pagine del racconto fatto da Megan e non sappiamo che cosa pensare. E continuiamo a leggere con ansia crescente perché entrambi gli uomini ci paiono pericolosi: ma che fa Rachel che li avvicina in un dilettantesco tentativo di indagine? Quando poi ci avviniamo alla fine, la curiosità di sapere quale sia la soluzione dell’enigma è veramente fortissima.
    Si capisce perfettamente perché il libro di Paula Hawkins sia in testa alle classifiche dei libri più venduti. Perché è un thriller ben costruito, non cruento e quindi adatto ad un pubblico vasto, perché parla delle meccaniche dei rapporti di coppia, perché è un vero e proprio page turner. Anche se il personaggio meglio riuscito è quello dell’alcolizzata Rachel (meno convincenti le altre due donne, più superficiale il ritratto degli uomini coinvolti), anche se- come spesso accade in questi ‘gialli’ così trascinanti- ci risentiamo del sentirci manipolati dalla scrittrice, incalzati ad andare avanti anche se non tutto ci convince. Perché, tutto sommato, è una lettura piacevole.


   


lunedì 12 ottobre 2015

Yu Hua, “Arricchirsi è glorioso” ed. 2009

                                                       Voci da mondi diversi. Cina
                 il libro ritrovato


Yu Hua, “Arricchirsi è glorioso”
Ed. Feltrinelli, trad. Silvia Pozzi, pagg. 437, Euro 19,00

   

    Quello che è glorioso, è la riflessione che facciamo leggendo il romanzo “Arricchirsi è glorioso” dello scrittore cinese Yu Hua, è la possibilità che oggigiorno abbiamo di conoscere in traduzione quello che viene scritto negli altri paesi- non solo in quelli le cui lingue sono sempre state più o meno accessibili in ogni tempo, ma anche in quelli dagli idiomi di per sé più difficili da studiare, perché aventi caratteri diversi dai nostri, perché erano più costosi i viaggi sul posto, perché motivazioni politiche imponevano una censura sia all’interno sia all’estero. E invece è entusiasmante venire a contatto con altre culture e apprezzare stili narrativi diversi da quelli europei.
   I protagonisti di “Arricchirsi è glorioso” sono ancora i fratelli Li Testapelata e Song Gang, già al centro del precedente romanzo di Yu Hua, “Brothers”. Chi non ha letto “Brothers” troverà qualche accenno al passato in “Arricchirsi è glorioso”- giusto quanto è necessario per orizzontarsi. Li Testapelata e Song Gang non sono fratelli di sangue, ma il secondo ha promesso alla madre di Li Testapelata (che lui chiama mamma, come se fosse la sua) che si sarebbe sempre preso cura del fratello. Condividono tanti ricordi, i due fratelli. Del padre (in realtà padre solo di Song Gang) ucciso durante la rivoluzione culturale. Della morte della madre. Della forzata lontananza. Ora, all’inizio del libro, Song Gang ritorna a vivere con Li Testapelata nella piccola città di Liuzhen, dove si svolge tutta la vicenda di “Arricchirsi è glorioso”. Apparirà ben presto chiaro che, nonostante che entrambi dicano di essere “l’uno la forza dell’altro”, Song Gang è il fratello “buono”, leale, onesto e sincero, mentre Li Testapelata è il suo opposto: egoista, senza scrupoli, pronto ad uccidere anche il fratello se questi gli intralciasse il cammino. E così la storia dei due fratelli acquista una valenza simbolica nella sua specularità- tutto quello che succede appare inevitabile, visto le premesse.

    I due fratelli iniziano a fare soldi insieme e li mettono in una cassa comune; poi l’intraprendente Li Testapelata si autonomina direttore della cooperativa in cui lavora- la sua sarà un’ascesa continua, perché ha fiuto, iniziativa e un’ottima parlantina. Riesce a convincere amici e conoscenti ad investire i risparmi in un’impresa che non decolla mai, eppure si riprende, ha un’altra idea: raccoglie robaccia di scarto, ogni sorta di rifiuti, e poi li rivende. Parte per il Giappone, acquista 3567 tonnellate di completi all’occidentale usati, torna a Liuzhen, impone una moda, li rivende…Diventa straricco, fa radere al suolo vecchie abitazioni di Liuzhen e ricostruisce. E’ proprietario di ristoranti, di centri del benessere…a Liuzhen tutto appartiene al rozzo, volgare, sboccato Li Testapelata. C’è una sola cosa che Li non è riuscito ad avere: l’amore di Lin Hong che è diventata la moglie di suo fratello.

     Va da sé che il percorso di vita di Song Gang- il doppio di Li Testapelata- sia totalmente diverso: Song Gang è strettamente monogamo mentre l’altro è un donnaiolo affamato di sesso, ha un modesto impiego di routine e una bicicletta, invece della Mercedes. Finché…diventa anche lui intraprendente, ma per motivi diversi. E la storia del suo arricchirsi è tremendamente tragica.


     C’è la storia della Cina che fa il balzo in avanti, dietro a quella dei due fratelli e della miriade di personaggi che li circondano, dal ghiacciolaio Wang all’arrotino Guan, dal cavadenti Yu al sarto Zhang, allo scrittore Liu e al fabbro Tong. Una Cina che, ogni tanto, si ricorda ancora di Mao e cita- ridicolizzandoli- i suoi famosi detti, ma che ha preso a prestito l’ideologia economica occidentale (bella la metafora degli abiti importati da Li, che furoreggiano immediatamente). Per raccontare questa Cina contraddittoria, varia e complessa, Yu Hua impiega il grottesco e il paradossale- come altri autori cinesi, come Ma Jian o anche il grande Mo Yan-, per suscitare un riso amaro, per temperare il dramma con l’incredulità.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


domenica 11 ottobre 2015

Svetlana Aleksjevich, “Ragazzi di zinco” PREMIO NOBEL 2015

Voci da mondi diversi. Russia
         guerra russo afghana
         testimonianze


Svetlana Aleksjevich, “Ragazzi di zinco”
Ed. e/o, trad. Sergio Rapetti, pagg. 316, Euro 16,00


    Ho pensato alla nostra Oriana Fallaci, leggendo “Ragazzi di zinco” di Svetlana Aleksjevich, la scrittrice bielorussa a cui è appena stato conferito il premio Nobel per la Letteratura 2015. Con Oriana Fallaci mi è parso che Svetlana Aleksjevich condividesse il genere di scrittura, di giornalismo testimonianza, e il coraggio di raccontare l’altra faccia degli eventi, di tirare giù un velo, di sfatare dei miti illusori.
    Come i precedenti “La guerra non ha un volto di donna” (del 1985, ancora inedito in Italia, verrà pubblicato da Bompiani) e “Preghiera per Chernobyl” (pubblicato nel 2004 da e/o), anche “Ragazzi di zinco” è un libro di voci. Prendete in mano il libro e guardate la copertina, dice tutto. Con le parole di uno dei giovani che raccontano la loro storia, ‘se guardi a lungo dentro l’Abisso, l’Abisso guarda dentro di te’. Lo sfondo è nero, il colore del lutto. Un ragazzo, di cui si vede solo la parte superiore del corpo, si appoggia su due stampelle. Quanti giovani sono tornati senza gambe dall’Afghanistan, da quella guerra spacciata per ‘dovere internazionalista’ e diventata poi ‘guerra sporca’, durata dieci anni, dal 1979 al 1989.
Quanti giovani sono tornati senza braccia e senza gambe, rifiutati anche dalle famiglie, ricoverati e abbandonati in qualche istituto. Forse per loro sarebbe stato meglio tornare nelle bare di zinco come i tanti altri (il numero si aggira sui 26.000) che erano morti laggiù- e che cosa c’era, poi, dentro quelle bare di zinco? Quei resti, quei frammenti di corpi dilaniati dalle granate, erano proprio quelli del ragazzo identificato con nome e cognome sulla bara? Oltre tutto, i soldati non avevano neppure le piastrine di riconoscimento. Erano partiti- quasi tutti- baldanzosi, credendo che sarebbero diventati degli eroi, con l’incoscienza giovanile che fa della guerra un’avventura straordinaria, un rito di passaggio per diventare un uomo. E poi c’entrava il senso del dovere, quando la Patria chiama, si ubbidisce. Quando un superiore dà un ordine, si ubbidisce, non si sta a discutere. Ti dicono di uccidere e tu uccidi. L’esercito è così.
Erano tutti giovanissimi- lo si sente nelle voci che raccontano, che parlano di scuola, di primi amori, della mamma. Quando, alla fine del libro, si leggono gli epitaffi, la serie delle date di nascita e morte (il calcolo è presto fatto, diciotto, diciannove, vent’anni) è sconvolgente. Questa è la maggiore differenza con la Grande Guerra Patriottica che aveva coinvolto tutti, in cui tutti avevano sofferto, tutti avevano avuto dei lutti. La guerra in Afghanistan era avvolta da un alone di segretezza e di mistero. Circolavano voci che laggiù i soldati se la spassassero e si arricchissero, che tornassero con mangianastri e cappotti foderati di montone. Non trapelava altro, in guardia dal disfattismo!

     Ho pensato anche a “La strada del Davai” di Nuto Revelli, leggendo “Ragazzi di zinco”. Altro paese, altra guerra, un altro tempo, eppure c’è la somiglianza della scoperta dell’orrore della guerra nelle voci degli italiani che parlano con Revelli e in quelle dei russi che raccontano a Svetlana Aleksjevich. C’è l’atroce realtà di quello che significa uccidere, quella ancora più spaventosa del rendersi conto del sollievo che si prova, se è un altro che muore, la sensazione di essere vittime di un enorme inganno, di non poter mai più tornare ad essere quelli di prima.

    Ragazzi, giovani donne inviate per lo più come infermiere (mai avrebbero pensato di dover prestare aiuto in situazioni così disperate) e madri prendono la parola in questo libro corale. E sono le madri quelle che più straziano il cuore, come quelle di Palza de Mayo, mamme che ricordano il figlio bambino che chiamavano ‘il mio piccolo sole’, mamme che vanno ogni giorno sulla tomba del figlio e ogni loro parola è una carezza, mamme che non si rassegnano.

    E’ un libro epico e stranamente poetico, “Ragazzi di zinco”. E’ una poesia del dolore che nasce dal contrasto tra giovinezza e vite stroncate, tra l’orrore della morte e il fulgore dei colori di splendidi paesaggi. E’ la poesia della fine dell’innocenza. Di una generazione perduta. E’ una testimonianza impossibile da ignorare.


venerdì 9 ottobre 2015

Dai Sijie, “Muo e la vergine cinese” ed. 2004

                                                         Voci da mondi diversi. Cina
                                                                   il libro ritrovato


Dai Sijie, “Muo e la vergine cinese”
Ed. Adelphi, trad. Angelo Bray e Marina Di Leo, pagg. 314, Euro 18,00



E’ piccolo, sgraziato, ha gli occhi a palla dietro le spesse lenti, il protagonista di “Muo e la vergine cinese”, il nuovo romanzo dello scrittore cinese Dai Sijie. Se il primo romanzo, “Balzac e la piccola sarta cinese”, era una storia d’amore- per i libri e per una ragazza- ambientato nella Cina maoista della rieducazione proletaria, “Muo e la vergine cinese” è- parodiando le parole di Mao- un “gran balzo in avanti”, un romanzo meno lineare e più ricco, libro di avventura e satira, una parodia della chanson de geste, un rifacimento in chiave ironica del romanzo cavalleresco. E, in effetti, c’è un momento in cui Muo, che attribuisce a se stesso gli appellativi de “l’incorruttibile”, “il fedelissimo”, “il cavaliere”, “il salvatore”, si paragona a Don Chisciotte. Non parte dalla Mancia ma è appena arrivato dalla Francia in Cina, non ha letto libri di cavalleria ma i testi di Freud e di Lacan e si gloria di essere il primo psicanalista cinese, non ha il fedele destriero Rozinante ma una bicicletta, non la lancia ma una canna da pesca a cui ha attaccato lo stendardo con la sua insegna- l’ideogramma del sogno e la scritta “interprete di sogni”.
Anche Muo ha un’impresa da compiere, una donzella da salvare: Vulcano della Vecchia Luna, la ragazza di cui è innamorato anche se le ha dato un solo bacio di sfuggita, è in prigione con l’accusa di aver venduto delle fotografie alla stampa straniera. E così il nemico dalle cui grinfie bisogna strappare la fanciulla è il crudele giudice Di che si è fatto fare un modellino d’aereo con i bossoli dei proiettili usati per giustiziare i condannati, che ha un giardino pieno di bonsai dalle forme mostruose e il più spaventoso sembra proprio un drago. Non è con i soldi che il giudice Di si lascia corrompere: chiede una vergine in cambio della libertà di Vulcano della Vecchia Luna. Iniziano così le esilaranti avventure di Muo in cerca di una vergine in Cina: la prima possibile candidata è la donna quarantenne che fa l’Imbalsamatrice di cadaveri. E’ vedova e il suo matrimonio non è stato consumato perché il marito era omosessuale e si è suicidato la sera delle nozze. La storia di Muo e dell’Imbalsamatrice sfiora il grottesco, con una comicità irresistibile quando perdono insieme la verginità mentre lei rimesta i ravioli sul fuoco, il giudice Di, a cui lei dovrebbe essere offerta, muore per poi riaprire gli occhi sul tavolo della camera mortuaria, l’Imbalsamatrice finisce in prigione e Muo si dà alla fuga prima di presentarsi al palazzo di giustizia come prigioniero in cambio della donna.
Ma non finiscono qui le avventure di Muo che da timido cavaliere diventa un seduttore, attuando il connubio tra romanticismo rivoluzionario e realismo proletario, come auspicava Mao. Lasciamo al lettore il divertimento della sorpresa finale di un libro in cui si avverte anche l’occhio del regista in alcune scene: Muo che sale gli scalini del palazzo e gli si rompono i sacchetti dei libri che pensa di leggere in prigione,  Muo che si vede come il capitano del Titanic che affonda e pensa a salvare gli altri, gli scaffali carichi dei libri proibiti in stanze che hanno odore di virtù e di morale e di potere. Un libro da leggere e da vedere con gli occhi dell’immaginazione.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net

Dai Sije è il vincitore della XXIII edizione del Premio Acerbi, dedicato quest'anno alla Letteratura Cinese Migrante.
Gli altri scrittori in concorso erano: Xiaolu Guo ("La Cina sono io") e Qiu Xiaolong ("Le lacrime del lago Tai"). Di entrambi i libri sono già apparse le recensioni sul blog.





Dai Sijie, "Muo e la vergine cinese" Intervista 2004

                                                           Voci da mondi diversi. Cina
                                                                        il libro ritrovato


INTERVISTA A DAI SIJIE, autore di “Muo e la vergine cinese”

E’ un momento di grande successo per Dai Sijie, scrittore e regista cinese: ha ricevuto a Stresa il premio Grinzane Cinema per il miglior libro da cui è stato tratto un film (“Balzac e la piccola sarta cinese”) ed è appena uscito da Adelphi il suo secondo romanzo, “Muo e la vergine cinese”. Abbiamo incontrato lo scrittore, che vive da quasi vent’anni a Parigi, a Milano e abbiamo parlato con lui del suo film e dei due romanzi.


Regista e scrittore: com’è la sua visione del mondo? Quando pensa a una storia, la pensa in immagini o in parole?
     Certamente per me viene prima l’immagine e penso di non essere l’unico a cui succede così: molti scrittori vedono un’immagine, non una scena, ma magari un ambiente. Non è necessario che sia la fine o l’inizio del libro, può essere la parte centrale, e si segue questa immagine per giorni e settimane finché ci si rende conto di averla afferrata.

Fino a che punto è autobiografico il suo primo libro “Balzac e la piccola sarta cinese”? è stato duro sopravvivere all’esperienza della rieducazione?

     E’ stata un’esperienza autobiografica ma è stata romanzata. Sono stato testimone di questa vicenda: è stato il mio amico- non io- che ha letto i romanzi rubati e poi li ha raccontati ad una contadina, che nel libro è diventata “la piccola sarta”. Lei è veramente cambiata e se n’è andata, anche se non è stata una cosa improvvisa, ma lenta e sofferta: è andata e poi è ritornata ed è ripartita. La rieducazione? Sono sopravvissuto. E’ stato duro, però quella che io ho conosciuto è stata la fine della Rivoluzione Culturale: era iniziata nel 1966, quando avevo 12 anni e, quando sono stato mandato in montagna ne avevo 17, era il 1971. La rivoluzione era meno violenta, si era trasformata in qualcosa di assurdo. Abbiamo vissuto tre anni nelle montagne, ma era più assurdo che crudele. L’esperienza dei miei genitori è stata molto più dura, è una storia lunga, ma erano stati considerati “nemici del popolo”. Il 5% dei cinesi erano nemici del popolo e il 95% erano rivoluzionari- noi siamo stati sfortunati, eravamo in quel 5%.

Che ne è adesso della generazione che è stata travolta dalla rivoluzione culturale di Mao?
    E’ una generazione che è diventata, in un certo senso, speciale. Sono loro, quelli di questa generazione, che occupano i posti importanti al potere. Anche nel campo dell’arte, sono famosi o come scrittori, pittori, musicisti- tutti gli artisti famosi sono stati rieducati e non è un caso. Per quelli che avevano una carriera nel campo scientifico gli anni della rivoluzione sono stati anni persi, ma per gli altri è stato un vantaggio, è stata una scuola migliore dell’università.

Quanto sapevano di quanto era successo, i giovani interpreti del film, e come hanno reagito a sapere di quella esperienza?

     Sapevano molto poco perché è un argomento che i genitori non toccano. Sapevano che era stato un periodo difficile e tormentato ma non sapevano in concreto che cosa fosse successo. Questi giovani attori non facevano parte di un ambiente borghese, le loro famiglie erano tra il 95% che erano rivoluzionari. Erano tre ottimi attori ma i loro genitori, pur avendo la mia età, non avevano vissuto la stessa esperienza.

La letteratura può cambiare la vita? E perché la letteratura francese nel suo romanzo?

     Sì, per me la letteratura può cambiare la vita, la letteratura può cambiare la vita a chi la ama, a chi ama le parole, perché sono le parole che strutturano il nostro pensiero. Quanto alla letteratura francese, la storia della Cina è stata molto influenzata da due grandi letterature, quella russa e quella francese. E, quando i ragazzi del romanzo leggono dei libri proibiti, è logico che siano dei capolavori francesi perché erano quelli che erano stati tradotti. Le traduzioni di Tomasi di Lampedusa o di Calvino sono arrivate molto dopo, e la letteratura inglese- che peraltro io amo molto- non ha mai avuto grande influenza in Cina.

Il suo secondo romanzo è una gustosissima parodia del romanzo cavalleresco, Muo stesso cita Don Chisciotte: è una sorta di omaggio a Cervantes?

     Sì, anche se non direi che si tratti di un omaggio, piuttosto di una strizzata d’occhio a Cervantes. Adoro Cervantes, noi intellettuali cinesi gli assomigliamo. Anche noi abbiamo cercato di cambiare la Cina, ma è stato un sogno da don Chisciotte, non c’è stato nessun risultato.

Il romanzo è anche una satira politica: è l’ironia lo strumento migliore per indicare le colpe o le manchevolezze di un governo?
   In realtà devo dire che non era nelle mie intenzioni scrivere un libro con un messaggio politico, volevo parlare della Cina che ho visto e volevo far ridere: mi piace far ridere, nel libro e anche nella vita.

Il nome Muo ha solo una vocale di versa dal nome Mao- è intenzionale?
    No, in realtà pensavo ad un amico che si chiama Huo, mi piace inventare un personaggio partendo dal vero. Huo è veramente un grande psicanalista cinese, e poi era anche un gioco allusivo ai personaggi del mio primo romanzo, che si chiamavano Mo e Luo.

Perché ha fatto del personaggio principale uno psicanalista?
     Perché avevo bisogno del contrasto tra la psicanalisi e la realtà della Cina, mi dava la possibilità di metterci l’ironia. E in questa storia la psicanalisi cerca di penetrare nell’inconscio asiatico.

Ha un preciso significato il fatto che Muo sia un interprete di sogni e la donna sia un’imbalsamatrice di cadaveri, cioè che nessuno dei due abbia a che fare con la vita reale attiva?
     Sì, Muo è un personaggio che all’inizio non fa parte della società cinese, è lontano dalla realtà in cui entra a poco a poco, lui vuole cambiare la Cina. Ma c’è anche il suo dramma personale: è uno psicanalista ma non ha nessuna conoscenza della vita sessuale e sarà l’Imbalsamatrice di cadaveri che lo inizia al sesso.

Nel romanzo la ricerca cavalleresca non è del Graal ma di una vergine in Cina…

     E’ il giudice corrotto che chiede una vergine e in Cina tutti troverebbero la cosa assolutamente normale. La ricerca ha anche un valore simbolico, è anche la ricerca dell’innocenza che non si trova: non c’è l’innocenza in Cina.

l'intervista è stata pubblicata su www.stradanove.net