Voci da mondi diversi. Cuba
INTERVISTA A LEONARDO PADURA FUENTES- Cuba, il Conde, Leonardo e Raul…
Gennaio 2009-
gli occhi del mondo sono fissi su Washington, in attesa dell’insediamento di
Barack Obama. Yes, we can- sono le
parole chiave del messaggio di questo presidente tanto carismatico quanto, in
altri tempi, un giovane Fidel Castro. Sì, possiamo cambiare, tutti quanti. E,
in occasione di un viaggio a Cuba, abbiamo incontrato lo scrittore Leonardo
Padura Fuentes (autore della quadrilogia “Le quattro stagioni” che ha il tenente
Conde per protagonista, nonché di “Addio Hemingway”, “Il romanzo della mia
vita”, “La nebbia del passato”) e parlato con lui di cambiamenti- quelli
traumatizzanti del passato, quelli sperati lo scorso anno quando Raùl Castro si
sostituì al fratello, quelli fortemente attesi ora. E dei suoi romanzi,
naturalmente.
La quadrilogia de “Le quattro stagioni” si svolge in un anno ben
preciso, il 1989, l’anno della caduta del muro e dell’inizio del disgregamento
dell’URSS. Una scelta con una precisa intenzione, quindi?
No, non ci avevo pensato subito. Ho
scritto “Passato remoto” collocandolo nell’anno in cui io stesso avevo il “mio”
passato immediato. Quando ho deciso di trasformare questo romanzo nel primo di
una qudrilogia, la mia prospettiva si è ampliata. Era un anno importante,
quello della caduta del muro e dell’inizio della disgregazione del socialismo.
Ma era anche l’anno della fucilazione del generale Ochoa e del gruppo dei
narcotrafficanti a Cuba, il momento in cui la mia generazione ha incominciato a
provare un disincanto nei confronti della storia che avevamo vissuto. Avevamo
una nuova visione della realtà, molto disincantata: questa visione ha a che
fare con il Conde e ho deciso di utilizzare il 1989 per i quattro romanzi. Il
1989 è dunque l’anno in cui si svolgono i quattro romanzi, ma lo spirito della
storia avanza in questa decade che fu così traumatizzante per Cuba, ma che fu
anche un momento di grande liberazione per gli scrittori. Per la prima volta
noi scrittori sentimmo che eravamo liberi dai meccanismi di pubblicazione e di
promozione dello stato cubano.
Mi sono chiesta se anche l’uragano Felix nell’ultimo romanzo della
serie, “Paesaggio d’autunno”, abbia un valore metaforico, pensando a tutto
quello che sarebbe seguito…
Sì, assolutamente sì. E’ un uragano
metaforico, l’uragano che aspettavamo. “Paesaggio d’autunno” è stato scritto
nel ‘96-‘97 e stavamo aspettando un cambiamento nella società cubana. Lo
aspettiamo ancora oggi. Come cittadino cubano mi domando se questi dodici anni
non siano andati persi proprio a causa dei non-cambiamenti. Mi pare che la
società cubana sia rimasta ferma o addirittura sia retrocessa perché non ci
sono stati sufficienti cambiamenti economici. Oggi possiamo ancora sperare in
un altro uragano che cambi le cose- oppure si tratta dello stesso uragano,
visto che non è mai arrivato.
Parlando di metafore: il mare che ritorna così spesso nei romanzi, mare
in cui si affonda, mare su cui si fugge…Ha un altro motivo per essere lì, il
mare, oltre che quello puramente geografico? Che valore ha il mare?
Il sentimento di vivere in un’isola è
molto importante per i cubani: ha a che fare con la storia, con la società e
l’economia di Cuba. La cultura cubana ha sempre avuto il mare come riferimento-
anche se ci sono dei poeti che lo hanno considerato come una circostanza
maledetta: il mare è la frontiera, il fine ma anche il principio e per questo
ha tante valenze a Cuba. Al di là del mare c’è il mondo- buono o cattivo che
sia- il mistero, le altre possibilità. Per questo è più di una realtà
geografica. E’ un elemento culturale e poetico per i cubani.
E Miami, al di là del mare? Che cosa è Miami per i cubani? Un sogno, un
mistero?
Miami è sempre un gran mistero, un mistero
attraente per i cubani dell’isola, e noi stessi abbiamo creato il mito di
Miami. Molti cubani, appena arrivati là, non trovano ciò che avevano creato
nella loro mente: Miami non è sempre il luogo della ricchezza e neppure quello
della libertà, ma continua ad esserci un fantasticare mitico su Miami. D’altra
parte Miami è la seconda città dove vivono più cubani: è una realtà con cui
dobbiamo vivere- la metà della famiglia dei cubani sta a Miami; da Miami viene
il denaro per aiutare chi è rimasto a Cuba. Non è solo un mito ma una realtà
molto presente per i cubani.
I primi due romanzi della serie furono scritti nel 1991, l’ultimo nel
1998 e mi pare ci sia una maggiore reticenza nei primi due, minore libertà di
parola, meno cenni espliciti alla vita quotidiana a Cuba. Era maggiore la
censura?
Sì, negli anni ‘90 ci fu un’apertura
importante nella cultura cubana e questa apertura è stato un favore che ci ha
fatto la crisi economica. Fino agli anni ‘80 tutta l’industria culturale era
sostenuta dal governo cubano. A partire dagli anni ‘90 lo stato non ebbe più i
soldi per l’industria culturale: chiudono le case editrici, le case produttrici
di film, manca l’elettricità nei teatri, le gallerie d’arte chiudono, e questo
ha a che vedere con la crisi- crea uno spazio tra i creatori e l’industria culturale
dello stato ed è uno spazio di libertà. Molti artisti lasciano l’isola in una
sorta di diaspora, ma molti di quelli che restano cercano editori fuori da Cuba:
entriamo nel mercato dell’arte e questo aiuta a concretare lo spazio di libertà
che si era creato. Significa che, se uno scrittore non ha un editore a Cuba,
non viene neppure censurato a Cuba. Quindi le sue referenze sono gli editori a
Barcellona, a Zurigo, in Italia…Io, per esempio, ho un agente in Spagna dal ‘95.
Quello che si può pubblicare è più libero. I miei libri non furono mai
censurati: se li avessi scritti negli anni ‘70 avrei avuto grandissimi
problemi; negli anni ‘80 sarebbero stati censurati; negli anni ‘90 sono stati
pubblicati e si sono aggiudicati dei premi.
Nei romanzi il Conde ritorna spesso a parlare della guerra in Angola in
cui l’amico Carlos è stato gravemente ferito. In “Paesaggio d’Autunno” la
guerra in Angola ritorna addirittura in un frammento di un presunto romanzo del
Conde: vogliamo parlare di quella guerra?
La guerra in Angola è durata dal 1976 al
1989 e la mia generazione ha partecipato a questa guerra- eravamo tra i venti e
i trenta anni. Molti dei miei amici hanno partecipato, io sono andato come
giornalista. Fu un’esperienza che segnò la mia generazione, non tanto per il
numero dei morti, che non fu alto, ma perché fu l’unica guerra della mia
generazione e niente segna più della guerra. Poi era in un paese lontano,
straniero, con usi diversi e in cui si doveva restare per uno o due anni.
La partecipazione alla guerra era volontaria?
Mah, relativamente,
perché la volontarietà è complicata nelle società socialiste. Io utilizzo la
guerra tramite Carlos: storicamente la guerra fu importante per la storia
dell’Africa, perché si parte dall’Angola e si termina con la fine
dell’Apartheid. A me interessa la piccola storia, quella delle persone che
tornarono traumatizzate, come Carlos.
In “Maschere” ci sono due temi adombrati dietro il delitto: la
persecuzione degli omosessuali e quella degli intellettuali. A distanza di
vent’anni, è cambiata la situazione?
La situazione è molto cambiata: oggi non
esiste e non sarebbe neppure possibile che esistesse l’emarginazione degli
artisti e degli omosessuali come negli anni ‘70. Negli ultimi due anni si è
anche iniziato a discutere di questa storia: chi furono i responsabili, chi le
vittime. Perché nella società cubana di oggi si è presa coscienza del fatto che
fu un episodio nero nella storia politica, sociale e culturale della
rivoluzione e che si tratta di qualcosa che non deve accadere di nuovo.
Noi ci siamo
incontrati lo scorso anno, quando c’erano grandi speranze di novità con Raùl al
governo al posto del fratello. Sono state soddisfatte quelle speranze? O i
primi cenni di cambiamento si sono fermati?
Pareva ci sarebbero stati più cambiamenti
ma non è stato così. C’è stato però un elemento imprevisto: tre uragani che
hanno avuto gravi conseguenze per l’economia. Il governo ha dovuto deviare
degli aiuti decisivi per aiutare la situazione. Soprattutto gli uragani di
agosto e settembre, i primi due, sono stati molto distruttivi. E poi è iniziata
la crisi economica, è salito il prezzo del petrolio, quello degli alimenti…E
tutti i cambiamenti economici che ci aspettavamo si sono fermati. Ora dovremo
vedere se c’è volontà di fare veramente dei cambiamenti politici ed economici:
anche la sopravvivenza del sistema dipende da questi cambiamenti.
Tutto il mondo ha gli occhi sugli USA in questo momento, ci si domanda
se Obama toglierà l’embargo: se avvenisse, quali sarebbero i cambiamenti più
significativi e immediati?
La prima cosa sarà che
verranno gli americani: turisti, accademici, visitatori. E tuttavia c’è la
crisi in atto che potrebbe frenare il tutto. Questa presenza nord-americana
obbligherà l’economia e la società a incontrarsi con una realtà diversa da
quella conosciuta finora: l’industria del turismo, le relazioni tra le persone,
ci sarà poi l’esigenza di infrastrutture…In parte ciò genererà un movimento
economico, ma anche una contaminazione politica e ideologica. Però non dobbiamo
averne paura, è necessario che avvenga e che le relazioni tra Cuba e stati
Uniti si trasformino in relazioni normali.
Di recente la figlia di Fidel ha detto che l’antiamericanismo ha finito
per giovare al governo del padre: pensa che abbia ragione?
Non credo che a Cuba ci sia un sentimento
antiamericano. Anzi, penso che a Cuba si ammiri molto il modello
nord-americano. Oggi uno dei problemi sociali e culturali di Cuba è che le
persone vedono la TV
latina di Miami e ne fanno un punto di riferimento- ma sono spettacoli
negativi. Non credo ci sia mai stato un antiamericanismo a Cuba; è esistito un
sentimento politico- non culturale e non sociale- antimperialista, come può
esserci in Italia o in Spagna. La differenza è che a Cuba è stato più
utilizzato da parte del governo.
Quest’anno c’è stato il cinquantenario della rivoluzione: non ha avuto
un grande rilievo sulla nostra stampa. Quali sono stati i sentimenti prevalenti
qui a Cuba?
Anche qui è stato
festeggiato in sottotono, è come se la gente non avesse voglia di celebrare: i
cubani sono stanchi, vorrebbero festeggiare altre possibilità. Alla gente non
importano i cambiamenti politici ma quelli nella vita quotidiana, nelle loro
possibilità economiche e sociali. Anche se la situazione non è cambiata per
tanti anni, non c’è stata tutta questa allegria per celebrare, né da parte
delle persone comuni né da parte del governo. Persino il discorso dell’8
gennaio, anniversario dell’entrata di Fidel all’Avana, lo ha fatto il presidente
dell’Ecuador, Correa- molto strano…