domenica 30 novembre 2025

Celia Fremlin, “La lunga ombra” ed. 2025

                   Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

                                    cento sfumature di giallo



Celia Fremlin, “La lunga ombra”

Ed. Sellerio, trad. Chiara Rizzuto, pagg. 280, Euro 14,25

      La lunga ombra del titolo di questo scoppiettante giallo psicologico di Celia Fremlin, scrittrice inglese nata nel 1914 e morta nel 2009, è quella del marito di Imogen. Ivor è morto da poco in un incidente automobilistico (aveva la stanza prenotata in albergo per la sera del convegno in un’altra città, perché mai l’aveva disdetta e si era messo al volante nella notte?), ma la sua lunga ombra si estende sulla grande casa, sulla moglie (la terza) e su tutti gli ospiti (per lo più non invitati) che arriveranno per passare il Natale con Imogen, per non lasciarla sola (dicono).

    Dopo Francis Blundy, il marito eminente poeta e uomo egocentrico del romanzo di Ian McEwan, ecco Ivor, professore emerito di Lettere Classiche, un manipolatore pieno di sé, un altro uomo da cui le donne farebbero bene a tenersi alla larga. E invece cadono ai suoi piedi. La prima moglie gli aveva dato due figli e da anni era ricoverata in una casa di cura, la seconda che, a quanto pare, era l’opposto della prima- tanto era intellettuale la prima, quanto svampita la seconda- viveva alle Bermude, ed ora Imogen, nonostante qualche momento di nostalgia, tira un sospiro di sollievo, finalmente si sente libera, finalmente non deve essere in perenne servizio dei desideri del marito.


    Una di quelle prime notti in cui è sola, però, una telefonata la sveglia. Una voce maschile la accusa di aver ucciso il marito. Assurdo. Lei era a casa. No, ci sono testimoni che l’hanno vista nell’albergo dove Ivor avrebbe dovuto passare la notte. Scatta così l’elemento ‘giallo’ di questo romanzo di un umorismo noir, che mescola mystery, ghost story, giallo con un pizzico di rosa.

   Uno dopo l’altro arrivano gli ospiti (dubitiamo, nonostante le battute tra il serio e il faceto) che siano lì per far compagnia alla ‘povera’ Imogen- la figlia di Ivor in continuo disaccordo con il marito, i suoi due bambini che chiamano ‘nonna’ Imogen anche se in realtà non lo è, il figlio scapestrato che dice apertamente che è inutile che lui paghi un affitto altrove, una ragazza stravagante che lui porta con sé e che affitterà una stanza, la seconda moglie di Ivor con scatolette di pillole per ogni evenienza. E poi, dentro e fuori, la vicina di casa, la vedova modello del ‘caro Desmond’ (l’ultima frase del romanzo è dedicata al ‘caro Desmond’, un magistrale colpo di scena). Adesso che sono tutti lì iniziano ad accadere cose strane.


I bambini vedono Babbo Natale nello studio del nonno (Ivor faceva sempre la parte di Babbo Natale), un bambino ha gli incubi perché vede un volto ghignante chino su di lui di notte, un altro foglio si aggiunge ad uno scritto incompiuto di Ivor  (la calligrafia è identica), il gatto scompare, i bambini scompaiono…E la neve cade sulla campagna inglese.

     “La lunga ombra” è un giallo domestico, leggero, frizzante, una divertente demistificazione del Natale. È il libro perfetto per distrarvi e tirarvi su di morale.



   

martedì 25 novembre 2025

Tommy Wieringa, “Nirvana” ed. 2025

                                           Voci da mondi diversi. Paesi Bassi


Tommy Wieringa, “Nirvana”

Ed. Iperborea, trad. Claudia Di Palermo, pagg. 541, Euro 21,00

 

Amsterdam 2016.

Uno scrittore, Tommy Wieringa, sì, l’autore del libro che stiamo leggendo.

Un pittore, Hugo Adema.

Il fratello gemello del pittore, Willem Adema che ha ereditato non solo il nome del nonno ma anche la sua impresa offshore.

Il centenario Willem Adema, ingegnere civile che si è fatto una fortuna con il petrolio grazie alle sue competenze tecnologiche ma che ha anche un passato ‘ripulito’ e opportunamente modificato.

Una casa, anzi, una magione nel verde dei boschi, Oostraven, dove vivono i due vecchi Adema con le infermiere che si danno i turni per assisterli, dove Hugo si rifugia per dipingere, dove lui, bambino, era stato ‘esiliato’ per tre anni perché in continua lite con il fratello.


     “Nirvana” è un romanzo di doppi, di immagini nello specchio- i gemelli litigiosi come Esaù e Giacobbe, uno con inclinazione artistiche e l’altro che sta approntando la nave più grande che abbia mai solcato i mari per sfruttare al massimo i giacimenti petroliferi nelle acque del Nord; lo scrittore che ha in mente di scrivere un libro sul discusso nonno di Hugo e Hugo che gli ruba la storia leggendo i diari ritrovati del nonno e la mette su tela; il presente con la storia d’amore (finita) di Hugo con una bella fotografa e il passato che si affaccia sul presente con un doppio ritrovamento- di una zia di cui Hugo non sapeva l’esistenza e della governante di Hugo bambino che era stata anche la madre affidataria di Wieringa. È proprio quest’ultima che spalanca le porte sull’oscurità del vecchio Willem Adema, era lei che conservava i suoi diari del tempo di guerra dopo averli trovati nel suo bagaglio quando era stata licenziata da casa Adema (chi li aveva messi lì?).


    Hugo non esegue la volontà espressa nella lettera che la vecchia governante aveva lasciato, che affidava i diari a Hugo e a Tommy Wieringa. Hugo deve affrontare da solo la verità di cui aveva avuto una fugace intuizione quando aveva visto un piccolo tatuaggio sotto l’ascella del nonno. Non era vero che il nonno si era schierato con i tedeschi, che tra l’altro erano i nemici che avevano occupato l’Olanda, perché voleva combattere i russi. Non era vero che, dopo aver visto quello che i tedeschi facevano in Russia, era passato nelle file della Resistenza. Non era vero che era stato assolto dal tribunale dopo la fine della guerra. Aveva fatto parte delle SS, punto e basta.


Aveva assistito a scene di una violenza indicibile. Aveva partecipato a massacri. Ci aveva fatto l’abitudine in un sonno della coscienza ed era stranamente sopravvissuto fino alla fine. Altri segreti ancora vengono fuori dai diari, sul periodo in Venezuela, sul suo matrimonio con una ragazza il cui sangue creolo sarebbe riapparso a sorpresa (sgradita) nel figlio, il padre dei gemelli, su quella zia che Hugo ritrova e che lo scambia per il nonno di Hugo, il suo proprio padre. Perché c’è anche questa beffa del destino, assomigliare fisicamente ad un nonno che si finisce per disprezzare, essere un suo sosia più giovane.

 

il personaggio vero dietro Willem Adema 

   Il presente è fatto di squarci di memorie felici di Hugo con la fotografa che poi sbandiererà il loro rapporto in una mostra fotografica svilente per Hugo, di incontri tenerissimi con le due persone che finiscono per essere ‘famiglia’ per il protagonista, di mesi di una ripresa furiosa di creazione pittorica mentre lo scrittore scompare nell’ombra: la storia di Willem Adema appartiene al nipote e non a lui, che però, con un effetto meravigliosamente straniante, ce la racconta nel romanzo che stiamo leggendo.

    Ancora un altro doppio mentre ci avviciniamo alla conclusione- Willem il giovane trionfa al varo della gigantesca nave, un futuro sempre più ricco si apre davanti a lui (e a chi importa delle conseguenze ambientali, del cambiamento climatico, tutte ‘chiacchiere di scienziati sovvenzionati’); Hugo allestisce una mostra di quadri rivelatori, con un percorso punteggiato da brani presi dal diario del vecchio Adema che i visitatori ascolteranno nelle cuffie- la verità deve venire alla luce. “Tutto brucia a causa del fuoco della brama…Lìberati vedendo la brama in ogni cosa…La risposta al dominio del fuoco è l’assenza di fuoco. L’estinzione. Il nirvana.”

     Un libro bellissimo. Da leggere.  


sabato 22 novembre 2025

Ian McEwan, “Quello che possiamo sapere” ed. 2025

                     Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

        distopia

Ian McEwan, “Quello che possiamo sapere”

Ed. Einaudi, trad. Susanna Basso, pagg, 376, Euro 19,95

 

    E’ il 2119. C’è stato un drammatico cambio epocale tra il XXI secolo in cui stiamo vivendo e il XXII in cui si muovono i personaggi dello straordinario nuovo romanzo di Ian McEwan. Prima il Grande Disastro, poi l’Inondazione. A seguito di un lancio di missili le acque dell’Oceano si sono sollevate rovesciandosi su gran parte dell’Europa occidentale. La Gran Bretagna è diventata un arcipelago di isole, qualunque spostamento diventa difficoltoso. Se nel XXI secolo la sovrappopolazione era un problema, adesso questo problema è scomparso, l’Inondazione ha decimato gli abitanti del nostro pianeta. Anche i beni materiali scarseggiano, certi alimenti sono introvabili.

      In questo nuovo mondo (quanto lontano dal “Coraggioso nuovo mondo” di Huxley!) Thomas Metcalfe, studioso della letteratura degli anni tra il 1990 e il 2030, è sulle tracce di un poema scomparso. Si tratta della Corona per Vivien di Francis Blundy, una sequenza di sonetti in cui ogni sonetto inizia con il verso con cui termina quello precedente. Il grande poeta Francis Blundy lo aveva scritto per il compleanno della moglie ed era stato recitato nel 2014 ad una cena in cui erano presenti, oltre alla festeggiata, la sorella di Blundy con il marito (editor di Blundy, incaricato di scrivere la biografia del poeta), e altre coppie di amici. Il poema però era scomparso, tutto quello che se ne sapeva era i riferimenti che si erano trovati nello scambio di mail, stralci di diari, allusioni a quella sera di libagioni e cibi deliziosi ormai introvabili nel 2119. Erano tutti riuniti nel grande Casale di Blundy per quel “Second Immortal Convivio” (il riferimento era al Primo Convivio del 1817 a cui avevano partecipato Keats e Wordsworth). Era una documentazione che lasciava trapelare le correnti di amore, gelosia, invidia tra i presenti, che raccontava del primo matrimonio di Vivien con un liutaio vittima di Alzheimer in giovane età, delle ambizioni a cui Vivien aveva rinunciato per mettersi a disposizione del poeta dall’Ego smisurato- e però, a parte le parole di ammirazione per il poema, non c’era altro su che fine potesse avere fatto.


     Metcalfe riesce a dissotterrare un contenitore nel luogo dove una volta, un centinaio di anni prima, si ergeva il Casale- e questa parte del libro sembra presa da un romanzo di avventura con l’avanzare dello studioso e della moglie in un bosco inselvatichito dopo aver dovuto noleggiare un’imbarcazione con tanto di skipper per arrivare là dove un tempo era tutta terraferma. Ed ecco che inizia un secondo romanzo, del tutto diverso da quello che abbiamo letto finora. È scritto da Vivien, una sorta di diario sulla cui veridicità non possiamo avere dubbi. È tutta un’altra storia che, in certo qual modo smitizza quella precedente, una storia di amore, di tradimento, di colpa. Soprattutto di colpa e di rimorso. Dobbiamo rivedere tutto quello che abbiamo pensato del grande poeta (molto borioso, a dire il vero) e della stessa Vivien e del loro amore. E naturalmente apprendiamo che ne è stato della Corona e quale significato avesse e perché dovesse scomparire.


   Due romanzi in uno, leggere “Quello che possiamo sapere” è come guardare le due facce della stessa medaglia, e l’effetto è straniante. Il romanzo ambientato nel futuro è soffuso di un’atmosfera tragica e nello stesso tempo nostalgica (quella stessa nostalgia che prova Winston Smith nel “1984” di Orwell)- chi guarda al passato (ai giovani non interessa il passato, faticano a portare a termine la lettura di un libro di neppure cento pagine, gli studi umanistici sono in declino) prova nostalgia per un tempo in cui vivere sembrava più bello, in cui c’erano più specie di animali e di fiori, alimenti più vari e gustosi- ma che cosa sappiamo veramente del passato? Quali verità si celano dietro gli scritti del passato ormai tutti conservati in forma digitalizzata? Quale era la vera vita dei personaggi famosi e mitizzati?

Il romanzo ambientato nel presente di noi lettori toglie il velo davanti al mondo sognato e rimpianto nelle pagine del futuro, ne mostra le meschinità e le brutture ed è come se anche a noi togliessero una benda dagli occhi- forse preferivamo il nostro tempo visto attraverso la lente del futuro, forse c’è un equilibrio tra le due prospettive.


     La distopia di McEwan si basa soprattutto sulle conseguenze del cambiamento climatico, sia nell’ambiente sia nella società e nelle nazioni (l’America è diventata un luogo pericoloso dove spadroneggiano i signori delle guerra e la Nigeria è il paese più ricco del mondo) e il ‘primo’ romanzo ha un passo più lento- la ricerca del poema e la celebrazione della grandezza di Francis Blunty, nonché la storia d’amore di Metcalfe con la compagna studiosa, ci richiamano alla mente “Possessione” di Antonia Byatt-, più vivace e ricco di sorprese il “romanzo dentro il romanzo”. Quello che conta, però, quello che ci affascina, quello che ci tiene legati al testo, è proprio la loro giustapposizione, la doppia prospettiva, e quel pizzico di suspense.



martedì 18 novembre 2025

Frances Cha, “La bellezza delle altre” ed. 2025

                                                 Voci da mondi diversi. Corea



Frances Cha, “La bellezza delle altre”

Ed. Astoria, trad. Omboni e Russo, pagg. 251, Euro 19,00

 

    Corea del Sud. Seoul. Cinque ragazze, tutte più o meno ventenni, tutte che condividono miniappartamenti, officetel (uno dei tanti termini del linguaggio della Corea di oggi), tutte con storie più  o meno tristi alle spalle, tutte con ambizioni che rispecchiano la società in cui vivono.

    La bellissima Kyuri (quanta della sua bellezza è sua e quanta è dovuta a interventi chirurgici?) lavora in un room salon (locali molto esclusivi dove i clienti uomini vengono intrattenuti da belle ragazze che li spingono a bere); Ara fa la parrucchiera, è muta per un trauma subito quando era bambina e vive in adorazione di un noto cantante; Sujin (l’unica che non ha capitoli in cui è la protagonista dominante, ma appare negli altri delle sue amiche) vuole essere assunta pure lei in un room salon e investe tutti i risparmi per un intervento con lo stesso chirurgo che ha operato Kyuri. Non si tratta solo di rifare gli occhi (le donne asiatiche sono ossessionate dalla singola palpebra che è la loro caratteristica, vogliono avere la palpebra doppia come le donne occidentali), deve anche fare un intervento per ridurre la mascella squadrata che verrà tagliata e riposizionata smussando entrambi i lati: saranno cinque o sei ore di operazione, quattro giorni di ospedale, sei mesi perché il viso abbia un aspetto naturale. Naturalmente il chirurgo non parla del dolore, della fatica a masticare…Miho è un’artista e ha vinto una borsa di studio per un’università americana, al suo ritorno, però, resta anche lei intrappolata nel mondo del lusso e delle gallerie d’arte; Wonna, infine. Le ambizioni di Wonna sono del tutto diverse, Wonna va controcorrente. In una società in cui le ragazze non si sposano più, nonostante le suppliche materne, dove la natalità è pressoché zero, Wonna vuole un figlio, si sposa per avere un figlio, è incinta e ha il terrore di abortire, e naturalmente incontra difficoltà sul lavoro- che non pensi neppure di prendere dei mesi di aspettativa, pena il licenziamento.


   Non c’è una vera e propria trama ne “La bellezza delle altre”, i capitoli passano dall’una all’altra delle protagoniste, ci sono le serate al room salon, le illusioni- che l’uomo che ha regalato una borsa di Chanel abbia intenzioni serie, che il famoso cantante le rivolga la parola, che il nuovo viso per cui si è sofferto tanto spalanchi nuove porte-, le sbronze (quanto bevono, quanto vengono fatte bere, le ragazze dei room salon), ci sono però anche le confidenze, i piccoli gesti di solidarietà, di conforto, di amicizia fra le ragazze.

     È una Corea del secondo millennio quella che Frances Cha ci presenta nel suo romanzo, una Corea che è lontana anni luce da quella dei genitori delle ragazze che sono preoccupati perché non si sono ancora sposate.

Ci spaventa un poco questa Corea in cui quello che conta è l’apparire, la bellezza (Kyuri ha chiesto al chirurgo che il suo viso venisse modellato per assomigliare a quello di una famosa cantante)- un regalo diffuso per i diciotto anni è un intervento di chirurgia plastica (un personaggio minore del libro incomincia molto prima ad andare sotto i ferri) e poi non c’è fine ai ritocchi e a nuovi interventi- e la ricchezza.


D’altra parte già Scott Fitzgerald lo aveva detto, “i molto ricchi sono diversi”, e sono diversi anche i chaebol (quante parole coreane impariamo leggendo il romanzo! I chaebol sono le persone che appartengono a una famiglia ricca) de “La bellezza delle altre”- spendono, bevono, fanno costosi regali, ma trattano le ragazze del room salon come oggetti e obbediscono ai genitori quando devono scegliere una moglie. Questo è un doppio standard che, invece, non ha nulla di nuovo.

    “If I had your face” è tante cose: un romanzo al femminile (pensiamo a  Frances Cha come a una Jane Austen in un altro ambiente e più di due secoli dopo), un romanzo di un nuovo tipo di cultura, un romanzo distopico eppure terribilmente reale.



giovedì 13 novembre 2025

Andrew Miller, “La terra d’inverno” ed. 2025

                         Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda


Andrew Miller, “La terra d’inverno”

Ed. NN, trad. Ada Arduini, pagg. 300, Euro 19,00

 

  Dicembre 1962-febbraio 1963. L’inverno più freddo del secolo (ci si dimentica sempre di quelli precedenti). Un paesino nella campagna inglese. Due coppie, Eric e Irene, Bill e Rita, vicini di casa ma agli antipodi nella scala sociale. Eric è un medico, l’incontro con Irene è stato un momento romantico, durante una festa. Bill e Rita hanno un passato più oscuro- Bill perché figlio di un immigrato ungherese che ha cambiato nome e si è arricchito affittando appartamenti fatiscenti a prezzi esorbitanti, Rita- be’, perfino suo marito non vuole sapere nulla del passato di Rita, su che lavoro facesse. Entrambe le coppie sono in attesa di un bambino.

    Non succede molto in questi tre mesi. Succede la vita, mentre la neve cade, le due case rimangono isolate- il combustibile dura un poco di più nella casa del medico, si gela nella fattoria di Bill e Rita-, e la neve continua a cadere, Irene e Rita sono diventate amiche e giocano come bambine a fare un pupazzo di neve, un vitello nasce morto mentre Bill sogna un grande allevamento nell’hangar che ha scoperto nel suo terreno, un giovane paziente di Eric si suicida nel manicomio vicino al paese. Soprattutto, Eric ha una relazione con una donna sposata che incontra di nascosto.


    La tensione all’interno delle due coppie è palpabile, anche se Irene cerca di comportarsi come la mogliettina premurosa delle riviste femminili, anche se Rita cerca di dimenticare il difficile passato che si ripresenta sotto forma di voci che sente solo lei. Un party natalizio in casa di Eric e Irene è il punto centrale ma anche il punto di svolta del romanzo. Gli invitati bevono (molto), Irene sorprende l’amante del marito nella sua stanza da letto. Non sa nulla ma forse percepisce qualcosa, prova disagio alla domanda inutilmente curiosa dell’altra donna che le chiede da che parte dorma Eric. Alla festa c’è un’altra coppia di amanti e ci si stupisce che esibiscano così il loro rapporto (è il 1962, ricordiamolo. Solo pochi anni prima la principessa Margaret aveva dovuto rinunciare all’uomo di cui era innamorata perché era sposato).

    Arriva gennaio, il freddo non demorde, l’insoddisfazione all’interno delle due coppie cresce, Irene trova una lettera, ognuno dei personaggi cerca una maniera per uscire da una situazione che li imprigiona, succederanno delle cose (non belle).


    È straordinario come Andrew Miller (il suo romanzo è shortlisted per il Booker Prize 2025) riesca a rendere coinvolgente e appassionante un libro in cui succede così poco, in cui la lentezza di una trama quasi inesistente è pareggiata dalla neve che cade con lenta dolcezza, il biancore del paesaggio simboleggia quasi l’assenza di colore della vita dei personaggi, la scena dolorosa del vitellino nato morto anticipa nel mondo animale altre scene dolorose.

C’è però un’arte particolare nella narrativa di Andrew Miller, c’è un’atmosfera sospesa di incanto, una capacità di visione poetica che mi ricorda quello che era l’intento di Wordsworth nella sua poesia- rendere straordinario il quotidiano, l’ordinario, accendere la luce di un terzo occhio su quello che è intorno a noi.



domenica 9 novembre 2025

Intervista a Kristen Loesch, autrice de "La vedova di Hong Kong" 2025

                          Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

                                 cento sfumature di giallo

                                  mystery


Cina, Hong Kong, presente, passato, un assassinio di cui sono rimaste tracce di sangue senza cadaveri, fantasmi e burattini. Parliamo con Kristen Loesch
 del suo intrigante romanzo, “La vedova di Hong Kong”.

Ho osservato che Lei scava nel passato dei suoi personaggi  e dei paesi in cui vivono- era così ne “La bambola di porcellana” e pure ne “La vedova di Hong Kong”. Che cosa La affascina nel passato?

   La verità è che non lo so! Tutto quello che so è che sono sempre stata attratta dalla Storia. Ho studiato Storia all’Università e ho esplorato elementi di Storia russa per la mia tesi del Master. Mi piaceva soprattutto la scoperta della Storia al di là dei libri di testo: la vita della gente comune, le storie che si perdono nel tempo e, più di tutto, i segreti. Sento come se il passato estendesse i suoi tentacoli in così tanti aspetti della nostra vita. E tuttavia, in un certo senso, ci è per sempre inaccessibile- questi temi affiorano con forza nei miei libri.

Parlando del passato- non sapevo che ci fosse un ghetto a Shanghai. Era molto affollato? Aveva cancelli che venivano chiusi di notte, come quelli in Europa? O era semplicemente un’area in cui erano rinchiusi gli ebrei?

il ghetto di Shanghai nel 1943

     Non è l’unica, penso che siano in molti a non sapere che c’era un ghetto a Shanghai. Mentre cresceva la persecuzione degli ebrei nella Germania nazista degli anni ‘30 del ‘900, Shanghai era uno dei pochi posti al mondo in cui i rifugiati ebrei erano benvenuti. Quindi c’era una popolazione abbastanza numerosa quando la Guerra del Pacifico si intensificò nei primi anni ‘40. Era molto affollata, c’erano molti cinesi che vivevano già nell’area designata per i cosìddetti ‘rifugiati apolidi’ e le condizioni di vita erano miserabili. No, non aveva un cancello, ma soltanto alcuni residenti con lasciapassare speciali potevano uscire. Era controllato da amministratori giapponesi e pattugliato da soldati giapponesi.

In entrambi i romanzi Lei trasporta il lettore in paesi lontani- era la Russia nel primo romanzo ed è la Cina in questo. Da dove proviene il suo interesse per questi paesi?

    In entrambi i casi il mio interesse risale alla storia della mia famiglia, e, stranamente, al mio nonno materno. Era originario della Cina settentrionale e aveva una parte di sangue russo. Per quello che riguarda la Russia, poi, fin da bambina mi sono sentita attratta dalla letteratura russa.

    Mi è piaciuta la voce della protagonista de “La vedova di Hong Kong”. Mi è piaciuta molto la sua voce di quando era bambina. C’è un personaggio nel romanzo nei cui panni Le è stato più difficile mettersi? Io ho pensato che Holly Zhang fosse un personaggio difficile e ambiguo.

    Grazie per le sue parole gentili sulla voce di Mei. Di tutti i miei personaggi, è per Mei che provo più affetto e mi chiedo se sia per tutto il tempo che passiamo con lei nella sua giovinezza, quando è così innocente ed interamente alla mercé delle persone e delle forze intorno a lei. É stato divertente scrivere di Holly Zhang, anche se ha ragione a dire che è ambigua e poi ci sono in lei molte parti in conflitto- mi è piaciuta la sfida di scriverne. Direi che il personaggio di cui mi è stato più difficile scrivere è quello di Mei come giovane donna (è stato più facile scrivere di lei da bambina e poi da donna anziana), e, dopo Mei, ho trovato difficile scrivere di Jamie.

      Come è riuscita a seguire i tre filoni temporali in maniera coerente? Non faceva confusione?

    É stato certamente un compito difficile entrare ed uscire in tre narrative. Non sono certa che lo rifarò. Ci sono state alcune volte in cui ho dovuto separare I tre filoni temporali in tre diversi documenti Word e lavorarci uno alla volta per essere certa che la storia scorresse. Mi sentivo spesso sopraffatta e tuttavia amavo quei momenti quando riuscivo a sentire che i filoni si incastravano acquistando significato. Sono questi i momenti che amo di più anche come lettrice di romanzi storici su diversi piani temporali.

     Nella nota a fine libro accenna ai suoi parenti cinesi e al tempo passato a Hong Kong- che cosa c’è della storia della sua famiglia nel romanzo? Che cosa ha conservato, in Lei, della sua eredità cinese? Voglio dire- c’è in Lei qualcosa che pensa sia dovuto all’origine cinese della sua famiglia?

    Nel libro ho intessuto molte delle esperienze giovanili di mio nonno: come Mei, veniva da un piccolo villaggio rurale, finì a Shanghai e poi dovette fuggire dalla Cina durante la Rivoluzione Comunista. Come Mei, non rivide più nessuno di quelli che si era lasciato alle spalle. Trovava difficile parlare di quei decenni della sua vita, il che naturalmente mi rendeva ancora più interessata a saperne qualcosa, ma so che erano molto dolorosi. Penso che, scrivendo questo romanzo, io abbia cercato di onorare la mia eredità cinese e abbia anche cercato di sentirmi più vicina ad essa. Sono cresciuta parlando mandarino e in stretto contatto con la parte cinese della mia famiglia e voglio mantenere viva quella parte di me.


Perché scegliere il Peak per Maidenhair House?

     Quando vivevo a Hong Kong ero attratta dal Victoria Peak, dalla sua bellezza e dal suo mistero. Per tradizione è un’area molto ricca e appartata; naturalmente adesso ci sono sentieri su cui sciamano i turisti e in cima c’è una vasta piattaforma-belvedere, con ristoranti e tutto quello che ci si può aspettare come trappola per turisti in una grande città, ma, nello stesso tempo, è ancora inquietante e remota, con tratti che sono poco più che una giungla punteggiata da case nascoste. Una di queste case è una dimora abbandonata che ho usato come ispirazione per Maidenhair House, la magione  del mio romanzo. Si dice che sia infestata dai fantasmi e certamente lo sembra.

   I personaggi/non-personaggi più intriganti del romanzo sono I fantasmi (a proposito, li chiama ‘ghosts’ o ‘phantoms’? farebbe differenza?). Sono entrambi important nella cultura cinese. Che cosa rappresentano? I fantasmi sono forse sentimenti repressi o parti del passato dei personaggi? Le marionette sono una sorta di ‘doppio’?


    Li chiamo ‘ghosts’, ma questa è una grande domanda. La differenza tra ‘phantoms’ e ‘ghosts’ è sottile. ‘Ghosts’ in genere sono gli spiriti dei defunti. Il significato di ‘phantoms’ è più ampio e meno specifico. Un ‘phantom’ potrebbe essere un ‘ghost’ o potrebbe anche essere un altro tipo di apparizione, e ha anche un altro significato che si riferisce a un’illusione, a qualcosa di allucinatorio o di immaginato. Penso inoltre che ‘phantom’ abbia una sfumatura leggermente più minacciosa di ‘ghosts’, anche se non sono certa del perché. E sì, assolutamente, i fantasmi sono parte integrante della cultura cinese, c’è una mitologia ricca e affascinante su di loro, come pure ci sono tradizioni, festival, riti e così via. Questo si collega con il tradizionale teatro delle ombre cinese che viene usato per raccontare leggende e storie. Nel mio romanzo i personaggi sono tormentati sia da fantasmi veri e propri sia da fantasmi metaforici, da persone veramente morte ma anche dal loro stesso passato, in un certo senso da quello che sono stati. Penso che il teatro delle ombre sia un ottimo simbolo per questo: un burattino ombra è la rappresentazione piatta, bidimensionale, di una persona, incompleto per definizione, mancante di dettagli. Non controlla i suoi movimenti, non ha una sua potenza. In questo modo i burattini sono come fantasmi.

La peonia è una specie di simbolo che scorre per tutto il romanzo ed acquista significati diversi. Le peonie sono fiori molto cinesi, vero? Quando sono stata in Cina le ho viste ovunque, spesso su sciarpe e tessuti.


    Le peonie sono ovunque in Cina e probabilmente sono il fiore riconosciuto come il più cinese fra tutti, per i non-cinesi. Sono certa ci siano lunghi articoli, se non libri interi, dedicati al significato e all’importanza delle peonie. Nel romanzo la madre di Mei usava una peonia intagliata nella carta come firma e Mei indossa uno spillone per capelli con la peonia che riveste un gran significato per lei. La peonia simboleggia ricchezza, prosperità, successo e amore, fra le altre cose, e io volevo che questo piccolo simbolo incredibilmente positivo fosse qualcosa a cui Mei si aggrappa mentre affronta le sue molte sfide.

Sta già lavorando ad un altro romanzo con un’ambientazione diversa?

    E sì! Non mi è permesso dirne molto, ma posso dire che sarà in una nuova ambientazione e che sarà un altro thriller gotico su sfondo storico.



 

sabato 8 novembre 2025

Kristen Loesch, “La vedova di Hong Kong” ed. 2025

                          Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

cento sfumature di giallo

mystery

Kristen Loesch, “La vedova di Hong Kong”

Ed. Marsilio, trad. Isabella Zani, pagg. 365, Euro 19,00

 

      Una ricerca nel passato. Un mystery. Una storia di fantasmi che riecheggia un certo Poe e Henry James de “Il giro di vite”, fantasmi elusivi e ambigui. Una storia di madri e figlie. Uno squarcio sulla Storia della Cina sotto l’occupazione giapponese e immediatamente dopo la Rivoluzione culturale. “La vedova di Hong Kong” di Kristen Loesch di cui abbiamo già letto “La bambola di porcellana” è tutto questo: un romanzo intrigante.

      La trama scorre su tre linee temporali: inizia a Seattle nel 2015, si sposta poi in provincia dello Jiangsu, in Cina, nel 1937, a Hong Kong nel 1953 e, sempre a Hong Kong, ma nel 2015. L’ambientazione contemporanea è una narrazione in prima persona- Susanna, figlia di Mei (l’io narrante che ora ha 85 anni), ha ricevuto una lettera anonima in cui si diceva che quanto era accaduto a Maidenhair House, a Hong Kong, in una notte di fine estate del 1953, era tutto vero. C’era stato un massacro, erano state uccise delle giovani donne anche se nessun corpo era stato trovato- il luminol aveva rilevato sangue dappertutto. Una ragazza era scampata- Mei. E si diceva che era lei l’assassina. Ecco perché madre e figlia partono per Hong Kong, salgono sul Victoria Peak, entrano in Maidenhair House.


     Nel 1937 Mei ha solo sette anni, sua madre è scomparsa, da lei Mei ha ereditato l’abilità nel ritagliare figure di carta e una sorta di terzo occhio con cui vede gli spiriti, creature del tutto vere per lei. E’ iniziata la seconda guerra sino-giapponese e Mei viene allontanata dalla famiglia e affidata a quella di Zio che lei crede essere il fratello della madre per scoprire invece che l’adorata mamma era la sua Quarta moglie. In questi anni Mei conosce George Maidenhair, che diventa per lei una figura a metà tra un padre e un maestro, è lui che le insegna a leggere. Ma, dopo la nascita della Repubblica popolare cinese, Mei deve fuggire da Shanghai, a Hong Kong si innamora e poi la sua vita viene spezzata. Il tempo avanza fino al 1953, sempre a Hong Kong. È qui che riappare, nel negozio dove lavora Mei, una ex attrice del cinema muto cinese che dice di essere la moglie di George Maidenhair e chiede a Mei di partecipare a sei serate di sedute spiritiche a Maidenhair House. Mei va, perché vede l’occasione per vendicarsi di George Maidenhair che le aveva causato il dolore più grande della sua esistenza.


    Ho scritto che “La vedova di Hong Kong” è un libro intrigante. Perché mescola elementi molto diversi tra di loro- descrizioni di uno stile di vita della vecchia Cina (Mei si infuria contro l’usanza di ridurre le donne a dei numeri, Prima, Seconda, Terza moglie o sorella, lei è diventata una figlia adottiva perché, secondo una superstizione, in questo modo la Prima moglie avrebbe finalmente messo al mondo l’agognato figlio maschio, ci sono ancora delle donne con i piedini ‘fiore di loto’), il realistico bombardamento di Shanghai con la distruzione del Great World, edificio straordinario per l’epoca con le sue sale gioco, il ghetto ebraico di Shanghai, la città murata di Kowloon dove si riversarono i profughi cinesi.

the Great World

E poi i burattini di carta e i fantasmi,
così prettamente cinesi. I fantasmi entrano ed escono dalle vicende del romanzo, è difficile distinguerli dalle persone in carne ed ossa, appartengono di diritto alla cultura cinese che ha una festa dei fantasmi il quindicesimo giorno del settimo mese lunare, quando si aprono le porte dell’aldilà. Non siamo mai certi di che cosa accada veramente, di che cosa rappresentino questi spiriti che possono anche essere spettri del passato dei personaggi, personificazioni dei loro sentimenti. Leggendo il romanzo, noi ci arrendiamo al pizzico di sovrannaturale, lo accettiamo per quello che è. Quanto alle figure intagliate nella carta e ai burattini di carta che Mei fa per George Maidenhair- anche questi ultimi sono dei doppi di persone che veramente esistono, sfuggenti nella loro fragilità, inafferrabili.


      Un ultimo dettaglio poetico con un risvolto macabro- lo spillone per capelli che il giovane di cui è innamorata ha fatto fare per Mei. Sullo spillone c’è una peonia, il fiore dell’amore, quello che la madre di Mei usava come firma, lo stesso che l’assassino aveva intagliato sulla schiena delle vittime (vittime vere? fantasmi?), il fiore che riappare di continuo come un leit-motiv nelle pagine del romanzo.

     Ricco di colore e di suspense, un page-turner di cui consiglio la lettura.

a breve metterò online l'intervista con la scrittrice



      

venerdì 7 novembre 2025

Intervista a Veronica Santoro, autrice de "L'interprete" 2025

                                         Casa Nostra. Qui Italia

                                          seconda guerra mondiale

                                          intervista


      Chi segue le mie letture sa che leggo più o meno tutti i romanzi ambientati durante la seconda guerra mondiale. Dopo aver letto “L’interprete” di Veronica Santoro ho pensato che mi sarebbe piaciuto sapere di più su quello che c’era ‘dietro’ il romanzo, su Verona in quegli anni, su ‘come’ fosse venuto in mente, ad una scrittrice così giovane, di scriverne. Ecco la nostra chiacchierata (la recensione è uscita sul blog in data 6 ottobre).

L’interprete è il suo primo romanzo, ho letto che, in precedenza, aveva scritto dei racconti. Anche i racconti avevano un’ambientazione storica? come ha deciso di passare alla forma lunga del romanzo?

   No, i racconti non avevano un’ambientazione storica, ma quello che ha vinto il premio per esordienti, “Notturno berlinese”, aveva un’ambientazione tedesca- una sorta di filo rosso che lo unisce al romanzo “L’interprete”. Amo la cultura tedesca, conosco bene il tedesco che uso nel mio lavoro. Per motivi di studio e di lavoro sono molto legata al mondo tedesco e quindi la decisione di ambientare il romanzo nella Verona del 1943 sotto l’occupazione tedesca nasce dall’interesse per i rapporti tra Italia e Germania. D’altra parte a Verona permane il legame con il mondo tedesco- siamo vicini al lago di Garda, ci sono molti turisti tedeschi così come ci sono molte aziende tedesche che hanno scelto Verona come base. Mi appassionava esplorare che cosa è successo quando i tedeschi sono arrivati qui durante la guerra.

Ci può raccontare di più della vicenda originale che è dietro quella del romanzo?

   La storia originale è arrivata come testimonianza da parte del signore che lavora nel palazzo dove sono ambientate le vicende e dove, allora, c’era la sede amministrativa e operativa del comando tedesco. Oggi il palazzo è sede di studi professionali e questo signore, che lavora in portineria, mi ha fermato e mi ha detto che già suo nonno lavorava in portineria durante l’occupazione tedesca, raccontandomi poi della vita che brulicava intorno a quel palazzo. Mi ha mostrato poi la planimetria del palazzo che lui stesso aveva disegnato basandosi sui ricordi del nonno, suddividendo le stanze secondo l’uso che ne era stato fatto- gli uffici per la Gestapo, le stanze per i prigionieri politici, quelle per gli interrogatori. Mi ha regalato quella planimetria dicendo che lui non era capace di usarla per scrivere una storia ma forse poteva dare un’ispirazione a me. Poi è iniziato per me il tempo del lavoro di ricerca storica perché volevo che fosse un romanzo storico che si attenesse ai fatti. Volevo un contesto documentato e fedele. Ho fatto un grande lavoro alla Biblioteca Civica, consultando quotidiani dell’epoca, saggi, libri, materiali in tedesco che parlavano dell’occupazione dal ‘loro’ punto di vista. Mi sono documentata anche sulle biografie degli ufficiali che erano al Comando di Verona. Per i tedeschi era una missione importante, dovevano tener salda la roccaforte dell’Italia settentrionale, perciò gli ufficiali erano figure iperqualificate che si erano distinte in altre operazioni. Erano persone con un alto livello di istruzione e però si erano distinte anche per operazioni di massacro.


Verona nel 1943, Verona durante la guerra: ha sofferto molto Verona durante la seconda guerra mondiale?

    Sì, l’occupazione tedesca è stata molto sofferta a Verona, perché è arrivata in un momento difficile, dopo due anni di guerra. In più i tedeschi arrivarono in gran numero- dobbiamo ricordare che Verona era una piccola città di provincia. Quella dei tedeschi era, numericamente, un’operazione massiccia e, dopo l’intensificarsi dei bombardamenti, nel 1944, la città andò svuotandosi: chi poteva lasciava la città rifugiandosi da parenti in campagna, se li avevano. Il numero dei tedeschi era, quindi, preponderante. Basta dire che i cartelli oppure i menù esposti fuori dai ristoranti erano in due lingue- adesso è normale ma allora non lo era affatto ed è un segnale importante. L’occupazione aveva comportato anche la confisca delle abitazioni, degli edifici e degli alberghi adibiti dai tedeschi ad abitazioni. Tuttavia, leggendo i quotidiani dell’epoca, sembra che in città l’occupazione abbia avuto luogo senza grandi spargimenti di sangue. Erano prepotenti ma abbastanza corretti. Nella zona pedemontana, invece, dove era attiva la resistenza partigiana, ci furono eventi drammatici. Quelli che vissero in quel tempo mi hanno confermato queste impressioni: c’era una cappa di terrore sulla città e la popolazione non ha risposto in maniera violenta, ha subito.

Parliamo dei personaggi del romanzo- il preside Zorzi, sua figlia Delia, l’Hauptsturmführer von Peters, il capitano Hauer. Nessuno dei due tedeschi viene rappresentato come terribilmente ‘cattivo’, di certo proviamo più disprezzo per il preside Zorzi che per loro: era sua intenzione accentuare, in certo qual modo, la colpevolezza degli italiani collaborazionisti?

     Sicuramente il grande tema del romanzo è la zona grigia, la zona in cui si muove la gente che vuole sopravvivere a questo momento di pericolo. La maggior parte galleggia cercando di tenersi in piedi. E sì, Zorzi è più colpevole dei tedeschi. Loro hanno degli ordini e poi l’obbedienza è qualcosa di radicato nella loro cultura, sono cattivi, fastidiosi e sgradevoli ma Zorzi è uno che fa il Male con convinzione. Non sarebbe tenuto a fare il delatore, ad essere un individuo schifoso, potrebbe tenersi nell’ombra e aspettare che la guerra finisca. Zorzi crede nella causa nazi-fascista, è più colpevole perché agisce di sua volontà. Per gli ufficiali ribellarsi sarebbe stato alto tradimento. Il tema del libro è questo: che cosa ha fatto chi era libero di scegliere, chi poteva fare qualcosa? Zorzi è il personaggio più negativo del romanzo.


Hauer è un uomo di sangue freddo, non ha eccessi di sadismo ma è senza scrupoli, ha un ruolo pesante sulle spalle, è la banalità del male, per dirlo con le parole di Hannah Arendt. È un burocrate che deve svolgere il suo dovere.

Ho rispettato le biografie storiche degli ufficiali veramente in carica a Verona, cambiando però il loro nome.

Io stessa ho provato più simpatia per von Peters che per Delia Zorzi che mi è sembrata una persona ambigua. È forse essere sempre stata sotto il dominio del padre a renderla incapace di una posizione decisa?

    Delia è una donna del suo tempo. Mia nonna mi parla dei rapporti con suo padre come rapporti di sudditanza, c’era l’idea della centralità della famiglia in cui la donna era la fattrice. Delia ha un padre fascista, autoritario e sprezzante, lei ha 23 anni ed è sempre vissuta sotto il suo tacco, è rimasta presto senza la madre che avrebbe potuto ammorbidire questa atmosfera. Invece è schiacciata dal padre che la lancia nel mondo offrendola ai tedeschi come traduttrice. Era privilegiata perché aveva potuto frequentare l’università, cosa rara per i tempi, ma aveva sempre vissuto fra le quattro mura di casa. Ha paura, non capisce che cosa sta facendo e il suo ruolo rispetta questa ambiguità: un interprete si muove sul crinale tra due mondi. Lei traduce in maniera asettica, le interessa solo se c’è qualcosa che può riguardare il fratello. Traduce e dimentica, non si fa domande. L’obiettivo è sopravvivere e salvare il fratello. È ambigua, è un’antieroina, non suscita la solidarietà femminile. Però Delia compie un percorso: alla fine la sua ignavia è chiamata a un bivio, alla fine sceglie e sceglie  di saltare nel vuoto, di assumere il rischio. Disegna il proprio destino, ma per due terzi del romanzo subisce, si sporca le mani di sangue per salvare la pelle. Tuttavia è molto umana.


Non ci viene detto apertamente, ma il fatto che von Peters fosse nell’Einsatzgruppe sul fronte orientale ci lascia indovinare di quali colpe si sia macchiato. Eppure il suo palese tormento fa di lui, anche se non pienamente, un ‘nazista buono’- voleva rappresentarlo così?

     No, non volevo rappresentarlo come ‘il nazista buono’. Il dipingerlo così viene dal mio rapporto con i tedeschi che ho conosciuto. Hanno pudore della sofferenza, ma poi raccontano di quello che hanno vissuto durante e dopo la guerra- terribile. Le prime case da cui hanno portato via i disabili furono quelle tedesche, i primi ebrei deportati furono tedeschi, hanno subito il nazismo. La follia collettiva ha fatto sì che subissero. Anche la fase post-bellica fu terribile. I pochi che sono tornati a piedi dalla Russia spesso non furono riconosciuti, molti si diedero all’alcolismo, molti si suicidarono, i più non riuscirono a rifarsi una vita. Subirono un prezzo altissimo come vinti.

   Quella di von Peters è la storia di un uomo che prima faceva tutt’altro, era ricercatore universitario, come molti altri era arruolato nella Wehrmacht e poi era finito nelle Waffen-SS. Deve vivere con dei demoni e questo ce lo rende simpatico in qualche maniera. Sa bene che quello che sta facendo è il Male assoluto.

C’era veramente l’ospedale psichiatrico di cui parla nel libro? che fine hanno fatto i pazienti?

    Non c’era, c’erano però strutture simili su cui mi sono documentata per ambientare in modo realistico quella parte del romanzo. Dopo il 1943 i tedeschi inasprirono le misure non solo contro gli ebrei. I tedeschi cercavano gli ebrei anche negli ospedali psichiatrici dove forse si trovavano nascosti e, quando non li trovavano, rastrellavano gli altri pazienti là presenti.

campo di Fossoli

Nel libro si parla anche del campo di concentramento e di transito di Fossoli. Ormai la guerra nel cui ricordo la mia generazione è cresciuta mi pare così lontana che trovo più che mai importante parlarne. Pensa che le giovani generazioni, e non solo loro, sappiano del campo di Fossoli e della risiera di san Sabba? Non pensa che noi italiani tendiamo a rimuovere la nostra parte di colpa?

    Oggi i giovani hanno molti stimoli ma alcuni di loro hanno anche una sensibilità spiccata e, se stimolati e appassionati, si interessano. La Storia li avvince.

Come figlia e nipote di esuli istriani so bene che cosa sia la rimozione del passato. Il popolo tedesco ha fatto un lavoro incredibile per ricucire la memoria della Storia in comune, ha espiato una colpa collettiva. Da noi questo non è stato fatto. Non abbiamo una visione di insieme, dove si tenga conto dei prezzi della guerra. Abbiamo ancora da fare, e non so se si farà mai, un lavoro serio sulla memoria collettiva.

Sta già scrivendo un altro romanzo? Sarà ancora un romanzo di ambientazione storica?

    Ho in mente varie possibilità ma non sto ancora scrivendo niente. I temi possibili sono tanti, alcuni sono di ambientazione contemporanea.