venerdì 31 ottobre 2014

Chimamanda Ngozi Adichie, "L'ibisco viola" ed. 2012

                                                 Voci da mondi diversi. Africa
                                                         il libro ritrovato


Chimamanda Ngozi Adichie, “L’ibisco viola”
Ed. Einaudi, trad. Maria Giuseppina Cavallo, pagg. 275, Euro 11,00
Titolo originale: Purple Hibiscus   

     “Secondo voi perché vostro padre non vuole che veniate qui?”
    “Non lo so,” disse Jaja.
Io mi succhiai la lingua per scongelarla, e sentii il gusto della polvere sabbiosa. “Perché Papa-Nkukwu è un pagano.” Papà sarebbe stato orgoglioso della mia risposta.
    “Vostro Papa-Nnukwu non è un pagano, Kambili, è un tradizionalista,” disse zia Ifeoma.
    Io la fissai. Pagano, tradizionalista, che importanza aveva? Non era cattolico, tutto qui; non era della nostra fede. Era una di quelle persone di cui chiedevamo la conversione nelle nostre preghiere perché non finissero negli eterni tormenti del fuoco infernale.
   
     Nigeria. Kambili ha quattordici anni. Suo fratello Jaja un paio di più. Il padre Eugene ha studiato all’estero, possiede molte fabbriche, è uno degli uomini più ricchi del paese. E, soprattutto, è molto religioso: preghiera di ringraziamento (lunghissima) prima dei pasti, rosario alla sera, rosario durante i tragitti in automobile, confessione e comunione obbligatoria per tutta la famiglia. La domenica in cui Jaja non si avvicina all’altare per ricevere l’ostia il padre scaglia il messale contro la vetrinetta che contiene la collezione delle statuine della madre: è la scena chiave del libro, quella che inizia il racconto di Kambili che procede a ritroso per ricongiungersi poi con questo momento che segna il cambiamento, la ribellione al padre-padrone.
    Della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie avevamo già letto “Metà di un sole giallo”, un bellissimo libro (vincitore dell’Orange Broadband Prize 2007) sulla guerra del Biafra. “L’ibisco viola” è precedente, pubblicato nel 2003 quando l’autrice aveva ventisei anni, ed è, nello stesso tempo, storia di una famiglia e storia di una nazione: il comportamento autoritario del capofamiglia Eugene riflette quello del governo dittatoriale, le severe punizioni corporali che Eugene infligge a chi fuoriesce dalla retta via (secondo lui) sono soltanto di poco più lievi di quelle subite dai ribelli al regime.
Kambili è la narratrice ‘esterna’ che racconta gli avvenimenti famigliari. Kambili non è obiettiva: venera il padre, lo ammira, giustifica ogni suo comportamento, fa di tutto per guadagnarsi le sue lodi. Forse potremmo dire che Kambili è plagiata dal padre. O forse è il terrore camuffato da amore che la spinge a non dubitare degli ordini paterni o della giustezza delle sue reazioni. E’ il meccanismo del culto della personalità e dei regimi totalitaristi: se il padre punisce uno di loro, vuol dire che questi ha fatto qualcosa per meritare la punizione. Kambili non capisce perché non vuole capire. Non interpreta i colpi sordi che sente provenire dalla stanza dei genitori perché non vuole sospettare suo padre di violenza nei confronti della madre. Non vuole attribuire lividi e gonfiori alle percosse del padre.

Probabilmente Eugene manterrebbe il suo potere sulla famiglia se sua sorella non venisse in visita con i tre figli, se questa non insistesse perché Kambili e Jaja abbiano il permesso di fare una breve vacanza con i cugini. L’atmosfera a casa della zia è del tutto diversa da quella in casa loro: la zia insegna all’università, vive in una zona dove spesso mancano acqua e elettricità, il cibo è quello dei poveri. Ma c’è allegria nella sua casa. C’è allegria persino nella chiesa che frequentano dove si cantano anche canzoni igbo. C’è aria di libertà in casa della zia- l’ibisco dai fiori viola che cresce in giardino ne è il simbolo. Jaja è più pronto a sentire l’influsso del cambiamento. Kambili ha paura di tutto, è paralizzata interiormente. Continua ad obbedire alle leggi del padre perché teme che lui possa ‘vederla’ a distanza. Eppure, quando Kambili e Jaja ritornano a casa, non sono più gli stessi. Hanno imparato che non è necessario essere così fanaticamente osservanti per essere buoni. Anzi. Che tradizionalismo non significa paganesimo (come sostiene il padre che ha troncato i rapporti con il suo anziano genitore per il suo rifiuto di convertirsi). Che la gioia non è peccato e che l’osservanza della parola può esserlo.

       Il finale è sconvolgente e inaspettato in questo insolito romanzo di formazione dove amore e odio scorrono sotterranei e sono spesso indistinguibili l’uno dall’altro. Dove diventare adulti, sia per un individuo sia per un popolo, significa capire la necessità assoluta della libertà e saper essere liberi.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




mercoledì 29 ottobre 2014

Chimamanda Ngozi Adichie

                                                 Voci da mondi diversi. Africa





Chimamanda Ngozi Adichie è una scrittrice nigeriana (Enugu, 15 settembre 1977) di etnia igbo. I suoi romanzi, tutti pubblicati in Italia da Einaudi) sono:


-“L’ibisco viola” (2006), incentrato sui traumi causati da un padre fanatico religioso.
-“Metà di un sole giallo” (2008), che narra la storia di due sorelle sullo sfondo della guerra del Biafra
-“Americanah” (2014) di cui troverete a breve la recensione sul blog

Nel 2005 ha ricevuto The Commonwealth Writers’ Prize con il libro “L’ibisco viola” e nel 2009 il premio internazionale Nonino in Italia per “Metà di un sole giallo”.

Chimamanda Ngozi Adichie, "Metà di un sole giallo" ed. 2008

                                                 Voci da mondi diversi. Africa
                                                            il libro ritrovato


Chimamanda Ngozi Adichie, “Metà di un sole giallo”
Ed. Einaudi, trad. Susanna Basso, pagg. 450, Euro 19,50

    A distanza di quasi quarant’anni si dice ancora ‘sembra un bambino del Biafra’, per indicare un piccolo molto magro. Perché i bambini furono i primi ad essere colpiti dalla fame del Biafra, la fame usata come arma di guerra nigeriana durante i tre anni di guerra civile- dal 1967 al 1970- terminata in quella che fu una catastrofe umanitaria. Che peraltro rese famosi parecchi fotografi (ma questa è un’altra storia). C’era stato un tentativo di colpo di stato, in Nigeria, all’inizio del 1966, di cui era stata attribuita la responsabilità ai capi militari di etnia igbo. Era seguita un’uccisione di massa degli igbo immigrati nel Nord del paese- da qui la dichiarazione di secessione dell’area sud-orientale, popolata da 11 milioni di igbo, autoproclamantesi Repubblica del Biafra con capitale Enugu. Pochissime le nazioni che avevano avuto il coraggio di riconoscere la neonata repubblica, ridotta presto allo stremo dal blocco imposto dalla Nigeria. E’ questa l’ambientazione del romanzo, non perfetto, ma molto bello, molto dolente, della giovane nigeriana Chimamanda Adichie, “Metà di un sole giallo”.
     La metà di un sole giallo è quell’occhio di luce che appare sulla bandiera del Biafra- Stato dalla vita breve. Ed è il leit motiv ricorrente in tutto il libro, quello della metà di un intero, del doppio uguale ma in certo qual modo diverso: uno Stato che si spacca a metà, le due gemelle diverse che sono le protagoniste del romanzo, di cui una, resiliente ma meno bella dell’altra, scompare alla fine, proprio come il Biafra. Scompare- badate bene. Non si sa che fine abbia fatto, non è detto che sia morta. Perché, come dicono le parole di una poesia così spesso ripetuta da risuonare nei nostri orecchi anche a lettura terminata, Se il sole si rifiuta di sorgere, noi lo obbligheremo.   

Si chiamano Olanna (“oro divino”) e Kainene (“vediamo che altro ci riserva Iddio”) le due gemelle che sono i personaggi principali. Non sono due ragazze qualunque. Di etnia igbo, sono le figlie di un uomo importante che si è arricchito favoreggiando le persone giuste, avendo cura anche di investire soldi all’estero. Per coprirsi le spalle. Per fuggire se necessario. E lo sarà.
Fa parte dell’attrattiva del romanzo, leggere vicende che riguardano personaggi che appartengono ad un ambiente elitario e colto e che vivono in un paese dell’Africa che i nostri pregiudizi raffigurano come globalmente arretrato. E così seguiamo le vicende di Olanna, che si innamora del brutto, colto, idealista professore Odenigbo, e di Kainene che fa coppia, invece, con l’inglese Richard, giornalista e scrittore, ne ascoltiamo le discussioni politiche e filosofiche, siamo accanto a loro quando inizia la guerra, tra lo sconcerto, lo stupore, l’incredulità nel sentire dei massacri. Finché Olanna vede la donna che culla la testa mozzata della sua bambina. Finché Kainene vede l’uomo il cui corpo continua a correre senza testa, prima di stramazzare, come fanno i polli. E le gemelle devono, prima una, poi l’altra, abbandonare la sicurezza delle splendide case, gli agi, le cene con gli amici intellettuali, e arretrare nella boscaglia, nei villaggi. Cercare cibo al mercato nero, mangiare lucertole e grilli fritti. Piangere la morte violenta di parenti e amici.

    Ma la storia del Biafra non è vissuta soltanto attraverso le gemelle della classe privilegiata, perché Chimamanda Adichie alterna capitoli in cui Olanna e il suo amante rivoluzionario sono i protagonisti, con altre due serie di capitoli- in una il personaggio principale, quasi la voce narrante anche se in terza persona, è il giovane Ugwu e nell’altra è l’inglese Richard. E sono due punti di vista totalmente diversi, quella di Ugwu, ragazzotto che arriva undicenne a servizio di Odenigbo, non ha mai neppure visto un rubinetto e finisce per scrivere un libro, “Cronaca della vita di un paese”, e quella dell’inglese che sceglie il Biafra come sua patria e scrive il suo atto di accusa contro il mondo dei bianchi, “Il mondo taceva mentre noi morivamo”.

     Il lettore perdona alla scrittrice alcune cadute nel sentimentalismo, la sottolineatura di qualche metafora, perché “Metà di un sole giallo” è un libro bello e terribile- un modo palpitante per conoscere la storia. Per non dimenticare mai.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


martedì 28 ottobre 2014

Richard Morais, "Amore, cucina e curry" ed. 2014

                                                            Voci da mondi diversi.                         
                                                            fresco di lettura


Richard Morais, “Amore, cucina e curry”
Ed. Neri Pozza, trad. F. Novajra, pagg. 283, Euro 12,75
Titolo originale: The Hundred-Foot Journey


    “Non mi piace quello che sta facendo”.
    “Cosa?”
  “Nella nostra strada. Non mi piace la musica, l’insegna. E’ orrenda. Così dozzinale.”
  “Non avevo mai visto mio padre restare a corto di parole, ma dopo quella stoccata era come se qualcuno gli avesse tirato un potente diretto allo stomaco.
  “E’ di pessimo gusto” continuò Madame Mallory spazzolandosi via dalla manica un pelo immaginario. “Deve toglierla. Quel genere di cose andrà bene in India, ma non qui”.

     Da Mumbai all’Inghilterra, da Londra a Lumière, in Francia, dal paesino nel Giura a Parigi. Dall’essere un ragazzino che gioca in strada in India, affinando l’olfatto tra profumi di spezie e maleodoranti acque di scolo, a diventare un famoso chef, l’unico straniero che si sia mai aggiudicato le ambite tre stelle della guida Michelin che premia i migliori ristoranti. Questa è la storia di Hassan Haji- il cognome ci dà subito un’informazione importante che spiega la forzata emigrazione della famiglia. Haji è un pellegrino musulmano che adempie il precetto di recarsi alla Mecca: in quanto musulmani gli Haji sono dovuti andarsene, per evitare il peggio dopo l’inizio dei tumulti. D’altra parte c’era già stata una rottura nella vita della famiglia: quando la madre di Hassan era morta, i colori dell’India erano sbiaditi, l’allegria era scomparsa, dopotutto non era stato un male partire.   

    “Amore, cucina e curry” (già pubblicato con il titolo “Madame Mallory e il piccolo chef indiano”) ha un avvio che non è certo originale, ricalcando parecchi cliché ed offrendoci immagini stereotipate di un paese dei cui profumi nei cibi speziati ci siamo un poco stancati di leggere, con la figura dominante di un capofamiglia roboante ed estroso che decide della sorte di tutti, lanciandosi in un viaggio itinerante di scoperta insieme alla sua numerosa famiglia. Perfino l’incontro/scontro/confronto con la signora Mallory, quando gli Haji interrompono i vagabondaggi e si fermano nella piccola Lumière, è alquanto scontato. E tuttavia la vivacità dello stile di Richard Morais, la vividezza quasi cinematografica delle scene, l’umorismo delle battute e delle controbattute sono tali che la lettura ci diverte, guidandoci fino al cambiamento di scena, quando l’arte culinaria di Hassan si volge dalla tradizione indiana a quella francese.
    C’è un prima e un dopo, dunque. Il ‘prima’ è la battaglia combattuta senza quartiere a colpi di pentole e piatti, di pesci e tagli di carne e verdure. Cerchiamo di capirci: il ristorante della signora Mallory è un’istituzione a Lumière. Ha i suoi clienti fissi, si è guadagnato due stelle Michelin. E adesso arrivano questi stranieri rumorosi, disordinati e volgari, e vogliono mettersi in competizione con il Saule Pleureur? Madame Mallory ha visto con i suoi occhi raccogliere del cibo dal pavimento e rimetterlo in pentola, nella cucina della Maison Mumbai. Abbas Haji vuole guerra? E guerra sia! Lui va presto al mercato per requisire tutto quello che c’è di meglio? Bene, lei andrà ancora prima. Allora lui noleggia un camion frigorifero e va a fare la spesa nella città vicino. Lei protesta per la musica a tutto volume e riesce a far chiudere il ristorante all’aperto? E lui ripesca un’ordinanza che la costringe a far segare i rami del salice che si allungano sulla strada- il salice piangente che dà il nome al ristorante di Madame Mallory!!!

La guerra finisce bruscamente perché succede qualcosa che non doveva succedere, anche se è stato un incidente. L’acerrima nemica diventa l’angelo custode, la maestra di Hassan che si trasferisce al Saule Pleureur come apprendista: Madame Mallory ha riconosciuto in lui l’istinto geniale che lei non ha, il ragazzo arriverà dove lei non è arrivata, penserà lei ad insegnargli. Da questo momento la via alle stelle (anche quelle Michelin) è aperta davanti a Hassan.
    “Amore, cucina e curry” ci fa scoprire molte cose, da quelle più ovvie del divario culturale o dell’acuta nostalgia per il paese che si è dovuto lasciare, ad altre che faranno la delizia degli amanti della buona cucina. Perché impariamo tanto anche noi, alla dura scuola di Madame Mallory. Bisogna studiare parecchio per arrivare lontano, bisogna saper riconoscere la differenza tra un’ostrica e un’altra, oltre che, più banalmente, la freschezza di un alimento. E bisogna osare: seguire passo a passo la preparazione dei piatti riinventati, personalizzati da Hassan, è meglio che leggere ricette su un libro di cucina. Insieme, apprendiamo anche quali difficoltà si nascondano dietro lo scintillio dei bicchieri e le tovaglie inamidate, quanto sia difficile far quadrare i conti. E infine che ci si arricchisce interiormente, che si dà di più, non restando chiusi nelle tradizioni del proprio mondo.

   Il film tratto dal libro è apparso da poco sui nostri schermi, con la regia di Lasse Hallström e Helen Mirren nel ruolo di Madame Mallory.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it



Richard Morais, "Amore, Cucina e Curry" - Trailer italiano ufficiale

  

                                                          Voci da mondi diversi
                                                           dal libro al film

Ecco il trailer del film, con la regia di Lasse Hallström e l'interpretazione di Helen Mirren, tratto dal libro di Richard Morais.

domenica 26 ottobre 2014

Wole Soyinka, "Sul far del giorno" ed. 2007

                                                           Voci da mondi diversi. Africa
     Premio Nobel 1986
     il libro ritrovato


Wole Soyinka, “Sul far del giorno”
Ed. Frassinelli, trad. Alessandra Di Maio e Valeria Bastia, pagg. 706, Euro 18,50

Il seguito di “Aké. Gli anni dell’infanzia”, seconda parte dell’autobiografia di Wole Soyinka, premio Nobel 1986. Una vita impegnata, come difensore dei diritti umani, come studioso, letterato e drammaturgo, sempre presente sulla scena politica del suo paese tormentato da dittature e guerre. Soyinka alterna i toni aspri della critica politica a quelli elegiaci della nostalgia per un caro amico morto e per la sua terra dalla lontananza dell’esilio, a quelli umoristici di varie vicissitudini, incluso il conferimento del premio a Stoccolma.


RECENSIONE E INTERVISTA A WOLE SOYINKA, autore di “Sul far del giorno”



   In Nigeria, dove Wole Soyinka è nato nel 1934, la gente si rivolge a lui chiamandolo oga, che in lingua yoruba significa “capo”, un riconoscimento informale colmo di affetto e ammirazione nei confronti di uno scrittore che ha sempre preso parte in prima persona alla vita politica del suo paese, esponendosi senza riserve per denunciare le colpe dei regimi dittatoriali che si sono succeduti con un ritmo incessante dal 1960, data della fine del dominio britannico: nove colpi di stato in 33 anni. Nella vita personale di Soyinka hanno significato due anni e 4 mesi di prigione, tra il 1967 e il 1969, accusato di simpatizzare con i secessionisti del nord, e l’esilio del 1995, quando gli fu consigliato di lasciare il paese per sfuggire al presidente Abacha, l’uomo che faceva presagire a Soyinka l’avvicinarsi del buio a mezzogiorno descritto da Koestler, il capo della Nigeria “con il cervello di una lucertola”, quello dei tre D come “dittatore, demente, debosciato”.
Sani Abacha
Le memorie di Soyinka contenute nel libro appena pubblicato da Frassinelli iniziano a ritroso proprio dal suo ritorno “nel luogo dal quale non sarei mai dovuto andare via”, nel 1998 dopo la morte di Abacha, e ricostruiscono la sua vita intrecciata inestricabilmente con quella della Nigeria, traboccante di avvenimenti, azioni e pensieri, incontri e scontri, molti riconoscimenti ma anche molti drammi. Ci sono alcuni temi ricorrenti che servono da leit motiv in questa voluminosa e ricca autobiografia- la strada, l’amicizia, la morte, l’esilio, l’impegno civile e letterario.
     “Viandante, mettiti in strada/ Sul far del giorno/ Ti garantisco meraviglie in quell’ora santa”, sono i versi di Soyinka che danno il titolo al libro e introducono il tema della strada, descritta come una lanterna magica, come una compagna o complice nella ricerca di un’autoanalisi. E l’alba, ci dice Soyinka, è il momento che preferisce per mettersi in viaggio, il migliore per sentire le esalazioni della strada. La strada come esperienza, come luogo per la solitudine e per le amicizie, per le riflessioni, le discussioni e i ricordi.

Primo fra tutti quello dell’amico Femi, il cui corpo Soyinka ha da poco riaccompagnato in Nigeria per la sepoltura, una delle molte persone morte evocate in queste pagine, compagni di viaggio lasciati per strada cosicché diventa difficile per lui ormai trovare punti di riferimento: è morto suo padre, che già nel libro di memorie “Aké” veniva chiamato Saggio, sono morti scrittori suoi amici perseguitati dai regimi, è morto avvelenato Abiola, il presidente defraudato della vittoria nel 1993. Ma Wole Soyinka si identifica con Ogun il dio yoruba lirico e guerriero, dio “della strada frenetica e della solitudine creativa, del richiamo poetico e del grido di battaglia”, e non demorde. Soyinka crede che ci sia una missione da compiere, quella di continuare a far battere il cuore della nazione anche dopo che “un dittatore demente” ne ha bevuto il sangue- dopotutto era stato l’amico Femi a dire che si sarebbe potuto affidare il proprio cuore a lui, Soyinka, e partire per Hong Kong, certi di ritrovarlo che batteva ancora al ritorno. E le armi sono quelle dello scrittore, la penna, il palcoscenico per diffondere le idee, per mobilitare la gente denunciando pubblicamente i traditori. Non poteva mancare il riconoscimento del premio Nobel ad uno scrittore della statura morale e intellettuale di Wole Soyinka. Che non si smentisce mai, perché, dopo il conferimento del premio nel 1986, rifiutò i festeggiamenti offerti dal governo del presidente Babangida finché non si fosse fatta luce sulla morte del giornalista investigativo De Giwa.
    Fa una certa qual impressione ritrovare nell’adulto Soyinka, e poi nell’uomo anziano che sfoggia un’incredibile corona di capelli bianchi che lo rende immediatamente riconoscibile (più di una volta Soyinka ricorda episodi in cui ha dovuto nascondere i capelli sotto un grosso berretto per non essere identificato), il bambino Wole di “Aké. Gli anni dell’infanzia”, il primo libro dell’autobiografia dello scrittore. E’ come se ci aspettassimo che il bambino curioso e intraprendente che seguiva sulle sue gambette una banda che suonava, senza neppure sapere dove stesse andando, che a tre anni si era impuntato per andare a scuola, che polemizzava su tutto, facendo domande estenuanti, sarebbe diventato l’uomo che giganteggia nelle pagine di “Sul far del giorno”, tanto appassionato nella ricerca di un’antica maschera bronzea, nel gustare vini francesi e italiani (“chi può resistere a un invito a Siena?”), nel collezionare oggetti d’arte, quanto nel programmare una marcia per far cadere il tiranno, nella difesa dei diritti umani e nella lotta per la giustizia, prima condizione per l’umanità. Impossibile poltrire per avere una vita così piena e ricca: “Viandante, mettiti in strada sul far del giorno…”. Stilos ha intervistato Wole Soyinka che attualmente vive tra gli Stati Uniti e la Nigeria, insegnando nelle università di entrambi i paesi.


In passato Lei ha detto che la religione è la fonte del fanatismo- può la religione aiutare a combattere il fanatismo?
     Penso di aver detto che la religione certamente si presta al fanatismo, ma non è solo la religione a creare i fanatici, anche le ideologie secolari allevano fanatici, e con fanatico intendo qualcuno che si aggrappa a certi credi, certi modi di vita, senza la capacità di esaminare oggettivamente delle alternative. Il tipo peggiore di fanatico è quello che pensa di avere il diritto di uccidere, torturare, disumanizzare gli altri in nome di quello in cui crede. Penso che la religione- anche se storicamente ha dato alla luce in proporzione il numero più alto di fanatici- possa essere interpretata selettivamente in maniera positiva: non c’è nessuna religione che dica che uccidere è essenziale. Se interpreti la religione selezionando testi che si concentrano sulla disumanizzazione degli altri, allora puoi usare la religione per uccidere.

Che cosa pensa della situazione nel delta del Niger e della tendenza che abbiamo in Europa a spiegare ogni problema dell’Africa con il tribalismo?
     Questo è uno degli strani doppi standard: avete avuto una delle peggiori guerre tribali in Jugoslavia ma naturalmente nessuno usa questa parola per quei luoghi. C’è stata la guerra tra le tribù del Kosovo e la tribù dei Serbi ma nessuno usa la parola ‘tribù’ in quel contesto; avete guerre tribali tra siciliani e tribù del Nord Italia, tribù del Nord Italia volevano l’indipendenza, a quanto ne so; l’Irlanda ha avuto la sua guerra tribale, così la Russia con la Cecenia. Perciò è riduttivo parlare di guerre tribali in Africa, è questa riduttività che impedisce agli europei di vedere le cause profonde dei conflitti nelle società africane.

Lei è uno scrittore politicamente impegnato: la cultura può modificare le opinioni? Quanto può la cultura influenzare le scelte dei politici?
     Non sono sicuro di cercare di cambiare le opinioni di chi mi legge. Piuttosto cerco di cambiare la condotta dei politici riflettendo quello che è nella coscienza della gente. Il 75% del mio lavoro è riflettere come la gente vede le cose, trasmetterle per cambiare l’atteggiamento dei leader. Ma non bisogna concentrarsi solo sui libri per trasmettere le idee, io cerco di sfruttare anche gli altri mezzi di divulgazione, giornali, teatro. Amo molto un tipo di teatro che chiamerei “di guerriglia”, che si basa sull’improvvisazione, giocando su temi familiari a tutti. E’ un teatro che si rappresenta all’aperto, nelle piazze del mercato- è quello che mi piace fare. E non dimentichiamo poi la radio come mezzo di diffusione per le idee: tanta gente ascolta la radio.

Parlando di cultura e dell’influenza della cultura: Lei insegna in università americane e conosce molto bene quell’ambiente. Che cosa ha osservato nel comportamento degli intellettuali americani nei confronti degli avvenimenti contemporanei?
    Una parte del problema della classe intellettuale americana di oggi è da individuarsi in quello che definirei un senso di “stanchezza della guerra”. Non sono stanchi solo della guerra in Iraq, ma dei cicli ripetitivi di lotta contro la tendenza reazionaria propria della società americana. Ad esempio, trovo difficile riuscire a credere che, dopo essere passati attraverso l’esperienza traumatica della guerra in Vietnam, si possa ricadere nell’errore di farsi coinvolgere in un conflitto di proporzioni gigantesche. Prima delle ultime elezioni presidenziali ci fu un’enorme mobilitazione dei progressisti per assicurarsi che Bush non venisse rieletto ma, dopo la sua rielezione, quelli che si erano attivati erano sfiniti, gli riusciva impossibile credere di avere fallito, che Bush fosse di nuovo presidente. E’ quello che voglio dire con “stanchezza della guerra”. E’ questione di sentirsi traditi dal sistema in cui credono, sentirsi traditi dalla democrazia. Stanchezza, sfinimento, un arrendersi, un pensare ‘aspettiamo le prossime elezioni’.

Questo suo libro, “Sul far del giorno”, è pieno di ricordi di persone che ha amato e che sono morte e di persone che ha odiato e che sono morte. Un nome per il primo gruppo, quello del suo amico Femi: il libro è anche una sorta di canto d’amicizia, un’elegia all’amicizia?
Femi Falana e Wole Soyinka
    Sì, lo è, proprio così. Devo anche dire che ho avuto molti problemi con la prima stesura del libro. Non volevo scriverlo e non solo perché sostengo che le autobiografie non dovrebbero mai superare l’età dell’innocenza- e io l’ho superata da un pezzo e su di quella ho scritto “Aké. Gli anni dell’infanzia”. Ma la risposta alla sua domanda spiega parte della difficoltà della scrittura. Quando il mio editor lesse quello che avevo scritto, trovò che era bellissimo, commovente. Disse che capiva che quella con Femi era stata un’amicizia importante, ma nel libro, così come lo avevo scritto, era Femi il protagonista, e loro volevano me. Il fatto è che non sapevo mai quando era la mia vita di cui parlavo e quando era la vita di Femi- questo dovrebbe spiegare l’importanza di Femi nella mia vita. E se l’avesse conosciuto ne capirebbe il perché ancora meglio: Femi era “larger than life” , una figura che si imponeva, che giganteggiava. E quanto avrebbe goduto di essere con me adesso nei ristoranti italiani!

I miti africani, la cultura africana, affiorano molto spesso nel suo libro. Lei è anche poeta: quanto della sua poesia è debitrice della tradizione orale africana?
     Molto, ma non sta a me dirlo, tocca ai critici letterari individuare i miei debiti. Per spiegare dirò che uno dei miei drammi, scritto in inglese, “La morte e il cavaliere del re”, è stato tradotto in lingua yoruba dallo scrittore Akinshola. Quando gli è stato chiesto se fosse stato difficile, ha risposto di no, che semplicemente ha ritradotto l’opera nella lingua in cui era stata pensata.

Una delle conseguenze dell’aver vinto il premio Nobel è stata per Lei la possibilità di mettere in piedi la Fondazione Saggio, così chiamata in onore di suo padre. Ce ne vuole parlare?
     Mi è successo quello che capita ai nuovi ricchi, mi sono trovato con tanti soldi e tante idee, ecco perché è nata la Fondazione. Poi succede anche che chi non ha mai avuto soldi non si rende conto di quanto velocemente scompaia il denaro. E’ una fondazione che si propone di offrire a scrittori e studiosi una possibilità di risiedere in un luogo ritirato dove possano applicarsi in tranquillità. Purtroppo ci ha pensato il dittatore Abacha a distruggere questo luogo.  Adesso pare che si riesca a riprendere il progetto- sarà rilanciato formalmente alla fine dell’anno.

Un’ultima domanda sul futuro dell’Africa: è possibile che l’Africa riesca ad offrire un modello di economia alternativa da opporre alla globalizzazione?
     Inizio col dire che certi aspetti della globalizzazione sono inevitabili, che la globalizzazione ha iniziato ad essere quando si sono espansi i contatti e le comunicazioni. Il problema è su come sia diventata e chi abbia dettato i termini del suo divenire: la globalizzazione è stata guidata secondo i termini delle nazioni più sviluppate a spese di quelle meno sviluppate. L’Africa può competere con l’Occidente se riesce a creare il suo modello di rapporti economici interni. Il segreto del successo è nell’unione delle associazioni economiche che stanno sorgendo in Africa. E’ quanto necessario per confrontarsi su basi uguali con i paesi del mondo occidentale. Una conseguenza di un rafforzamento dell’economia sarà, inoltre, la diffusione della cultura: economia e cultura sono collegate e dipendenti.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"



                                                                                                 

giovedì 23 ottobre 2014

Eva Stachniak, "Il Palazzo d'Inverno" ed. 2014

                                                                Voci da mondi diversi
  la Storia nel romanzo
  fresco di lettura


Eva Stachniak, “Il Palazzo d’Inverno”
Ed. Beat, trad. Ada Arduini, pagg. 409, Euro 13,90
Titolo originale: The Winter Palace

     Il giorno del matrimonio, venerdì 21 agosto, l’imperatrice in persona contribuì al trucco e alla vestizione della sposa. Le diede un tocco di belletto alle guance, le mise la corona ducale sui capelli appena arricciati e la strinse forte prima che la sarta effettuasse gli ultimi ritocchi.
   “Un giorno pieno di gioia” dichiarò Elisabetta. “Un nuovo inizio”.
   Fu un giorno di trombe e di timpani, di centoventi carrozze che lasciarono il Palazzo d’Inverno dirette verso la chiesa.


     1744. Si chiama ancora Sofia Anhalt-Zerbst. Ha quattordici anni. Arriva a San Pietroburgo, magra, con il mento a punta, le calze rammendate: è stata scelta come fidanzata del granduca Pietro, nipote e futuro erede della zarina Elisabetta, Imperatrice di Russia.
     1765. Da vent’anni ormai il suo nome non è più Sofia- solo il suo amante polacco, Stanisław Poniatowski, la chiama così nell’intimità. Convertendosi alla religione ortodossa ha preso il nome di Caterina, come la moglie di Pietro il Grande, l’Imperatore che aveva realizzato il sogno della città sulla Neva, la finestra della Russia sull’Occidente.
La storia della ragazzina che diventa un’imperatrice illuminata e amata viene raccontata da una persona che le era molto vicino,  quasi sua coetanea, quasi un suo doppio, perché Barbara- o Varvara, la versione russa del suo nome- è anche lei ‘straniera’ in Russia, figlia di un legatore polacco emigrato in cerca di migliori guadagni che aveva acquistato rispetto alla corte di Elisabetta. Tanto che, rimasta orfana, a Varvara viene trovata un’occupazione al seguito dell’Imperatrice: sarà la ‘lingua’, la spia che ascolta e riferisce qualunque chiacchiera, pettegolezzo, qualunque occhiata abbia osservato, o biglietto passato di mano. E noi lettori abbiamo l’impressione di sbirciare attraverso uno spioncino vent’anni di Storia. Figure grandi rimpicciolite, a tratti deformate dall’angolazione particolare, figure che rimangono nell’ombra e poi appaiono nel centro del minuscolo obiettivo, bisbigli e voci che si alzano di tono.

    Succedono tante cose nell’arco di vent’anni. Cose che cambiano la vita della piccola principessa Sofia- il matrimonio infelice con il granduca che non riesce a consumare le nozze, un primo amante, un secondo, un terzo: a Elisabetta non importa chi abbia messo incinta Caterina. Importa solo che il trono abbia un erede. Cambia Caterina che diventa donna soffrendo e poi gioendo ma in segreto, e poi straziata dal vedersi portare via prima il bambino dato alla luce a rischio della vita, e poi anche la bambina figlia di Stanisław, l’uomo che ha acceso di luce i suoi giorni: come può una madre accontentarsi di vedere i figli una volta alla settimana? Meglio allora la vita del suo doppio, di Varvara che, proprio come Sofia/Caterina, ha sposato l’uomo che l’imperatrice ha scelto per lei, ma ha potuto almeno godere appieno della maternità e ha visto il marito addolcirsi accanto alla piccola Darja. Anche Varvara cambia negli anni. Impara ad apprezzare l’infelice granduchessa, diventa quasi una sorella maggiore per lei, schermandola e proteggendola, favorendo i suoi incontri clandestini, vivendo un’altra esistenza attraverso lei. E dopo, quando il gioco politico si fa più sottile- ha rischiato parecchio, la Russia, con alleanze non gradite ma volute dal prussiano granduca Pietro (un grosso bambino mai cresciuto che gioca con i soldatini schierati per la guerra)- Varvara si schiera dalla parte di Caterina nei giorni convulsi che portano al colpo di stato che la instaura non come reggente ma come imperatrice di tutte le Russie.

   Il passare del tempo non è riflesso soltanto nella crescita e nei cambiamenti dei personaggi nell’affascinante romanzo di Eva Stachniak. Si modifica lentamente anche una parte del popolo russo, stanco dell’ostentata ricchezza e degli sprechi dell’entourage imperiale (quindicimila abiti da sera nel guardaroba di Elisabetta che non metteva mai due volte lo stesso vestito), viene splendidamente rifatto il Palazzo d’Inverno dall’italiano Rastrelli- un altro enorme dispendio di denaro, ma quale meraviglia! E le chiacchiere di Varvara ci portano da un palazzo all’altro, dal Palazzo d’Inverno al palazzo provvisorio, da quello di Oranienbaum a Carskoe Tselo e a Peterhof con le sue fontane zampillanti, tra fruscii di sete e broccati, tende e tappezzerie, nella sala d’ambra ammiccante di luci dorate, in corse in slitta sulla neve che scricchiola.
   “Il Palazzo d’Inverno” è un romanzo, non è pura Storia, è finzione narrativa, ma che bel romanzo, che rende viva la Storia, che ci avvicina ai grandi nomi che hanno fatto quella Storia introducendoci nei saloni dalla porta di servizio.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


       


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martedì 21 ottobre 2014

Roma Tearne, "Mosquito" ed. 2009

                                                           

Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato


Roma Tearne, “Mosquito”
Ed. e/o, trad. Riccardo Duranti, pagg. 330, Euro 18,50
Titolo originale: Mosquito

Insieme alle zanzare era arrivata una nuova razza di donne dalla parte settentrionale dell’isola. Come le zanzare, erano venute con la pioggia. Ma a differenza deglio insetti, le donne erano piene di un nuovo tipo di disperazione e una rabbia spaventosa. Il loro desiderio di vendetta era più grande del loro interesse nella vita. Erano state addestrate; un esercito intero di psicologi aveva instancabilmente lavorato su di loro per plasmare le loro menti impressionabili. Lo scopo della vita delle zanzare femmina è la continuazione della specie, ma alle kamikaze tamil del futuro non importava niente.

    Bella, come solo qualcosa che appartiene alla natura può essere, eppure mortale: è così che la zanzara della malaria diventa il simbolo dello Sri Lanka in “Mosquito”, l’ottimo primo romanzo di Roma Tearne, nata nello Sri Lanka ma emigrata a dieci anni con i genitori in Inghilterra, dove vive tuttora.
    L’inizio del romanzo può apparire quasi idilliaco: lo scrittore quarantacinquenne Theo Samarajeeva è tornato a vivere sull’isola dopo molti anni di assenza, abita in una casa quasi sulla spiaggia, con un giardino lussureggiante sorvegliato da due leoni di pietra; durante una sua lezione nel vicino collegio una studentessa gli fa delle domande, poi fa amicizia con lui, va a trovarlo, è una straordinaria pittrice, Theo se ne innamora. Eppure, anche in queste pagine per un certo verso romantiche, ci sono delle ombre, c’è come il rombo del tuono che si avvicina. Veniamo quasi subito a conoscenza della tragedia della giovane vita di Nulani: suo padre, un poeta, era stato barbaramente ucciso sotto i suoi occhi dai Tamil, l’etnia separatista che reclamava l’indipendenza- era bruciato come una torcia umana, senza che nessuno intervenisse a dargli aiuto.
Dobbiamo attendere più a lungo per sapere che cosa abbia riportato Theo nello Sri Lanka, con una guerra civile in corso- proprio lui, che è inviso ai singalesi per le sue simpatie verso i Tamil. E, comunque, sembra del tutto naturale che due persone che hanno entrambe subito gravi perdite e che hanno una sensibilità artistica che li avvicina, si innamorino nonostante la differenza d’età. Ma…anche nel giardino con la bouganvillea fiorita di Theo, proprio come nel giardino dell’Eden, si insinua il Male- qualcuno scaglia dentro un pollo, segno di malocchio, e poi si sentono dei rumori, e si vedono dei fari di un’automobile sulla strada. Quando Theo e Nulani si recano a Colombo, per mostrare i quadri di Nulani all’amico pittore di Theo, la loro auto viene fermata ai posti di blocco, devono fare una deviazione: un incidente? si potrebbe anche definire così, ma sarebbe meglio dire che c’è stato un attentato. Sono tutti segnali del pericolo che incombe, di quanto l’isola si sia trasformata durante l’assenza di Theo Samarajeeva. E un personaggio minore rappresenta bene tutto questo- Vikram, il ragazzo Tamil a cui è stata trucidata la famiglia. Lui, bambino, si era nascosto sotto il letto e aveva sentito le urla. Adesso è stato reclutato dalle Tigri e viene addestrato per delle azioni terroristiche: si deve svegliare l’attenzione del mondo, solo la violenza estrema può focalizzare gli sguardi sulla piccola isola. 

     Finirà che Theo sarà una vittima di questa violenza, proprio lui, ‘un uomo bravo’, come lo definisce il suo servitore (splendida figura niente affatto servile), un uomo che credeva di essere coraggioso fino a che non sarà umiliato, piegato, spezzato dalla tortura, sia fisicamente sia spiritualmente. Theo perderà anche la memoria: è per proteggere dalle brutture della guerra quello che ha di più caro? Certamente- se la memoria è ‘l’occhio benedetto della solitudine’ (come dice Wordsworth)- con la memoria Theo perde anche una possibilità di conforto. E l’arte? A che cosa serve l’arte in un mondo cruento? A Theo hanno spezzato le dita, non riesce a scrivere; gli amici di Theo hanno messo in salvo Nulani, ma- l’aveva scritto Theo in un romanzo- “Nessuno dovrebbe andare in esilio. Perché è un’umiliazione troppo difficile da superare.”
     Lasciamo al lettore il piacere di scoprire che cosa accada ai personaggi di questo libro che è veramente molto bello, percorso com’è da una forte tensione tra i due estremi dell’amore e della morte, della bontà e della bellezza che si scontrano contro la spietatezza e la violenza, scritto in uno stile pittorico. Solo a lettura terminata siamo a venuti a conoscenza del fatto che Roma Tearne è anche pittrice, proprio come Nulani, e non ce ne siamo stupiti. Perché solo una scrittrice pittrice poteva rendere in un modo così visivamente vivido i paesaggi, le atmosfere, persino la realtà nascosta che filtra attraverso i quadri della sua protagonista pittrice.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




domenica 19 ottobre 2014

Roberto Ampuero

                                                Voci da mondi diversi. America Latina
                                                 un autore




Roberto Ampuero (Valparaíso, 1953), dopo aver studiato letteratura all’Avana e negli Stati Uniti, ha lavorato per quindici anni come giornalista a Bonn e ha esordito con grande successo nel 1993 con il romanzo Chi ha ucciso Cristian Kustermann (vincitore del Premio de Novela El Mercurio). I suoi libri sono pubblicati in Spagna, Sudamerica, Brasile, Portogallo, Francia, Germania, Grecia, Svezia, Cina e in Italia sono editi da Garzanti. Roberto Ampuero è scrittore, giornalista e ha insegnato all’Università dell’Iowa. Nel 2011 è stato nominato ambasciatore del Cile in Messico, dove attualmente risiede.




Roberto Ampuero, "Il sicario di Fidel" ed. 2011

                                                Voci da mondi diversi. America Latina
                                                             cento sfumature di giallo
    il libro ritrovato    

Roberto Ampuero, “Il sicario di Fidel”
Ed. Garzanti, trad. Stefania Cherchi, pagg. 345, Euro 19,60

      Il grande poeta Pablo Neruda aveva rubato la scena a Cayetano Brulé già nel romanzo precedente di Roberto Ampuero, “Il caso Neruda”. In questo nuovo libro, “Il sicario di Fidel”, è nientedimeno che Fidel Castro a soppiantare il proletario dell’investigazione, il detective di Valparaíso che è nato a Cuba e sfoggia dei baffoni alla Pancho Villa, nel ruolo di protagonista. Perché ancora una volta Roberto Ampuero tesse una storia di delitti, di inseguimenti, di misteri e di indagini per raccontarci una parte della storia dell’America Latina. Una parte piccola, vista da un’angolatura ristretta, ma che lascia immaginare un quadro più ampio.
   L’azione dura poco meno di due mesi, dal 5 gennaio al 26 di febbraio. Inizia a L’Avana, con l’arresto del generale Horacio De la Serna, accusato di aver diretto l’operazione Foros con l’obiettivo di uccidere ‘il Comandante’. Osserviamo tra parentesi che questo personaggio- che verrà condannato a morte- porta il secondo cognome (quello della famiglia materna) di Ernesto Che Guevara, una delle molte persone vicinissime a Fidel (di certo il più famoso) che ad un certo punto scomparvero, vittime di agguati, incidenti, esecuzioni. Come Camilo Cienfuegos. O il generale Ochoa.
L’operazione Foros era stata programmata da Revolucion Democratica, il partito dei cubani espatriati a Miami che continuavano a tramare per abbattere il regime di Fidel e poter così ritornare in possesso delle loro proprietà sull’isola. Anche se Fidel era convinto che ci fosse la Cia dietro di loro. Niente affatto, anzi. Da adesso la trama si fa serratissima seguendo filoni diversi: il cubano che è a capo di Revolucion Democratica contatta l’unico uomo che può essere in grado di uccidere Fidel, mentre la Cia contatta il nostro Cayetano Brulé perché scopra chi sia il killer. Ci penseranno poi gli uomini della Cia a fermarlo. Perché, nonostante tutto, gli Stati Uniti non vogliono che cambi qualcosa a Cuba, non è nel loro interesse in questo momento.

     Da Miami ad un’isola sperduta nell’estremo Sud del Cile per contattare il sicario: vive qui, in totale isolamento l’uomo disilluso che aveva combattuto nelle Truppe speciali cubane e che si lascia convincere a tornare in campo. Dall’isola di Chiloé a Berlino e poi a San Pietroburgo: questo il percorso del killer che arriverà a Cuba dopo aver affidato un cane ad un diplomatico (strapagato per tenere il cane nel suo giardino a L’Avana). Mentre invece Cayetano vola dal Cile a Chicago, irretito dalla Cia che non gli lascia alcuna possibilità di rifiutare l’incarico. Si metterà poi sulle tracce del killer seguendo le orme del mandante. Destinazione finale: L’Avana.
    E’ inutile dire che la nuova ‘indagine’ di Cayetano Brulé è singolare: non deve scoprire l’assassino per inchiodarlo con la sua colpa, ma deve scoprirlo per impedirgli di uccidere un uomo che- e noi lettori lo sappiamo benissimo- non ucciderà. ‘L’uomo con la barba’ (o ‘il Comandante’) si aggira in tutto il romanzo, un Fidel stanco e ammalato che soffre di insonnia e di notte scivola in auto lungo le strade dell’Avana, scortato e accompagnato da fedeli guardie del corpo. Governa un’isola passiva che si è arresa nell’inerzia, che aspetta che prima o poi il Comandante muoia di morte naturale.
   C’è un filo conduttore tra “Il caso Neruda” e “Il sicario di Fidel” ed è il tema della desolazione per la fine di un’utopia, vista attraverso l’occhio di Cayetano, il ‘private eye’. Cayetano era giovane nel primo romanzo quando era testimone della fine di Allende in Cile. Ora, quasi quarant’anni più tardi, l’utopia si sta sgretolando nella sua roccaforte più luminosa e Cayetano si interroga se sia giusto quello che sta facendo, ritardandone la fine.

      Anche se sappiamo che Fidel non è stato ucciso in un attentato, siamo trascinati nella vicenda, un po’ perché il brivido c’è (muoiono altri, al posto di Fidel), un po’ perché siamo incuriositi dai dettagli del piano e poi perché siamo conquistati dal fascino decadente di Cuba e dalla sua arte della sopravvivenza.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net