Voci da mondi diversi. Africa
Premio Nobel 1986
il libro ritrovato
Wole Soyinka, “Sul far del giorno”
Ed. Frassinelli, trad. Alessandra
Di Maio e Valeria Bastia, pagg. 706, Euro 18,50
Il seguito di “Aké. Gli anni
dell’infanzia”, seconda parte dell’autobiografia di Wole Soyinka, premio Nobel
1986. Una vita impegnata, come difensore dei diritti umani, come studioso,
letterato e drammaturgo, sempre presente sulla scena politica del suo paese
tormentato da dittature e guerre. Soyinka alterna i toni aspri della critica
politica a quelli elegiaci della nostalgia per un caro amico morto e per la sua
terra dalla lontananza dell’esilio, a quelli umoristici di varie vicissitudini,
incluso il conferimento del premio a Stoccolma.
RECENSIONE E INTERVISTA A WOLE SOYINKA, autore di “Sul far del giorno”
In Nigeria, dove Wole Soyinka è nato nel 1934, la gente si rivolge a lui
chiamandolo oga, che in lingua yoruba
significa “capo”, un riconoscimento informale colmo di affetto e ammirazione
nei confronti di uno scrittore che ha sempre preso parte in prima persona alla
vita politica del suo paese, esponendosi senza riserve per denunciare le colpe
dei regimi dittatoriali che si sono succeduti con un ritmo incessante dal 1960,
data della fine del dominio britannico: nove colpi di stato in 33 anni. Nella
vita personale di Soyinka hanno significato due anni e 4 mesi di prigione, tra
il 1967 e il 1969, accusato di simpatizzare con i secessionisti del nord, e
l’esilio del 1995, quando gli fu consigliato di lasciare il paese per sfuggire
al presidente Abacha, l’uomo che faceva presagire a Soyinka l’avvicinarsi del
buio a mezzogiorno descritto da Koestler, il capo della Nigeria “con il
cervello di una lucertola”, quello dei tre D come “dittatore, demente,
debosciato”.
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Sani Abacha |
Le memorie di Soyinka contenute
nel libro appena pubblicato da Frassinelli iniziano a ritroso proprio dal suo
ritorno “nel luogo dal quale non sarei mai dovuto andare via”, nel 1998 dopo la
morte di Abacha, e ricostruiscono la sua vita intrecciata inestricabilmente con
quella della Nigeria, traboccante di avvenimenti, azioni e pensieri, incontri e
scontri, molti riconoscimenti ma anche molti drammi. Ci sono alcuni temi
ricorrenti che servono da leit motiv in questa voluminosa e ricca
autobiografia- la strada, l’amicizia, la morte, l’esilio, l’impegno civile e
letterario.
“Viandante, mettiti in strada/ Sul far del
giorno/ Ti garantisco meraviglie in quell’ora santa”, sono i versi di Soyinka
che danno il titolo al libro e introducono il tema della strada, descritta come
una lanterna magica, come una compagna o complice nella ricerca di un’autoanalisi.
E l’alba, ci dice Soyinka, è il momento che preferisce per mettersi in viaggio,
il migliore per sentire le esalazioni della strada. La strada come esperienza,
come luogo per la solitudine e per le amicizie, per le riflessioni, le
discussioni e i ricordi.
Primo fra tutti quello dell’amico Femi, il cui corpo
Soyinka ha da poco riaccompagnato in Nigeria per la sepoltura, una delle molte
persone morte evocate in queste pagine, compagni di viaggio lasciati per strada
cosicché diventa difficile per lui ormai trovare punti di riferimento: è morto
suo padre, che già nel libro di memorie “Aké” veniva chiamato Saggio, sono
morti scrittori suoi amici perseguitati dai regimi, è morto avvelenato Abiola,
il presidente defraudato della vittoria nel 1993. Ma Wole Soyinka si identifica
con Ogun il dio yoruba lirico e guerriero, dio “della strada frenetica e della
solitudine creativa, del richiamo poetico e del grido di battaglia”, e non
demorde. Soyinka crede che ci sia una missione da compiere, quella di
continuare a far battere il cuore della nazione anche dopo che “un dittatore
demente” ne ha bevuto il sangue- dopotutto era stato l’amico Femi a dire che si
sarebbe potuto affidare il proprio cuore a lui, Soyinka, e partire per Hong Kong,
certi di ritrovarlo che batteva ancora al ritorno. E le armi sono quelle dello
scrittore, la penna, il palcoscenico per diffondere le idee, per mobilitare la
gente denunciando pubblicamente i traditori. Non poteva mancare il
riconoscimento del premio Nobel ad uno scrittore della statura morale e
intellettuale di Wole Soyinka. Che non si smentisce mai, perché, dopo il
conferimento del premio nel 1986, rifiutò i festeggiamenti offerti dal governo
del presidente Babangida finché non si fosse fatta luce sulla morte del
giornalista investigativo De Giwa.
Fa una certa qual impressione ritrovare
nell’adulto Soyinka, e poi nell’uomo anziano che sfoggia un’incredibile corona
di capelli bianchi che lo rende immediatamente riconoscibile (più di una volta
Soyinka ricorda episodi in cui ha dovuto nascondere i capelli sotto un grosso
berretto per non essere identificato), il bambino Wole di “Aké. Gli anni
dell’infanzia”, il primo libro dell’autobiografia dello scrittore. E’ come se
ci aspettassimo che il bambino curioso e intraprendente che seguiva sulle sue
gambette una banda che suonava, senza neppure sapere dove stesse andando, che a
tre anni si era impuntato per andare a scuola, che polemizzava su tutto,
facendo domande estenuanti, sarebbe diventato l’uomo che giganteggia nelle
pagine di “Sul far del giorno”, tanto appassionato nella ricerca di un’antica
maschera bronzea, nel gustare vini francesi e italiani (“chi può resistere a un
invito a Siena?”), nel collezionare oggetti d’arte, quanto nel programmare una
marcia per far cadere il tiranno, nella difesa dei diritti umani e nella lotta
per la giustizia, prima condizione per l’umanità. Impossibile poltrire per
avere una vita così piena e ricca: “Viandante, mettiti in strada sul far del
giorno…”. Stilos ha intervistato Wole Soyinka che attualmente vive tra gli
Stati Uniti e la Nigeria,
insegnando nelle università di entrambi i paesi.
In passato Lei ha detto che la religione è la fonte del fanatismo- può
la religione aiutare a combattere il fanatismo?
Penso di aver detto che
la religione certamente si presta al fanatismo, ma non è solo la religione a
creare i fanatici, anche le ideologie secolari allevano fanatici, e con
fanatico intendo qualcuno che si aggrappa a certi credi, certi modi di vita,
senza la capacità di esaminare oggettivamente delle alternative. Il tipo
peggiore di fanatico è quello che pensa di avere il diritto di uccidere,
torturare, disumanizzare gli altri in nome di quello in cui crede. Penso che la
religione- anche se storicamente ha dato alla luce in proporzione il numero più
alto di fanatici- possa essere interpretata selettivamente in maniera positiva:
non c’è nessuna religione che dica che uccidere è essenziale. Se interpreti la
religione selezionando testi che si concentrano sulla disumanizzazione degli
altri, allora puoi usare la religione per uccidere.
Che cosa pensa della situazione nel delta del Niger e della tendenza
che abbiamo in Europa a spiegare ogni problema dell’Africa con il tribalismo?
Questo è uno degli
strani doppi standard: avete avuto una delle peggiori guerre tribali in
Jugoslavia ma naturalmente nessuno usa questa parola per quei luoghi. C’è stata
la guerra tra le tribù del Kosovo e la tribù dei Serbi ma nessuno usa la parola
‘tribù’ in quel contesto; avete guerre tribali tra siciliani e tribù del Nord
Italia, tribù del Nord Italia volevano l’indipendenza, a quanto ne so;
l’Irlanda ha avuto la sua guerra tribale, così la Russia con la Cecenia. Perciò è
riduttivo parlare di guerre tribali in Africa, è questa riduttività che
impedisce agli europei di vedere le cause profonde dei conflitti nelle società
africane.
Lei è uno scrittore politicamente impegnato: la cultura può modificare
le opinioni? Quanto può la cultura influenzare le scelte dei politici?
Non sono sicuro di
cercare di cambiare le opinioni di chi mi legge. Piuttosto cerco di cambiare la
condotta dei politici riflettendo quello che è nella coscienza della gente. Il
75% del mio lavoro è riflettere come la gente vede le cose, trasmetterle per
cambiare l’atteggiamento dei leader. Ma non bisogna concentrarsi solo sui libri
per trasmettere le idee, io cerco di sfruttare anche gli altri mezzi di
divulgazione, giornali, teatro. Amo molto un tipo di teatro che chiamerei “di
guerriglia”, che si basa sull’improvvisazione, giocando su temi familiari a
tutti. E’ un teatro che si rappresenta all’aperto, nelle piazze del mercato- è
quello che mi piace fare. E non dimentichiamo poi la radio come mezzo di
diffusione per le idee: tanta gente ascolta la radio.
Parlando di cultura e dell’influenza della cultura: Lei insegna in
università americane e conosce molto bene quell’ambiente. Che cosa ha osservato
nel comportamento degli intellettuali americani nei confronti degli avvenimenti
contemporanei?
Una parte del problema
della classe intellettuale americana di oggi è da individuarsi in quello che
definirei un senso di “stanchezza della guerra”. Non sono stanchi solo della
guerra in Iraq, ma dei cicli ripetitivi di lotta contro la tendenza reazionaria
propria della società americana. Ad esempio, trovo difficile riuscire a credere
che, dopo essere passati attraverso l’esperienza traumatica della guerra in
Vietnam, si possa ricadere nell’errore di farsi coinvolgere in un conflitto di
proporzioni gigantesche. Prima delle ultime elezioni presidenziali ci fu un’enorme
mobilitazione dei progressisti per assicurarsi che Bush non venisse rieletto ma, dopo la sua rielezione, quelli che si
erano attivati erano sfiniti, gli riusciva impossibile credere di avere
fallito, che Bush fosse di nuovo presidente. E’ quello che voglio dire con
“stanchezza della guerra”. E’ questione di sentirsi traditi dal sistema in cui
credono, sentirsi traditi dalla democrazia. Stanchezza, sfinimento, un
arrendersi, un pensare ‘aspettiamo le prossime elezioni’.
Questo suo libro, “Sul far del giorno”, è pieno di ricordi di persone
che ha amato e che sono morte e di persone che ha odiato e che sono morte. Un
nome per il primo gruppo, quello del suo amico Femi: il libro è anche una sorta
di canto d’amicizia, un’elegia all’amicizia?
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Femi Falana e Wole Soyinka |
Sì, lo è, proprio così.
Devo anche dire che ho avuto molti problemi con la prima stesura del libro. Non
volevo scriverlo e non solo perché sostengo che le autobiografie non dovrebbero
mai superare l’età dell’innocenza- e io l’ho superata da un pezzo e su di quella
ho scritto “Aké. Gli anni dell’infanzia”. Ma la risposta alla sua domanda
spiega parte della difficoltà della scrittura. Quando il mio editor lesse
quello che avevo scritto, trovò che era bellissimo, commovente. Disse che
capiva che quella con Femi era stata un’amicizia importante, ma nel libro, così
come lo avevo scritto, era Femi il protagonista, e loro volevano me. Il fatto è
che non sapevo mai quando era la mia vita di cui parlavo e quando era la vita
di Femi- questo dovrebbe spiegare l’importanza di Femi nella mia vita. E se
l’avesse conosciuto ne capirebbe il perché ancora meglio: Femi era “larger than
life” , una figura che si imponeva, che giganteggiava. E quanto avrebbe goduto
di essere con me adesso nei ristoranti italiani!
I miti africani, la cultura africana, affiorano molto spesso nel suo
libro. Lei è anche poeta: quanto della sua poesia è debitrice della tradizione
orale africana?
Molto, ma non sta a me
dirlo, tocca ai critici letterari individuare i miei debiti. Per spiegare dirò
che uno dei miei drammi, scritto in inglese, “La morte e il cavaliere del re”,
è stato tradotto in lingua yoruba dallo scrittore Akinshola. Quando gli è stato
chiesto se fosse stato difficile, ha risposto di no, che semplicemente ha
ritradotto l’opera nella lingua in cui era stata pensata.
Una delle conseguenze dell’aver vinto il premio Nobel è stata per Lei
la possibilità di mettere in piedi la Fondazione Saggio,
così chiamata in onore di suo padre. Ce ne vuole parlare?
Mi è successo quello che
capita ai nuovi ricchi, mi sono trovato con tanti soldi e tante idee, ecco
perché è nata la Fondazione. Poi
succede anche che chi non ha mai avuto soldi non si rende conto di quanto
velocemente scompaia il denaro. E’ una fondazione che si propone di offrire a
scrittori e studiosi una possibilità di risiedere in un luogo ritirato dove
possano applicarsi in tranquillità. Purtroppo ci ha pensato il dittatore Abacha
a distruggere questo luogo. Adesso pare
che si riesca a riprendere il progetto- sarà rilanciato formalmente alla fine
dell’anno.
Un’ultima domanda sul futuro dell’Africa: è possibile che l’Africa
riesca ad offrire un modello di economia alternativa da opporre alla
globalizzazione?
Inizio col dire che
certi aspetti della globalizzazione sono inevitabili, che la globalizzazione ha
iniziato ad essere quando si sono espansi i contatti e le comunicazioni. Il
problema è su come sia diventata e chi abbia dettato i termini del suo
divenire: la globalizzazione è stata guidata secondo i termini delle nazioni
più sviluppate a spese di quelle meno sviluppate. L’Africa può competere con
l’Occidente se riesce a creare il suo modello di rapporti economici interni. Il
segreto del successo è nell’unione delle associazioni economiche che stanno
sorgendo in Africa. E’ quanto necessario per confrontarsi su basi uguali con i
paesi del mondo occidentale. Una conseguenza di un rafforzamento dell’economia
sarà, inoltre, la diffusione della cultura: economia e cultura sono collegate e
dipendenti.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"